Il tappeto hawking appariva di sicuro come un lampo confuso, per la folle velocità con cui ci precipitammo alla nave. Domandai all’androide se la nave poteva inviarci in tempo reale un ologramma dello Shrike e lui rispose che quasi tutti i sensori dello scafo erano coperti di fango e quindi la nave non aveva una visuale chiara della spiaggia.
— Quel mostro è sulla spiaggia?
«C’era un attimo fa, quando ho portato fuori un altro carico» disse A. Bettik.
«E poi è stato nell’anello accumulatore del motore Hawking» intervenne la nave.
— Cosa? Non c’è ingresso, in quella parte della nave… — Mi bloccai, prima di fare del tutto la figura dell’idiota. — Ora dov’è? — soggiunsi.
«Non lo sappiamo con certezza» rispose A. Bettik. «Adesso esco sullo scafo e porto con me una radio. La nave farà da ponte.»
— Aspetta… — cominciai.
«Signor Endymion» m’interruppe l’androide «non ho chiamato per spingerla a precipitarsi qui, ma per suggerire a lei e alla signorina Aenea di… ah… di prolungare un poco l’esplorazione, finché la nave e io non avremo un’idea delle intenzioni del… ah… del nostro ospite.»
Capivo benissimo. Avevo l’incarico di proteggere la bambina, ma appena compariva quella che forse era la più micidiale macchina per uccidere dell’intera galassia, che cosa facevo, se non precipitarmi a capofitto incontro al pericolo? Per tutto il giorno mi ero comportato proprio da stupido. Allungai la mano sui fili di volo per rallentare il tappeto e virare a est.
Aenea mi bloccò. — No — disse. — Torniamo alla nave.
Scuotevo già la testa. — Quella creatura è…
— Quella creatura può andare dove vuole — m’interruppe la bambina. Era molto seria. — Se volesse me, o te, comparirebbe qui con noi sul tappeto.
Il pensiero mi spinse a guardarmi intorno.
— Torniamo alla nave — disse Aenea.
Con un sospiro modificai la rotta, ma rallentai un poco. Tolsi dallo zaino la carabina al plasma e raddrizzai il calcio pieghevole. — Non capisco — dissi. — Ci sono testimonianze che quel mostro abbia mai lasciato Hyperion?
— Non credo — rispose Aenea. Si era appoggiata alla mia schiena in modo da riparare dal vento il viso, perché il campo deflettore si era attenuato.
— Allora cosa combina? Segue te?
— Sembra un’ipotesi logica. — La voce era soffocata, perché Aenea parlava contro la mia camicia.
— Perché?
Aenea si scostò con tanta forza che d’istinto allungai la mano per impedirle di ruzzolare giù dal tappeto. Lei si ritrasse. — Raul, in realtà ancora non conosco le risposte a queste domande, va bene? Non sapevo se la creatura avrebbe lasciato Hyperion. Di sicuro non volevo che lasciasse il pianeta. Credimi.
— Ti credo — dissi. Abbassai sul tappeto la mano e notai quanto fosse grande, vicino alla sua manina, al suo ginocchio, al suo piede. Aenea mise la mano sulla mia. — Torniamo.
— D’accordo. — Innestai nella carabina un caricatore. Le cartucce al plasma non erano singole, ma restavano stampate nel caricatore fino al momento dello sparo. Un caricatore conteneva cinquanta dardi al plasma. Sparato l’ultimo, il caricatore non esisteva più. Lo inserii con una manata, come avevo imparato a fare nella Guardia, spostai su colpo singolo il selettore e mi accertai che la sicura fosse inserita. Tenni l’arma di traverso sulle ginocchia.
Aenea mi si aggrappò alle spalle e mi parlò nell’orecchio. — Credi che quell’affare serva a qualcosa contro lo Shrike?
Girai la testa e la guardai negli occhi. — No — risposi.
Volammo nel tramonto.
Al nostro arrivo, A. Bettik era da solo sulla stretta spiaggia. Agitò il braccio per rassicurarci e segnalarci che tutto era a posto, ma prima d’atterrare feci ancora un giro sopra gli alberi. Il sole era un globo rosso in equilibrio a ovest sul baldacchino della giungla.
Atterrai sulla sabbia, accanto alla pila di casse e d’attrezzature, all’ombra dello scafo, e balzai in piedi, impugnando la carabina con la sicura già disinserita.
