Il grattacielo non era l’unico edificio sepolto nel ghiaccio: l’atmosfera risublimata di Sol Draconis Septem ricopriva un’intera città, un pezzetto dell’antica hybris dell’Egemonia lì sepolta come un preistorico insetto imprigionato nell’ambra.
Padre Glauco era un uomo gentile, allegro, generoso. Presto venimmo a sapere che era stato punito con l’esilio su Sol Draconis Septem perché apparteneva a uno degli ultimi ordini teilhardiani della Chiesa. Quando Papa Giulio VI aveva promulgato una bolla per condannare la filosofia dell’antipapa, l’ordine di padre Glauco aveva rigettato i canoni di Teilhard, ma era stato ugualmente sciolto e i suoi appartenenti erano stati scomunicati o esiliati sui pianeti più sperduti del dominio della Pax. Padre Glauco non considerava esilio i suoi cinquantasette anni standard su quella tomba di ghiaccio… li definiva la sua missione.
Pur riconoscendo che i Chitchatuk non avevano mai mostrato il minimo interesse per la conversione, padre Glauco ci confessò d’avere ben poco interesse a convertirli. Ammirava il loro coraggio, rispettava la loro onestà ed era affascinato dalla loro cultura guadagnata a caro prezzo. Prima di perdere la vista (cecità da neve, la chiamò, non semplice cataratta: una combinazione di freddo, di vuoto e delle radiazioni dure che colpivano la superficie del pianeta) aveva viaggiato con numerose bande Chitchatuk. — A quel tempo erano più numerose — ci disse, mentre ce ne stavamo seduti nel suo studio vividamente illuminato. — Il logorio ha preteso il suo tributo. Cinquant’anni fa in questa regione c’erano decine di migliaia di Chitchatuk; oggi ne sopravvivono solo alcune centinaia.
I primi giorni, mentre Aenea, A. Bettik e il prete cieco parlavano, trascorsi la maggior parte del tempo a esplorare la città sepolta.
Padre Glauco teneva illuminati quattro piani dell’alto edificio usando lanterne a pastiglie di combustibile. — Per tenere lontano gli spettri artici — spiegò. — Odiano la luce. — Trovai una scala e scesi nelle tenebre, tenendo pronte una torcia e la carabina. Una ventina di piani più in basso, un alveare di ghiaccio portava ad altri edifici della città sepolta. Vari decenni prima, padre Glauco aveva contrassegnato a pennaluce gli ingressi: magazzino, tribunale, centro trasmissioni, palazzo dell’Egemonia, albergo e così via. Esplorai alcuni edifici e notai i segni delle più recenti visite del prete. Al terzo sopralluogo trovai le profonde cripte dove erano immagazzinate le pastiglie di combustibile ad alta energia. Quelle pastiglie erano la fonte del calore e della luce del vecchio prete e costituivano inoltre la sua principale merce di scambio per ricevere le visite dei Chitchatuk.
— Gli spettri artici danno loro tutto, tranne materiale combustibile — ci disse. — Le pastiglie danno loro luce e un briciolo di calore. Ci piace fare baratti: loro mi danno carne e pelli di spettro artico, io contraccambio con luce e calore e garrula conversazione. Penso che abbiano cominciato a parlare con me perché la mia banda consisteva del più elegante numero primo… uno! All’inizio tenevo segreta la località del tesoro. Ora so che i Chitchatuk non mi deruberebbero mai. Neppure se ne andasse della loro vita. Neppure se ne andasse della vita dei loro bambini!
Non c’era molto da vedere, nella città sepolta. Laggiù il buio era assoluto e la mia torcia faceva ben poco per disperderlo. Se avevo nutrito speranze di trovare un facile mezzo per scendere il fiume fino al secondo portale (un grosso saldatore ad acetilene, per esempio, o una trivella a fusione) quelle speranze furono presto spazzate via. La città, fatta eccezione per i quattro piani occupati da padre Glauco, con mobilio e libri, luce, cibo, calore e conversazione, era gelida e morta come il nono girone dell’inferno.
Il terzo o quarto giorno, proprio prima dell’ora di pranzo, mi unii agli altri che chiacchieravano nello studio del vecchio prete. Avevo già dato un’occhiata ai libri negli scaffali: volumi di filosofia e di teologia, romanzi polizieschi, testi d’astronomia, studi d’etnologia, tomi di neoantropologia, romanzi d’avventura, manuali di carpenteria, testi di medicina, libri di zoologia…
«Il motivo di maggiore tristezza per la perdita della vista, trent’anni fa» aveva detto padre Glauco, quel primo giorno, quando ci aveva mostrato con orgoglio la biblioteca «fu l’impossibilità di leggere i miei amati libri. Sono Prospero al contrario. Non potete immaginare il tempo che impiegai a trasportare quassù, dalla libreria cinquanta piani più sotto, questi tremila volumi!»
