Camminai per le vie di Endymion e cercai d’affrontare il fatto che ero vissuto, ero morto ed ero di nuovo vivo.
Voglio precisare che gli eventi… il processo, l’esecuzione, il bizzarro incontro con il leggendario poeta… non mi lasciavano freddo come questo resoconto potrebbe far credere. Una parte di me era scossa fin nell’intimo. Avevano cercato di uccidermi! Volevo dare la colpa alla Pax, ma i tribunali non erano emanazione della Pax… non direttamente, almeno. Hyperion aveva il suo Consiglio Autonomo e i tribunali di Port Romance erano istituiti secondo i nostri metodi. La pena capitale non era un’inevitabile sentenza della Pax, soprattutto in quei pianeti dove la Chiesa governava per mezzo della teocrazia, ma un residuo dei vecchi tempi coloniali di Hyperion. Il rapido processo, l’inevitabile risultato e l’esecuzione sommaria erano, al massimo, la conferma che i pezzi grossi dell’economia di Hyperion e di Port Romance avevano terrore di spaventare i turisti provenienti da altri pianeti della Pax. Io ero un bifolco, una guida per cacciatori che aveva ucciso il ricco turista assegnato alle mie cure: dovevo servire da pubblico esempio. Nient’altro. Non dovevo prenderlo come un affronto personale.
Lo ritenni invece un affronto più che personale! Mi soffermai fuori della torre, sentendo il calore del sole riflettersi dalle larghe pietre che lastricavano il cortile, e alzai lentamente le mani. Tremavano. Troppi eventi si erano susseguiti troppo rapidamente e la mia forzata calma durante il processo e il breve periodo precedente l’esecuzione era stata troppo per me.
Scossi la testa e camminai lentamente fra le rovine dell’università. La città, Endymion, era stata costruita sul ciglio di una montagna e l’università si trovava ancora più in alto lungo la cresta, per cui il panorama verso sud e verso est era magnifico. Nella valle, foreste di chalma splendevano di giallo vivido. Il cielo azzurro era privo di scie di condensazione e di traffico aereo. La Pax, lo sapevo, non aveva alcun interesse per Endymion, mentre invece sorvegliava con i suoi soldati la regione dell’altopiano Punta d’Ala, a nordest, e con i robot raccoglieva ancora quegli eccezionali simbionti, i crucimorfi; ma questa parte del continente era stata vietata per tanti di quei decenni che ora pareva una regione nuova, selvaggia.
In dieci minuti d’ozioso girovagare mi resi conto che solo la torre e gli edifici circostanti parevano occupati. Il resto dell’università era in uno stato di completa rovina… le grandi aule erano aperte agli elementi, il centro medico era stato saccheggiato secoli prima, i campi da gioco erano invasi dalle erbacce, la cupola dell’osservatorio era crollata… e la città più in basso lungo la montagna pareva ancora più derelitta. Grovigli di legno weir e di rampicanti kudzu si erano impadroniti d’interi isolati.
Capivo che ai suoi tempi l’università era stata molto bella: edifici post-Egira e neo-gotici erano stati costruiti con blocchi d’arenaria delle cave situate poco lontano nelle colline ai piedi dell’altopiano Punta d’Ala. Tre anni prima, quando avevo lavorato come assistente del famoso artista di paesaggi, Avrol Hume, facendo quasi tutto il lavoro pesante mentre lui ridisegnava le tenute della Prima Famiglia lungo la prestigiosa costa del Becco, la richiesta più frequente riguardava le "stravaganze", surrogati di rovine posti intorno a un laghetto o in una foresta o in cima a un colle. Avevo raggiunto una certa abilità nel disporre vecchie pietre in artificioso stato di disfacimento per simulare rovine (molte delle quali assurdamente più antiche della razza umana su quel mondo della Periferia), ma nessuna delle stravaganze di Hume era splendida come queste rovine vere. Vagai fra le ossa di quella che un tempo era stata una grande università, ammirai l’architettura e pensai alla mia famiglia.