— Non è più tornato — disse A. Bettik. Uscendo dalla nave, ci aveva informati per radio della scomparsa dello Shrike, ma io ero ancora teso. L’androide ci guidò a una zona sgombra dove la sabbia mostrava due impronte di piedi… difficile chiamarle orme: pareva che qualcuno avesse premuto sulla sabbia, in due punti, un grosso e pesante erpice a lame.
Mi accovacciai accanto alle impronte, da consumato battitore qual ero, ma capii subito quanto fosse stupido il mio comportamento. — Si è limitato a comparire prima qui, poi nella nave, e a scomparire? — domandai.
— Sì — confermò A. Bettik.
— Nave, hai avuto quella creatura sul radar o sui monitor?
«Negativo.» La risposta provenne dal comlog. «Non ho telecamere nell’accumulatore del motore Hawking…»
— Come sai che era lì?
«Ho un sensore di massa in ogni compartimento. Per volare, devo sapere con esattezza quanta massa si sposta in ogni sezione della nave.»
— E quanta massa si è spostata?
«Uno-virgola-zero-sei-tre tonnellate metriche» disse la nave.
Mi bloccai nell’atto di raddrizzarmi. — Cosa? Più di mille chili? È assurdo. — Guardai di nuovo le due impronte. — Impossibile.
«No, possibile. Durante la permanenza della creatura nell’anello accumulatore del motore Hawking, ho misurato un preciso spostamento di uno-virgola-zero-sei-tre tonnellate e…»
— Dio santo — dissi, rivolgendomi ad A. Bettik. — Chissà se qualcuno ha mai pesato quel bastardo prima d’ora.
— Lo Shrike è alto quasi tre metri — disse l’androide. — Potrebbe avere una densità notevole. Potrebbe anche variare la propria massa a seconda delle esigenze.
— Esigenze per cosa? — brontolai, guardando la linea d’alberi. Là sotto il buio era fitto, mentre il sole tramontava. In alto, le fronde delle gimnosperme catturarono l’ultima luce e si confusero. Le nuvole, comparse negli ultimi minuti del nostro viaggio, si arrossarono e poi divennero grigio smorto, mentre il tramonto svaniva.
— Sei pronta a fare il punto mediante le stelle? — dissi alla nave.
«Pronta. Ma sarà necessario che la cappa di nuvole si dissolva. Nel frattempo ho già fatto un paio d’altri calcoli.»
— Ossia? — domandò Aenea.
«Ossia ho calcolato, basandomi sul movimento del sole nelle ultime ore, che qui il giorno è lungo diciotto ore, sei minuti e cinquantuno secondi. Unità standard della vecchia Egemonia, ovviamente.»
— Ovviamente — ripetei. Mi rivolsi ad A. Bettik. — Nel tuo libro si parla di un mondo turistico del Teti, il cui giorno duri diciotto ore?
— Non mi è accaduto di trovarne nessuno, signor Endymion.
— E va bene. Parliamo allora di stanotte. Ci accampiamo qui, restiamo nella nave o carichiamo tutta la roba sulle aerociclette e in tutta fretta scendiamo a valle fino al prossimo portale? Potremmo portare con noi il canotto gonfiabile. Io voto a favore. Non ho nessuna voglia di restare su questo pianeta, se c’è in giro lo Shrike.
A. Bettik alzò un dito, come un bambino in aula. — Avrei dovuto comunicarglielo per radio prima… — disse, imbarazzato. — Il deposito delle attrezzature extra veicolari, come sa, è stato danneggiato durante l’attacco. Non c’è traccia di un canotto gonfiabile, anche se la nave ricorda che era compreso nell’inventario; inoltre, tre aerociclette sono danneggiate.
Corrugai la fronte. — Irrecuperabili?
— Sì, signore. Irrecuperabili. Secondo la nave, è possibile riparare la quarta, ma occorreranno alcuni giorni.
— Merda — dissi, a nessuno in particolare.
— Quanta carica hanno le aerociclette? — domandò Aenea.
«Cento ore, uso normale» cinguettò il comlog.
Aenea gesticolò con noncuranza. — Tanto, non credo che sarebbero molto utili. Una sola aerocicletta non farà la differenza. E ci sarebbe sempre il problema di trovare una fonte di ricarica.
Mi strofinai la guancia: avevo la barba lunga. Nell’eccitazione della giornata avevo dimenticato di radermi. — Ci avevo pensato — dissi. — Ma se prendiamo qualche bagaglio, il tappeto hawking non riuscirà a portare noi tre, più le armi, più i materiali che ci servono.