Nei pomeriggi, mentre io andavo in esplorazione e A. Bettik leggeva per suo conto, Aenea leggeva ad alta voce per il vecchio prete. Una volta entrai senza bussare e vidi le lacrime sulle guance del vecchio missionario.
Quel giorno, quando mi unii a loro, sentii che padre Glauco parlava di Teilhard… il gesuita storico, non l’antipapa deposto da Giulio VI.
— Era un portaferiti nella Prima guerra mondiale — diceva in quel momento padre Glauco. — Poteva fare il cappellano militare e stare lontano dalla prima linea, ma preferì fare il portaferiti. Per il suo coraggio gli conferirono delle medaglie, compresa l’onorificenza detta Legion d’Onore.
A. Bettik si schiarì educatamente la voce. — Mi scusi, Padre — disse sottovoce. — Sbaglio nel presumere che la Prima guerra mondiale sia stato un conflitto pre-Egira limitato alla Vecchia Terra?
Il prete sorrise. — Non sbaglia, non sbaglia, mio caro amico. Primi anni del XX secolo. Terribile conflitto. Terribile. E Teilhard era nel cuore degli scontri. L’odio per la guerra restò in lui tutta la vita.
Molto tempo prima padre Glauco si era costruito una sedia a dondolo e ora si dondolò davanti al fuoco di pastiglie acceso in un caminetto costruito alla buona. Le braci dorate gettavano lunghe ombre ed emanavano più calore di quanto non avessimo goduto dal momento in cui avevamo varcato l’arcata del teleporter. — Teilhard era geologo e paleontologo — riprese padre Glauco. — Nel 1930, mentre si trovava in Cina, una nazione della Vecchia Terra, elaborò la teoria in base alla quale l’evoluzione era un processo incompleto, tuttavia un processo fondato su di un disegno. Egli vide l’universo come un progetto di Dio per riunire in una singola entità consapevole il Cristo dell’Evoluzione, il Personale e l’Universale. Teilhard de Chardin vide ogni passo dell’evoluzione come un segno pieno di speranza… perfino le estinzioni di massa, come motivo di gioia… la cosmogenesi, parola sua, come conseguenza dell’umanità divenuta centrale all’universo, la noogenesi come il passo seguente dell’evoluzione della mente umana, l’umanizzazione e l’ultraumanizzazione come gli stadi dell’Homo sapiens che si evolveva verso la vera umanità.
— Mi scusi, Padre — dissi, con mia sorpresa, solo in piccola parte consapevole dell’incongruità di quella discussione astratta nel cuore della città sepolta, sotto l’atmosfera congelata, in un ambiente di feroci spettri artici e di gelo — ma l’eresia di Teilhard non sosteneva che l’umanità si poteva evolvere in Dio?
Padre Glauco scosse la testa, con espressione sempre amabile. — In vita sua, figliolo, Teilhard non fu mai tacciato d’eresia. Nel 1962 il Sant’Uffizio… qualcosa di molto diverso, a quel tempo, ve l’assicuro… emanò un monitum…
— Un cosa? — intervenne Aenea, che era seduta sul tappeto davanti al fuoco.
— Un monitum, cioè un avvertimento contro l’accettazione acritica delle sue idee — spiegò padre Glauco. — E Teilhard non disse che gli esseri umani sarebbero divenuti Dio. Disse che l’intero universo consapevole era parte di un processo evolutivo verso il giorno… lo chiamò Punto Omega… in cui tutto il creato, umanità inclusa, sarebbe diventato tutt’uno con la Divinità.
— Teilhard avrebbe incluso il TecnoNucleo in questa evoluzione? — domandò piano Aenea. Si stringeva le ginocchia.
Padre Glauco smise di dondolarsi e con le dita si pettinò la barba. — Gli studiosi di Teilhard hanno dibattuto con vigore per secoli questo argomento, mia cara. Non sono uno studioso, ma sono sicuro che nel suo ottimismo Teilhard avrebbe incluso il Nucleo.
— Ma le Intelligenze Artificiali discendono dalle macchine — obiettò A. Bettik. — E il loro concetto d’Intelligenza Finale è totalmente diverso da quello cristiano: una mente fredda e spassionata, una capacità di previsione in grado di contemplare tutte le variabili.
Padre Glauco annuiva. — Ma le IA pensano, figliolo. I primi loro progenitori dotati di consapevolezza furono progettati dal DNA vivente…
— Progettati dal DNA per calcolare - intervenni, atterrito al pensiero che, parlando di anima, alle macchine del Nucleo si concedesse il beneficio del dubbio.
— E per cos’era progettato il nostro DNA, nei primi cento milioni di anni, figliolo? Mangiare? Uccidere? Procreare? Eravamo, agli inizi, meno ignobili delle Intelligenze Artificiali pre-Egira basate su silicio e DNA? Come avrebbe detto Teilhard, è la coscienza ciò che Dio ha creato per accelerare la consapevolezza dell’universo come mezzo per capire la Sua volontà.