Gran parte delle famiglie indigene aggiungeva per tradizione al proprio nome quello di una città locale; e la mia famiglia era davvero indigena, discendeva dai primi pionieri giunti su navi coloniali quasi sette secoli prima… cittadini di terza classe nel nostro stesso mondo. Di terza classe adesso, dopo l’arrivo degli stranieri della Pax e dei coloni dell’Egira, giunti due secoli dopo i miei antenati. Allora il mio popolo era vissuto e aveva lavorato in quelle valli e fra quelle montagne. Per la maggior parte, ne ero sicuro, i miei parenti indigeni avevano faticato in lavori servili, come mio padre, prima della sua morte prematura quando io avevo otto anni, come mia madre fino alla sua morte, cinque anni dopo, e come me fino a questa settimana. Mia nonna era nata dieci anni dopo che la Pax aveva fatto sloggiare tutti da quelle regioni; ma Nonna era tanto vecchia da ricordare i giorni in cui i nostri clan familiari vagavano fino all’altopiano Punta d’Ala e lavoravano nelle piantagioni di fibroplastica a sud di Endymion.
Non avevo l’impressione di tornare a casa. La mia casa era la gelida brughiera a nordest. Le paludi a nord di Port Romance erano state invece il luogo dove avevo scelto di vivere e di lavorare. Questa città e questi edifici universitari non avevano mai fatto parte della mia vita e per me non avevano più importanza delle fantastiche storie dei Canti del vecchio poeta.
Ai piedi di una torre mi fermai per riprendere fiato e meditare su quest’ultimo pensiero. Se l’offerta del poeta era reale, per me ora le "fantastiche storie dei Canti" avrebbero avuto importanza. Pensai a Nonna, a come recitava quel poema… ricordai le notti passate a badare alle pecore nelle montagne del nord, i carrozzoni a batteria raccolti in cerchio, i bassi fuochi di cottura del tutto insufficienti a diminuire lo splendore delle costellazioni e degli sciami di meteore… ricordai il tono lento e misurato di Nonna che terminava ogni stanza e aspettava che gliela ripetessi, ricordai la mia impazienza (avrei preferito leggere un libro a lume di lanterna) e sorrisi al pensiero che stasera avrei cenato con l’autore di quei versi. Anzi, il vecchio poeta era addirittura uno dei sette pellegrini di cui parlava il poema.
Scossi di nuovo la testa. Troppi eventi. Troppo in fretta.
C’era qualcosa di bizzarro, nella torre. Più larga e più massiccia di quella in cui mi ero svegliato, aveva una sola finestra, un architrave aperto, a trenta metri da terra. Cosa ancora più interessante, un muro di mattoni sostituiva la porta originaria. Con l’occhio allenato da stagioni trascorse a sistemare mattoni e pietre sotto la guida di Avrol Hume, calcolai che la porta era stata chiusa prima che tutti abbandonassero quella zona, un secolo fa… ma non molto di più.
Ancora oggi non so che cosa, di quell’edificio, m’incuriosì, mentre c’erano tante altre rovine da esplorare. Ricordo d’avere guardato il ripido fianco di montagna dietro la torre e di aver notato la massa di frondosi chalma che ricoprivano l’edificio come edera dalla spessa corteccia. Chi si arrampicasse sul fianco della montagna, pensai allora, ed entrasse nel boschetto di chalma, proprio in quel punto, potrebbe strisciare sul quel ramo sporgente e si troverebbe a sfiorare il davanzale di quella solitaria finestra…
Scossi di nuovo la testa. Che stupidaggine! Nel caso migliore, l’infantile spedizione si sarebbe risolta in abiti strappati e mani graffiate. Nel caso peggiore, in una caduta da trenta metri sulle pietre del lastrico. Perché correre il rischio? Cosa poteva esserci, in quella vecchia torre murata, a parte ragni e ragnatele?