Pensavo che Aenea avrebbe trovato da ridire sulla necessità di materiali. Lei invece disse: — Prendiamo pure tutto, ma non andiamo in volo.
— Non andiamo in volo? — ripetei, sorpreso. Mi sentii male, all’idea di aprirci la strada nella giungla. — Senza il canotto, o usiamo il tappeto o andiamo a piedi…
— Possiamo sempre andare per fiume — replicò Aenea. — Potremmo costruire una zattera e farci portare dalla corrente… non solo in questo tratto di fiume, ma in tutti i fiumi.
Mi strofinai di nuovo la guancia. — La cascata…
— Possiamo servirci del tappeto per trasportare laggiù tutta la nostra roba domattina e costruire la zattera a valle della cascata. A meno che tu non pensi che non riusciremo a costruirla…
Guardai le gimnosperme: tronchi alti, sottili, robusti, proprio dello spessore adatto. — Possiamo costruirla — ammisi. — Sul Kans rabberciavamo spesso delle zattere per trasportare a valle la roba che non stava nelle chiatte.
— Bene — disse Aenea. — Stanotte ci accampiamo qui… non dovrebbe essere una notte molto lunga, se il giorno dura solo diciotto ore standard. Partiremo alle prime luci.
Esitai un momento. Non volevo abituarmi a lasciare che una bambina di dodici anni prendesse le decisioni per tutti, ma l’idea pareva assennata.
— Peccato che la nave sia kaput — dissi. — Avremmo potuto scendere il fiume usando i soli repulsori…
Aenea si mise a ridere. — Non ho mai pensato di percorrere il Teti su questa nave — rivelò, strofinandosi il naso. — Sarebbe proprio ciò di cui abbiamo bisogno: poco appariscente come un enorme dachsund che s’infili nelle porte da cricket.
— Cos’è un dachsund? — domandai.
— Cos’è una porta da cricket? — domandò A. Bettik.
— Niente, niente — disse Aenea. — Siete d’accordo per restare qui stanotte e costruire una zattera domani? Guardai l’androide.
— Mi pare una proposta eminentemente sensata — disse A. Bettik — per quanto sia un sottoinsieme di un viaggio altrettanto eminentemente insensato.
— Lo considero un voto a favore — disse Aenea. — Raul?
— D’accordo — risposi. — Ma dove dormiamo stanotte? Qui sulla spiaggia o nella nave, dove saremmo più al sicuro?
Intervenne la nave: «Provvederò a rendere il mio interno sicuro e ospitale quanto possibile, date le circostanze. Due delle cuccette di crio-fuga serviranno da letto e ci sono amache utilizzabili…»
— Voto per accamparci — disse Aenea. — Per quanto riguarda lo Shrike, la nave non è certo più sicura della spiaggia.
Guardai la foresta sempre più buia. — Potrebbero esserci altre creature che preferiremmo non incontrare nel buio — obiettai. — La nave pare più sicura.
A. Bettik toccò una cassetta. — Ho trovato alcuni piccoli allarmi perimetrici — disse. — Possiamo disporli intorno al campo. Sarei lieto di montare la guardia, stanotte. Ammetto di provare un ceno interesse nel dormire all’aria aperta, dopo tanti giorni a bordo della nave.
Sospirai e mi arresi. — Faremo la guardia a turno. Sistemiamo questa roba, prima che sia troppo buio.
La "roba" comprendeva l’attrezzatura da campeggio che avevo detto all’androide di portare a terra: una tenda di polimero microsottile, spessa quanto l’ombra d’una ragnatela, ma resistente, impermeabile e tanto leggera che la si poteva portare, ripiegata, in tasca; il termocubo di materiale superconduttore, freddo su cinque lati e sufficiente a scaldare qualsiasi pasto nel sesto; gli allarmi perimetrici menzionati da A. Bettik, in pratica una versione per cacciatori dei vecchi rivelatori di movimento militari, dischi di tre centimetri che potevano essere piantati a terra su di un qualsiasi perimetro fino a due chilometri d’estensione; sacchi a pelo, giacigli di schiuma infinitamente comprimibile, occhiali notturni, i ricetrasmettitori, attrezzature mensa e utensili vari.
Per prima cosa disponemmo gli allarmi, piantandoli in un semicerchio dal limitare della foresta al bordo del fiume.
— E se quell’enorme creatura striscia fuori del fiume e ci divora? — disse Aenea, mentre terminavamo di stabilire il perimetro. Ora il buio s’infittiva, ma le nuvole nascondevano le stelle. La brezza faceva frusciare le fronde con un rumore più sinistro di prima.