— Il TecnoNucleo — dissi — voleva usare la razza umana come parte del progetto per l’Intelligenza Finale e poi distruggerci.
— Ma non ci ha distrutti — replicò padre Glauco.
— Non grazie al Nucleo.
— L’umanità si è evoluta, fino al punto in cui si è evoluta, senza ringraziamenti ai suoi predecessori né a se stessa — disse il vecchio prete. — L’evoluzione porta esseri umani. Gli esseri umani, attraverso un procedimento lungo e doloroso, portano umanità.
— Empatia — mormorò Aenea.
Padre Glauco girò nella sua direzione gli occhi ciechi. — Esatto, mia cara. Ma noi non siamo la sola incarnazione della razza umana. Appena raggiunta la consapevolezza, le nostre macchine calcolatrici sono diventate parte di questo disegno. Potranno opporre resistenza. Potranno cercare di disfarlo per i loro complessi fini. Ma l’universo continua a intessere il proprio disegno.
— Lei fa in modo che l’universo e i suoi processi sembrino una macchina — dissi. — Programmata, inarrestabile, inevitabile.
Il vecchio prete scosse lentamente la testa. — No, no… una macchina, mai. E mai inevitabile. La venuta di Cristo ci ha insegnato almeno una cosa: niente è inevitabile. Il risultato è sempre in dubbio. Siamo sempre noi a decidere per la luce o per le tenebre. Noi… e qualsiasi entità consapevole.
— Ma Teilhard pensava che la consapevolezza e l’empatia avrebbero vinto? — domandò Aenea.
Padre Glauco mosse la mano ossuta in direzione della scaffalatura alle spalle di Aenea. — Là dovrebbe esserci un libro… nel terzo ripiano… aveva un segnalibro azzurro, l’ultima volta che l’ho visto, trenta e passa anni fa. Lo vedi?
— Diari, appunti e corrispondenze di Teilhard de Chardin? — disse Aenea.
— Sì, sì. Aprilo dove c’è il segnalibro. Vedi il brano sottolineato? Una delle ultime cose che questi vecchi occhi hanno visto prima che scendessero le tenebre…
— L’annotazione datata 12 dicembre 1919? — domandò Aenea.
— Sì. Leggila, per favore.
Aenea accostò il libro alla luce del fuoco.
— "Si noti bene" — lesse. — "Non attribuisco alcun valore definitivo e assoluto alle varie costruzioni dell’uomo. Credo che scompariranno, riplasmate in un nuovo intero che ancora non possiamo concepire. Nello stesso tempo riconosco che hanno avuto un ruolo provvisorio essenziale: sono fasi necessarie, inevitabili, che noi (noi o la razza) dobbiamo percorrere nel corso della nostra metamorfosi. Ciò che amo in esse non è la loro forma particolare, ma la loro funzione, che è quella di costruire, in modo misterioso, prima qualcosa che possa essere reso divino, e poi, tramite la grazia di Cristo che illumina i nostri sforzi, qualcosa di divino."
Seguì un momento di silenzio, rotto solo dal lieve sibilo del fuoco e dagli scricchiolii e dai gemiti di decine di milioni di tonnellate di ghiaccio sopra e intorno a noi. Finalmente padre Glauco disse: — Quella speranza è l’eresia di Teilhard agli occhi dell’attuale papa. La fede in quella speranza fu il mio grande peccato. Questo… — indicò la parete esterna di ghiaccio e le tenebre che premevano contro il vetro — è il mio castigo.
Per qualche momento nessuno di noi aprì bocca.
Poi padre Glauco rise e posò sulle ginocchia le mani ossute. — Ma mia madre m’insegnò che non esiste castigo, né dolore, quando ci sono amici e cibo e conversazione. Tutte cose che qui abbiamo. Signor Bettik! Dico "signor Bettik" perché l’altra forma non le rende onore, anzi la emargina dall’umanità mediante la falsa invenzione di false categorie. Signor Bettik!
— Signore?
— Farebbe a questo vecchio il favore di andare in cucina a prendere il caffè che ormai dovrebbe essere pronto? Provvederò io allo stufato e al pane messi a scaldare. Signor Endymion?
— Sì, Padre?
— Le dispiacerebbe scendere in cantina e scegliere il vino della migliore annata disponibile?
Sorrisi, sapendo che il prete non poteva vedermi. — E quanti piani devo scendere, Padre, prima di trovare la cantina? Non cinquantanove, mi auguro.
Il vecchio ridacchiò fra la barba. — Bevo vino a ogni pasto, figliolo, quindi sarei in una migliore forma fisica, se fossi costretto a scendere e salire in continuazione. No, vecchio e pigro come sono, tengo il vino nel ripostiglio al piano sottostante. Accanto alla scala.
— Lo troverò — assicurai.
— Intanto apparecchio — disse Aenea. — E domani sera cucino io.
Ognuno andò a svolgere il proprio compito.