Dieci minuti dopo ero ben avanti sul nodoso ramo di chalma e procedevo un centimetro alla volta, cercando di restare appeso grazie alle fessure tra le pietre o ai tralci più grossi dei rampicanti. Il ramo cresceva contro la parete di pietra e quindi non potevo mettermi a cavalcioni, ma dovevo avanzare strisciando sulle ginocchia, perché i rampicanti in alto non mi permettevano di stare in piedi: l’impressione d’essere allo scoperto, spinto verso l’esterno, era terrificante. Ogni volta che il vento d’autunno scuoteva le fronde e i rami, smettevo d’avanzare e badavo solo a restare aggrappato.
Finalmente arrivai alla finestra e allora cominciai a imprecare sottovoce. I miei calcoli, così facili dal cortile, trenta metri più in basso, erano leggermente inesatti. In realtà il davanzale della finestra si trovava circa tre metri più in alto del ramo di chalma. In quel tratto le pietre non offrivano appigli. Per raggiungere il davanzale potevo solo spiccare un balzo e augurarmi che le dita riuscissero a fare presa. Era una follia. Niente, nella torre, poteva giustificare un simile rischio.
Aspettai che il vento calasse, presi lo slancio e spiccai il balzo. Per un istante di terrore graffiai con le dita la pietra sgretolata e la polvere, spezzandomi le unghie, senza trovare un appiglio; poi incontrai i resti dell’antico davanzale e riuscii a fare presa. Mi tirai su, ansimando, strisciando sui gomiti e strappandomi la camicia. Con le morbide scarpe avute da A. Bettik raschiai le pietre per fare leva.
Alla fine mi ritrovai rannicchiato sul davanzale e solo allora mi domandai come diavolo avrei fatto a ridiscendere sul ramo di chalma. Il problema divenne molto più serio appena scrutai nella penombra della torre.
— Merda santa — mormorai, a nessuno in particolare. Proprio sotto il davanzale c’era un vecchio pianerottolo di legno, ma in pratica la torre era vuota. Dalla finestra i raggi di sole illuminavano, sopra e sotto il pianerottolo, pezzi di una scala marcia che seguiva a chiocciola la parete interna, un po’ come i rampicanti avvolgevano l’esterno; ma la parte centrale della torre era fitta tenebra. Diedi un’occhiata in alto e a una trentina di metri scorsi puntini di luce trapelare da quello che forse un tempo era stato un soffitto di legno e mi resi conto che l’edificio era poco più d’un silo per granaglie abbellito, un enorme cilindro di pietra alto sessanta metri. Non c’era da stupirsi che avesse avuto bisogno di una finestra sola. Né che la porta fosse stata murata ancora prima che la gente sfollasse da Endymion.
Sempre appollaiato sul davanzale (non mi fidavo a scendere sul pianerottolo) scossi la testa: un giorno o l’altro la curiosità m’avrebbe ucciso.
Poi, scrutando l’oscurità così diversa dal luminoso pomeriggio esterno, mi accorsi che nella torre il buio era eccessivo. Non riuscivo a vedere la parete opposta, né la scala dall’altra parte. I raggi di sole illuminavano l’interno di pietra, mi consentivano di vedere la scala di legno e l’intero cilindro per alcuni metri più in alto… ma, dritto davanti a me, l’interno non c’era, semplicemente.
— Cristo — mormorai. Qualcosa occupava la torre.
Piano piano, attento a mantenere la maggior parte del peso sulle braccia aggrappate al davanzale, mi calai sul pianerottolo. Il legno scricchiolò, ma pareva abbastanza solido. Senza mollare la presa, lasciai andare sul ripiano quasi tutto il peso e mi girai a guardare.
Impiegai un intero minuto per capire che cosa avevo davanti agli occhi. Una spazionave occupava la torre come un proiettile nella camera di scoppio di un’antica rivoltella.