— Se quella creatura o qualsiasi altra striscia fuori del fiume e ci divora — dissi — rimpiangerai che non siamo rimasti nella nave ancora una notte. — Sistemai sul bordo del fiume l’ultimo rivelatore.
Alzammo la tenda al centro della spiaggia, non lontano dalla prua della nave azzoppata. Il microtessuto rendeva superflui pali e paletti: bastava piegare e ripiegare le parti del tessuto che si volevano rigide e le pieghe avrebbero resistito a un uragano; ma montare una microtenda era quasi un’arte e gli altri due rimasero a guardare, mentre espandevo il tessuto, piegavo i bordi a forma di A, con una cupola centrale abbastanza alta da consentirci di stare in piedi e ripiegavo nella sabbia i bordi a un tratto rigidi per piantarli come paletti. Avevo lasciato una parte di microtessuto perché fungesse da pavimento e stiracchiandolo un poco ottenni un ingresso. A. Bettik annuì in segno d’approvazione per il trucco; Aenea sistemò i sacchi a pelo, mentre io mettevo sul termocubo una pentola e aprivo una scatoletta di stufato di vitello. All’ultimo momento ricordai che Aenea era vegetariana… nelle due settimane sulla nave si era nutrita soprattutto d’insalate.
— Va benissimo — disse la bambina, sporgendo la testa da dentro la tenda. — Mangerò un po’ del pane che A. Bettik sta riscaldando e forse un pezzetto di formaggio.
A. Bettik in quel momento portava legna secca e disponeva in cerchio alcune pietre.
— Non abbiamo bisogno di un fuoco — dissi, indicando il termocubo e la pentola borbottante.
— No, certo — disse l’androide. — Ma pensavo che un fuoco sarebbe stato piacevole. E la luce, gradita.
La luce, infatti, fu molto gradita. Seduti al riparo della veranda, guardammo le fiamme sputare al cielo scintille, mentre si avvicinava una tempesta. Era una tempesta insolita, con bande di luce cangiante al posto di fulmini. Le livide bande di tremuli colori danzavano dal ventre delle nuvole in corsa fino a qualche metro dalle fronde di gimnosperme che mulinavano nel vento. Il fenomeno non era accompagnato da tuoni, ma da una sorta di rombo subsonico che mi dava ai nervi. Nella giungla stessa, lividi globi di fosforescenza rossa e gialla saltellavano e danzavano… non con la grazia dei ragnatelidi radianti delle foreste di Hyperion, ma a scatti, quasi con malevolenza. Alle nostre spalle il fiume lambiva con onde sempre più decise la spiaggia. Seduto accanto al fuoco, con in testa la cuffia radio sintonizzata sulla frequenza dei rivelatori perimetrali, con la carabina al plasma di traverso sulle ginocchia, con gli occhiali notturni alzati sulla fronte e pronti a essere abbassati al minimo preavviso, ero di sicuro una figura comica. Ma in quel momento non ci vidi niente di buffo: continuavano a venirmi in mente le orme dello Shrike sulla sabbia.
— Si è mostrato minaccioso? — avevo domandato ad A. Bettik qualche minuto prima. Avevo cercato di convincerlo a impugnare la doppietta cal. 16 (per un novellino non c’è arma più facile da usare di una doppietta), ma ero riuscito solo a fargliela tenere accanto a sé vicino al fuoco.
— Non si è nemmeno mosso — aveva risposto A. Bettik. — Si è limitato a stare fermo lì sulla spiaggia: alto, irto di punte, scuro ma luccicante. Aveva occhi d’un rosso acceso.
— Guardava te?
— Guardava a est, lungo il fiume.
"Come in attesa che Aenea e io facessimo ritorno" avevo pensato.
Così ora me ne stavo seduto accanto al fuoco guizzante, guardavo l’aurora boreale danzare e vibrare sopra la giungla sbatacchiata dal vento, seguivo i fuochi fatui che saltellavano nel buio della foresta, ascoltavo il tuono subsonico brontolare come una grossa belva famelica e ingannavo il tempo domandandomi come diavolo m’ero cacciato in quella situazione. Per quanto ne sapevo, branchi di velorapaci e di kaliderghi in quel momento scivolavano nella giungla verso di noi che ce ne stavamo, tonti e ben pasciuti, accanto al fuoco. O forse il livello del fiume si sarebbe alzato… forse una muraglia d’acqua già si precipitava verso di noi. Accamparsi in una lingua di sabbia non era stata un’idea molto brillante. Avremmo dovuto dormire nella nave, con il portello ben chiuso.