Mi staccai dalla finestra, lasciai che tutto il peso gravasse sul pianerottolo, senza badare se il legno mi avrebbe sostenuto, e avanzai per guardare meglio.
La nave non era lunga, in rapporto alla media dei veicoli spaziali: forse toccava i cinquanta metri ed era assai snella. Il metallo dello scafo, se metallo era, di un nero opaco, pareva assorbire la luce: non aveva una patina lucente, non mandava riflessi. Scorgevo il contorno della nave solo come contrasto con la parete di pietra, nel punto dove la luce non veniva più riflessa.
Nemmeno per un istante dubitai che fosse una nave spaziale: era fin troppo astronave. Una volta avevo letto che su centinaia di pianeti i bambini, per disegnare una casa, ancora adesso tracciano un quadrato con un triangolo in cima e una nuvoletta di fumo che esce da un camino rettangolare… anche se abitano un modulo a crescita organica di un albero residenziale ricavato dall’RNA. Analogamente disegnano le montagne come piramidi tipo il Matterhorn, anche se quelle che vedono nei dintorni hanno la cima arrotondata come le alture alla base dell’altopiano Punta d’Ala. Non ricordo quale sia la ragione, secondo l’autore dell’articolo: memoria razziale, forse, o il fatto che il cervello è predisposto per certi simboli.
L’oggetto che guardavo, che scrutavo, che vedevo soprattutto come spazio negativo, non era tanto astronave, quanto ASTRONAVE.
Ho avuto occasione di vedere immagini dei più antichi razzi della Vecchia Terra… pre-Pax, pre-Caduta, pre-Egemonia, pre-Egira, diamine, quasi pre-Tutto… ed erano simili a quella chiazza di tenebra. Alta, sottile, rastremata alle estremità, appuntita in cima e munita di pinne alla base… guardavo la perfetta immagine simbolica dell’ASTRONAVE.
Su Hyperion non esistevano astronavi private né astronavi fuori posto. Ne ero sicuro. I veicoli spaziali, anche del semplice tipo planetario, erano troppo costosi e troppo rari perché rimanessero abbandonati in vecchie torri di pietra. In un certo momento, secoli prima della Caduta, quando le risorse della Rete dei Mondi parevano illimitate, c’era stata forse una pletora di veicoli spaziali… navi militari della FORCE, diplomatiche dell’Egemonia, governative dei vari pianeti; navi di enti pubblici, di fondazioni; navi per la colonizzazione; addirittura alcune navi private di eccentrici ipermiliardari… ma perfino in quei tempi solo un’economia a livello planetario poteva permettersi di costruire un’astronave. In vita mia (e nella vita di mia madre e di mia nonna e delle loro madri e nonne) solo la Pax, il consorzio fra la Chiesa e un appena abbozzato governo interstellare, poteva permettersi navi spaziali. E nessun individuo nell’universo conosciuto, neppure Sua Santità su Pacem, poteva permettersi un’astronave privata.
Ma quella davanti a me era un’astronave. Lo sapevo. Non chiedetemi come facessi: lo sapevo e basta.
Senza badare al rovinoso stato dei gradini, andai su e giù per la scala a chiocciola. Lo scafo si trovava a quattro metri da me. Il suo insondabile colore nero mi dava le vertigini. Quindici metri più in basso, appena visibile al limitare della curva che lo nascondeva, un pianerottolo si protendeva fin quasi a toccare lo scafo.
Scesi di corsa. Un gradino si sbriciolò sotto i miei piedi, ma scendevo a tale velocità che me ne accorsi appena.
Il pianerottolo non aveva ringhiera, si protendeva come un trampolino. Se fossi caduto, mi sarei di sicuro rotto qualche osso e sarei rimasto nel buio in una torre murata. Non ci pensai minimamente; andai avanti e posai la mano contro lo scafo della nave.
Lo scafo era tiepido. Non dava la sensazione del metallo, pareva piuttosto la liscia pelle di una creatura addormentata. L’impressione era accresciuta da un lieve movimento: lo scafo vibrava, come se la nave respirasse. Mi pareva si sentire sotto la mano il battito di un cuore.
All’improvviso ci fu vero movimento: lo scafo si ripiegò… senza alzarsi col movimento meccanico di certi portali da me visti e di sicuro senza ruotare su cardini; si ripiegò su se stesso, semplicemente, come labbra che scoprano i denti.
Si accesero delle luci. Un corridoio interno, il cui soffitto e le cui pareti erano organici come la fuggevole visione di un collo d’utero meccanico, brillò di luce soffusa.
Esitai circa tre nanosecondi. Per anni la mia vita era stata tranquilla e prevedibile come quella della maggior parte della gente. L’ultima settimana avevo accidentalmente ucciso un uomo, ero stato condannato e giustiziato, mi ero risvegliato nella storia preferita di Nonna. Perché fermarmi lì?
Entrai nella nave spaziale. La porta si ripiegò alle mie spalle, simile a una bocca affamata che si chiuda sopra un pezzetto di cibo.
Il corridoio era diverso da come mi sarei aspettato. Avevo sempre creduto che l’interno dei veicoli spaziali fosse simile alla stiva delle imbarcazioni per il trasporto truppe che avevano trasferito a Ursus il nostro reggimento della Guardia Nazionale: metallo grigio, bulloni, portelli chiusi da grappe, sibilanti tubazioni di vapore. Lì non si vedeva niente di simile. Il corridoio era liscio, ricurvo, quasi informe; le pareti erano rivestite d’ottimo legno, tiepido e organico come carne. Se c’era una camera stagna, non l’avevo vista. Luci nascoste si accendevano man mano che avanzavo e si spegnevano dopo il mio passaggio, lasciandomi in una piccola pozza di luce, con il buio davanti e dietro. La nave non poteva avere un diametro superiore ai dieci metri, ma la lieve curvatura del corridoio dava l’impressione che fosse più ampia di quanto non sembrasse dall’esterno.
Il corridoio terminava in quello che doveva essere il centro della nave: un pozzo con al centro una scala a chiocciola metallica che si perdeva nel buio, in alto e in basso. Posai il piede sul primo gradino e dall’alto provenne luce. Immaginavo che le parti più interessanti della nave si trovassero in alto e perciò iniziai la salita.
Il primo ponte occupava l’intera sezione della nave e conteneva un’antiquata piazzola di proiezione olografica del tipo che avevo visto in vecchi libri, alcune sedie e alcuni tavolini in uno stile che non conoscevo e un pianoforte a coda. Qui dovrei dire che neppure una persona su diecimila, nata su Hyperion, avrebbe riconosciuto in quel mobile un pianoforte… e soprattutto un pianoforte a coda. Sia mia madre sia Nonna erano appassionate di musica e un pianoforte riempiva gran parte dello spazio di uno dei nostri carrozzoni a batteria. Molte volte avevo sentito zii e nonno lamentarsi dell’ingombro e del peso dello strumento, parlando di tutti i joule d’energia sprecati per trasportare nelle brughiere di Aquila quel pesante aggeggio pre-Egira e del comune buon senso di tenere invece un sintetizzatore tascabile in grado di creare la musica di qualsiasi pianoforte e di ogni altro strumento. Ma mia madre e Nonna erano ostinate: niente al mondo avrebbe uguagliato il suono di un vero pianoforte, anche se andava accordato dopo ogni spostamento. E il nonno e gli zii non si lamentavano, quando di notte, intorno al fuoco, Nonna suonava Rachmaninoff o Bach o Mozart. Da lei imparai molte cose sui migliori pianoforti della storia… compresi i pianoforti a coda pre-Egira. Ora ne avevo uno sotto gli occhi.