Aenea, distesa sullo stomaco, guardava il fuoco. — Non conosci qualche storia? — mi disse.
— Qualche storia! — sbottai. A. Bettik, che se ne stava seduto accanto al fuoco, braccia strette intorno alle ginocchia, alzò gli occhi.
— Sì. Come le storie di fantasmi.
Borbottai qualcosa.
Aenea appoggiò il mento sulle mani: il fuoco le dipingeva il viso di toni caldi. — Pensavo solo che sarebbe stato divertente — disse. — Mi piacciono le storie di fantasmi.
Mi vennero in mente quattro o cinque risposte pepate, ma mi trattenni. — Faresti meglio a dormire — dissi infine. — Se la nave ha ragione sulla lunghezza del giorno, anche la notte sarà breve… — "Signore, ti prego, fa’ che sia vero" pensavo intanto. Soggiunsi: — Ti conviene dormire un poco, finché puoi.
— Va bene — disse Aenea. Diede un’ultima occhiata, al di là del fuoco, alla giungla squassata dal vento, all’aurora boreale, al fuoco di S. Elmo sugli alberi; poi s’infilò nel sacco a pelo e si dispose a dormire.
A. Bettik e io restammo in silenzio per un poco. Di tanto in tanto parlavo nel comlog, chiedevo alla nave d’informarmi subito se il livello del fiume cominciava a salire o se si verificava qualche spostamento di massa o se…
— Sarei lieto di fare il primo turno di guardia, signor Endymion — disse A. Bettik.
— No, pensa a dormire — risposi, dimenticando che agli androidi bastavano pochissime ore di sonno.
— Allora faremo la guardia insieme — disse piano A. Bettik. — Ma si ritenga libero d’appisolarsi quando ne ha bisogno, signor Endymion.
Forse mi appisolai davvero per un poco, prima che spuntasse l’alba tropicale, circa sei ore più tardi. Per tutta la notte il cielo era stato coperto e tempestoso; mentre eravamo lì, la nave non ebbe mai la possibilità di fare un rilevamento stellare. Non fummo divorati da velorapaci né da kaliderghi. Il livello del fiume non salì. L’aurora boreale non ci creò inconvenienti e i globi di gas di palude non uscirono dagli acquitrini per bruciarci.
Ciò che ricordo meglio di quella notte, a parte la paranoia galoppante e la terribile stanchezza, fu lo spettacolo di Aenea addormentata, con i capelli biondocastani sparsi sul bordo del sacco a pelo rosso, con il pugno contro la guancia come una bimbetta pronta a succhiarsi il pollice. Quella notte mi resi conto dell’importanza e della terribile difficoltà del compito che mi attendeva: tenere quella bambina al sicuro dagli spigoli affilati di un universo bizzarro e indifferente.
Proprio in quella notte estranea e sconvolta dalla tempesta, penso, capii per la prima volta che cosa si prova a essere padre.
Ci mettemmo in moto alle prime luci. Ricordo di quel mattino la mistura di stanchezza nelle ossa, di occhi irritati, di guance ruvide per la barba lunga, di schiena dolorante e di pura gioia, che di solito sentivo dopo la prima notte di campeggio. Aenea andò al fiume per lavarsi e devo riconoscere che pareva più fresca e più pulita di quanto non ci si sarebbe aspettato in simili circostanze.
A. Bettik aveva scaldato il caffè; ne bevvi una tazza, mentre guardavamo la nebbia del mattino salire a riccioli dal fiume. Aenea bevve acqua dalla bottiglia che si era portata dalla nave e facemmo colazione con le gallette di una razione da campo.
Quando ormai il sole risplendeva sul baldacchino della giungla e dissipava le nebbie che salivano dal fiume e dalla foresta, trasportammo a valle l’equipaggiamento, servendoci del tappeto hawking. La sera prima, la parte divertente era toccata a Aenea e a me, perciò lasciai che A. Bettik si occupasse del trasporto, mentre io prendevo dalla nave altri materiali e controllavo che ci fosse tutto il necessario.
I vestiti furono un guaio. Avevo messo nel mio bagaglio tutto ciò di cui potevo avere bisogno, ma la bambina aveva solo i vestiti che portava su Hyperion e nello zaino, più alcune camicie ricavate da quelle nel guardaroba del Console. Certo che il vecchio poeta, con più di 250 anni per fare piani sul salvataggio della bambina, avrebbe anche potuto pensare a prepararle qualche vestito! Aenea pareva contenta di ciò che aveva portato con sé, ma io mi preoccupavo che non sarebbe bastato, se avessimo incontrato freddo o pioggia.
In questo caso l’armadio AEV ci fu d’aiuto. Conteneva varie "fodere" studiate per le tute spaziali e la più piccola andava quasi a pennello a Aenea. La stoffa a micropori avrebbe tenuto la bambina al caldo e all’asciutto in qualsiasi condizione climatica che non fosse del peggior livello artico. Presi anche una tuta per l’androide e per me; pareva assurdo fare bagagli invernali nel calore tropicale di quella giornata, ma non si può mai sapere. Nell’armadio c’era anche un vecchio giubbotto da cacciatore appartenuto al Console: lungo per me, ma dotato di una quindicina di tasche, di ganci, anelli d’aggancio, compartimenti nascosti muniti di cerniera. Aenea mandò un gridolino, quando lo estrassi dal mucchio e lo indossai; da allora, lo portai quasi in continuazione.
Trovammo anche due sacche per campioni geologici, con cinghie a spalla, che costituivano ottimi zaini. Aenea ne prese una e v’infilò gli abiti di scorta e altre cianfrusaglie che ritenevamo utili.
Ero ancora convinto che nell’armadio dovesse esserci un canotto, ma frugai in tutti gli scompartimenti e non riuscii a trovarlo.
«Signor Endymion» disse la nave, quando spiegai a Aenea che cosa cercavo «ho un vago ricordo…»
Aenea e io ci fermammo per ascoltare. C’era qualcosa di strano, quasi di doloroso, nel tono della nave.
«Ho un vago ricordo del Console che prendeva il canotto gonfiabile… che vi saliva e mi salutava agitando il braccio.»
— Dove si trovava? — domandai. — Su quale mondo?
«Non so» rispose la nave, nello stesso tono perplesso, quasi dolente. «Forse non era affatto un mondo… ricordo stelle che brillavano sotto il fiume.»
— Sotto? — ripetei, stupito. Ero preoccupato per l’integrità mentale della nave a seguito del disastro.
«Sono ricordi frammentari» disse la nave, in tono più vivace. «Ma sono sicura che il Console si allontanò sul canotto. Un canotto di notevoli dimensioni, sufficiente per otto o dieci persone.»
— Magnifico! — commentai, chiudendo con un colpo il portello del compartimento. Aenea e io portammo a terra l’ultimo carico: ci eravamo organizzati con una scaletta metallica pieghevole agganciata al bordo della camera stagna, per cui salire e scendere non richiedeva la fatica del giorno prima.
Intanto A. Bettik aveva trasportato a valle della cascata le attrezzature da campeggio e le scatole di provviste ed era tornato; controllai che cosa restava da trasportare: lo zaino con le mie cose, lo zaino e la sacca di Aenea, i ricetrasmettitori extra e gli occhiali, alcune confezioni di cibo e, legati sopra il mio zaino, la carabina al plasma piegata in due e il machete trovato da A. Bettik il giorno precedente. Il lungo coltellaccio, anche nel fodero di cuoio, era pericoloso da portare, ma quei pochi minuti nella giungla, il giorno prima, mi avevano convinto che probabilmente ci sarebbe servito. Avevo anche recuperato una scure e un attrezzo ancora più compatto… una vanga pieghevole, quella che per millenni noi idioti che ci eravamo arruolati in fanteria chiamavamo ufficialmente "utensile da trincea". I nostri arnesi da taglio cominciavano a occupare spazio.
Avrei preferito lasciar perdere la scure e portare una fresa laser per abbattere gli alberi necessari a costruire la zattera (anche una vecchia motosega sarebbe stata preferibile), ma la mia torcia laser non era adatta a quel tipo di lavoro e l’armeria era stranamente priva di utensili da taglio. Per un momento meditai se fosse il caso di portare il vecchio fucile d’assalto della FORCE e usare la sua forza esplosiva per abbattere gli alberi, sezionandoli se necessario con scariche a impulso, ma lasciai perdere. Sarebbe stato un sistema troppo rumoroso, confusionario e impreciso. Avrei usato la scure e versato un po’ di sudore. Ma presi una cassetta di utensili fornita di martello, chiodi, cacciaviti, viti e perni (tutte cose che potevano servire per la costruzione di una zattera) nonché alcuni rotoli di plastallumin impermeabile, con cui pensavo di realizzare un rozzo ma efficace tavolato per la zattera. In cima alla cassetta degli utensili c’erano alcune centinaia di metri di corda da scalata, con guaina di nylon, in tre matasse separate. In una sacca impermeabile rossa avevo trovato alcuni razzi e un po’ di semplice plastico, del tipo usato da secoli per far saltare i ceppi e le rocce nei campi, nonché una decina di detonatori. Presi anche questi materiali, anche se non credevo che ci sarebbero serviti per abbattere alberi e costruire una zattera. Il mucchio di materiale in attesa di trasporto comprendeva anche due medipac e un depuratore d’acqua grosso come una bottiglia.