Non badai alla piazzola di proiezione e al mobilio, non badai alla parete trasparente che mostrava solo le scure pietre della torre: mi accostai al pianoforte. La scritta dorata sopra la tastiera diceva: STEINWAY. Emisi un fischio e accarezzai i tasti, senza il coraggio di premerne uno. Secondo Nonna, quella ditta aveva smesso di fabbricare pianoforti ancora prima del Grande Errore del ’38 e dopo l’Egira nessun altro pianoforte era stato fabbricato. Toccavo uno strumento antico almeno mille anni. Gli Steinway e gli Stradivari erano una leggenda, fra noi appassionati di musica. Possibile che quel pianoforte fosse autentico? mi domandai, sfiorando i tasti che davano la sensazione del leggendario avorio… le zanne di un animale estinto, detto elefante. Esseri umani come il vecchio poeta potevano forse sopravvivere dai giorni pre-Egira (in teoria una simile eventualità era plausibile, grazie ai trattamenti Poulsen e alla sospensione criogenica), ma un manufatto di legno, di corde metalliche e d’avorio aveva ben poche possibilità di compiere quel lungo viaggio nel tempo e nello spazio.
Suonai un accordo: do-mi-sol-si bemolle. E poi un accordo in do maggiore. Il tono era privo di pecche, l’acustica della spazionave era perfetta. Il nostro vecchio piano verticale aveva bisogno d’essere accordato da Nonna dopo ogni spostamento di qualche miglio nelle brughiere, ma questo strumento pareva accordato alla perfezione, anche dopo un viaggio d’innumerevoli secoli e anni luce.
Presi lo sgabello, mi sedetti e cominciai a suonare Per Elisa. Un brano sdolcinato, semplice, ma mi pareva adatto al silenzio e alla solitudine di quel luogo buio. A dire il vero, le luci parvero attenuarsi intorno a me, mentre le note riempivano la sala circolare ed echeggiavano su e giù nel buio pozzo delle scale. Pensai a Mamma e a Nonna: non avrebbero mai immaginato che le mie prime lezioni di piano m’avrebbero condotto a quell’a solo in una nave spaziale nascosta. La tristezza di quel pensiero parve contagiare la musica.
Al termine, staccai di scatto le dita dalla tastiera, quasi con un senso di colpa per la mia presunzione: suonare così malamente, su quel magnifico pianoforte, su quel dono del passato, un pezzo così semplice. Rimasi nel silenzio qualche momento, facendomi domande sulla nave, sul vecchio poeta, sul mio posto in quel folle disegno.
«Molto bello» disse piano una voce alle mie spalle.
Confesso che sobbalzai. Non avevo udito nessuno salire o scendere la scaletta, non avevo percepito nessuna presenza estranea nella sala. Girai di scatto la testa.
Non c’era nessuno.
«Da qualche tempo non ho più sentito suonare quel brano» disse di nuovo la voce. Pareva provenire dal centro stesso della sala. «Il mio precedente passeggero preferiva Rachmaninoff.»
Appoggiai la mano sullo sgabello, per riprendermi, e pensai tutte le sciocche domande che potevo evitare di porre.
— Sei la nave? — domandai infine, senza sapere se fosse anche quella una domanda sciocca: desideravo una risposta.
«È ovvio» disse la voce. Era bassa, vagamente maschile. Avevo già udito macchine parlanti (erano in giro da sempre), ma mai una che fosse davvero intelligente. Da più di due secoli, la Chiesa e la Pax avevano messo al bando tutte le vere Intelligenze Artificiali; e la maggior parte dei trilioni di persone sui mille pianeti devastati, dopo aver visto come il TecnoNucleo avesse aiutati gli Ouster a distruggere l’Egemonia, aveva approvato di cuore. Mi resi conto che la mia programmazione personale a quel riguardo era stata efficace: al pensiero di parlare a un meccanismo senziente avevo le palme umide di sudore e un senso di costrizione alla gola.
— Chi era il tuo… ah… precedente passeggero? — domandai.
La voce parve esitare un microsecondo. «Quel signore era generalmente conosciuto come il Console» disse poi. «Per gran parte della vita aveva svolto incarichi diplomatici per conto dell’Egemonia.»
Toccò a me esitare. Mi venne in mente che forse l’"esecuzione" a Port Romance mi aveva strapazzato i neuroni a un punto tale che ora pensavo di vivere in un poema epico di Nonna.
— Che fine ha fatto il Console? — domandai. «È morto» rispose la nave. Forse nella voce c’era una lievissima traccia di rimpianto.
— Come? — Alla fine dei Canti del vecchio poeta si diceva che, dopo la Caduta dei Mondi della Rete, il Console dell’Egemonia aveva lasciato Hyperion e riportato nella Rete la nave. Possibile che fosse la stessa? — Dove morì? — chiesi ancora. Secondo i Canti, nella nave del Console era stata infusa la personalità del secondo cìbrido John Keats.
«Non lo so» rispose la nave. «Non ricordo dove il Console è morto. Ricordo solo che è morto. Allora sono tornata qui. Presumo che una simile direttiva fosse già programmata nei miei banchi comando.»
— Hai un nome? — domandai, con una certa curiosità di sapere se parlavo alla personalità IA di John Keats.
«No. Solo nave.» Ancora una volta ci fu un silenzio che pareva proprio una pausa. «Però mi pare di ricordare che a un certo punto ho avuto un nome.»
— Era John? O Johnny?
«Può darsi. I particolari sono poco chiari.»
— Come mai? La tua memoria funziona male?
«No, affatto. Da quanto posso dedurre, circa duecento anni standard fa si verificò un evento traumatico che cancellò alcuni ricordi, ma da allora la mia memoria e le mie altre facoltà sono state impeccabili.»
— Ma non ricordi l’evento? Il trauma?
«No» rispose la nave, con una certa allegria. «Ritengo che si sia verificato in concomitanza con la morte del Console e col mio ritorno su Hyperion, ma non posso dirlo con sicurezza.»
— E dopo? Dopo il ritorno sei rimasta nascosta qui in questa torre?
«Sì. Per un certo periodo fui nella Città dei Poeti, ma per la maggior parte degli ultimi due secoli locali sono stata qui.»
— Chi ti ci ha portato?
«Martin Sileno. Il poeta. Lei l’ha incontrato oggi.»
— Lo sai?
«Oh, sì. Ho comunicato io al signor Sileno i dati relativi al processo e all’esecuzione. L’ho aiutato a corrompere i funzionari e a organizzare il suo trasferimento qui.»
— Come ci sei riuscita? — L’idea di quella massiccia e arcaica nave al telefono era troppo assurda perché la prendessi in considerazione.
«Hyperion non ha una vera e propria sfera dati, ma io intercetto tutte le trasmissioni in libera microonda e via satellite, oltre ad alcune bande maser e a fibra ottica, ritenute "sicure", nelle quali mi sono inserita.»
— Allora fai la spia per il vecchio poeta.
«Sì.»
— E cosa sai dei piani che ha nei miei riguardi? — domandai, girandomi di nuovo verso la tastiera e iniziando l’Aria sulla IV corda di Bach.
— Signor Endymion — disse una voce diversa, alle mie spalle.
Smisi di suonare e mi girai: A. Bettik, l’androide, era fermo sulla scala a chiocciola.
— Il mio padrone si preoccupava che lei si fosse perduto — disse A. Bettik. — Sono venuto a mostrarle la strada per tornare alla torre. Ha giusto il tempo di cambiarsi per cena.
Scrollai le spalle e mi avviai alla scala. Prima di seguire quell’uomo dalla pelle azzurra, mi girai e dissi alla sala che già si oscurava: — È stato bello parlare con te, Nave.
«Sono lieta d’avere fatto la sua conoscenza, signor Endymion» disse la nave. «La rivedrò presto.»