Avevo portato fuori la cintura di volo EM, ma era un marchingegno ingombrante, a causa dell’imbracatura e del gruppo energetico. Comunque l’appoggiai al mio zaino, pensando che forse ci sarebbe servita. Appoggiata al mio zaino c’era anche la doppietta, che A. Bettik non si era preso la briga di portare con sé durante il volo alla cascata. Accanto alla doppietta c’erano tre scatole di cartucce. Avevo insistito per prendere pure la pistola a fléchettes, anche se né l’androide né la bambina la volevano.
Alla cintura avevo la fondina con la .45 carica, un borsello con l’antiquata bussola magnetica trovata nell’armadio, gli occhiali notturni e il binocolo diurno, ripiegati, una borraccia d’acqua e due caricatori di riserva per la carabina al plasma. — E vengano pure i velorapaci — borbottai, facendo l’inventario.
— Cosa? — disse Aenea, alzando gli occhi.
— Oh, niente.
Quando A. Bettik toccò terra, Aenea aveva già riempito ordinatamente la sua nuova sacca. Aveva anche stipato nell’altra i pochi effetti personali dell’androide.
Mi sono sempre divertito a smontare l’accampamento, addirittura più che a montarlo. Mi piace, penso, la bellezza di riporre ogni cosa al suo posto.
— Cosa dimentichiamo? — dissi agli altri due, mentre davamo ancora un’occhiata ai vari mucchi.
«Me» disse la nave, attraverso il bracciale comlog. Il tono era un po’ lamentoso.
Aenea si avvicinò alla nave arenata e toccò lo scafo. — Come va? — domandò.
«Ho iniziato le riparazioni, signorina Aenea. La ringrazio per l’interessamento.»
— Prevedi ancora sei mesi per ultimare le riparazioni? — domandai. Le ultime nuvole si disperdevano e il cielo era di nuovo azzurro. Le fronde, verdi e bianche, si muovevano contro l’azzurro.
«Circa sei mesi standard» confermò la nave. «Parlo ovviamente delle mie condizioni interne ed esterne. Non possiedo i micromanipolatori necessari per riparare oggetti come le aerociclette.»
— Non importa — disse Aenea. — Le lasciamo tutte qui. Le ripareremo quando ci rivedremo.
«Quando sarà?» La voce, provenendo dal comlog, parve più sottile del normale.
Aenea guardò A. Bettik e me. Né io né l’androide aprimmo bocca. Alla fine Aenea disse: — Avremo ancora bisogno dei tuoi servigi, Nave. Puoi restare nascosta qui per mesi… o anni… mentre ripari i danni e ci aspetti?
«Sì» rispose la nave. «Il fondo del fiume andrebbe bene?»
Guardai la grande massa grigia della nave che sporgeva dall’acqua. Lì il fiume era largo e probabilmente profondo, ma il pensiero della nave ferita che si ritirava nel fiume mi faceva un certo effetto. — Non… non avrai infiltrazioni d’acqua? — dissi.
«Signor Endymion» replicò la nave, in quel tono che mi faceva pensare a un suo comportamento altezzoso «sono un veicolo interstellare in grado di penetrare nelle nebulose e di stare in tutta tranquillità nel guscio esterno di una gigante rossa. Ben difficilmente in me ci saranno… come ha detto lei… infiltrazioni per il semplice fatto di restare immersa in H2O per qualche anno.»
— Scusami — dissi. E poi, incapace di sopportare che fosse la nave, col suo rimbrotto, ad avere l’ultima parola, soggiunsi: — Ricorda di chiudere il portello stagno, prima di andare sott’acqua.
La nave non fece commenti.
— Quando torneremo a prenderti — disse Aenea — potremo chiamarti?
«Usate le bande del comlog o la 90,1 sulla banda radio generale» disse la nave. «Manterrò sulla superficie dell’acqua un’antenna frusta-cimice per captare la vostra chiamata.»
— Antenna frusta-cimice — mormorò A. Bettik. — Che bella frase.
«Purtroppo non ricordo da dove deriva quel termine» disse la nave. «La mia memoria non è più quella d’una volta.»
— Non importa — la consolò Aenea, battendo qualche colpetto sullo scafo. — Ci sei stata molto utile. Ora pensa a rimetterti a posto. Vogliamo vederti in gran forma, al nostro ritorno.
«Certo, signorina Aenea. Mi terrò in contatto e seguirò i vostri movimenti finché non varcherete il secondo portale.»
A. Bettik e Aenea si sedettero sul tappeto hawking, occupando lo spazio lasciato libero dagli zaini e dalle ultime scatole di materiali. Mi agganciai l’ingombrante cintura di volo. Così dovevo portare il mio zaino tenendolo contro il petto, sospeso con una sola cinghia alla spalla, mentre reggevo nella mano libera la carabina, ma andò tutto bene. Sapevo come guidare la cintura di volo solo dalla lettura dei manuali (su Hyperion le cinture EM non funzionano), ma i comandi erano semplici e intuitivi. L’indicatore di carica segnava il massimo, perciò quel breve balzo non comportava il rischio di cadere nel fiume.
Il tappeto era già librato una decina di metri sopra il fiume. Premetti il regolatore stretto in pugno, balzai in aria, rischiai di fare la barba a una gimnosperma, trovai l’assetto e volai per tenermi accanto al tappeto. Penzolare dall’imbracatura imbottita non era comodo come stare seduto su un tappeto hawking, ma la sensazione di volare era perfino più intensa. Con il regolatore sempre stretto nel pugno, alzai il pollice nel segnale "tutto a posto" e iniziammo il volo lungo il fiume, verso il sole nascente.
Nel tratto fra la nave e la cascata non c’erano molte spiagge, ma sulla riva sud, alla base del dislivello, dove il fiume si allargava in una pigra pozza appena al di là delle rapide, c’era un buon posto; proprio lì A. Bettik aveva depositato le attrezzature da campeggio e il primo carico di materiali. Scaricammo le ultime cassette, assordati dal rumore della cascata. Preparai la scure ed esaminai le gimnosperme più vicine.
— Pensavo una cosa — disse A. Bettik, così piano che stentai a udirlo.
Mi fermai, ascia in spalla. Faceva molto caldo e già la camicia mi si appiccicava addosso.
— Il Teti era previsto per divertenti crociere — continuò A. Bettik. — Mi domandavo come i cabinati da diporto se la cavassero con quella. — Puntò il dito in direzione della cascata.
— Stavo pensando la stessa cosa — disse Aenea. — A quel tempo c’erano chiatte a levitazione, ma non tutti coloro che percorrevano il Teti ne avevano una. Sarebbe stato imbarazzante fare una romantica gita in barca e trovarsi sulle cascate.
Guardai la spruzzaglia punteggiata d’arcobaleni e fui assalito da un dubbio: forse non ero poi tanto intelligente come spesso mi ritenevo. Il problema delle rapide non mi aveva neppure sfiorato. — Da quasi tre secoli nessuno usa il Teti — dissi. — Forse le cascate sono recenti.
— Forse — disse A. Bettik. — Però ne dubito. Quelle cascate sembrano prodotte da dislivelli tettonici che corrono per molti chilometri a nord e a sud nella giungla… vede quella differenza di quota? E l’acqua ha eroso la roccia per moltissimo tempo. Ha notato le dimensioni dei macigni nelle rapide? Direi che le cascate esistono da quando esiste il fiume.
— La tua guida del Teti non ne parla?
— No. — L’androide mi porse il libro. Lo prese Aenea.
— Forse non siamo sul Teti — dissi. L’androide e Aenea mi fissarono. — La nave non ha potuto stabilire dove ci troviamo — continuai. — E se questo mondo non facesse parte del percorso originale del Teti?
Aenea annuì. — L’avevo pensato. I portali sono uguali a quelli che si vedono lungo i resti del Teti attuale, ma chi può dire se il TecnoNucleo non avesse altri portali… altri fiumi collegati mediante teleporter?
Abbassai la scure e mi appoggiai al manico. — In questo caso siamo nei guai — dissi. — Tu non troverai mai il tuo architetto e noi non troveremo mai la via del ritorno alla nave e a casa.
Aenea sorrise. — È troppo presto per pensarci. Sono passati davvero tre secoli! Forse nel frattempo il fiume si è aperto un altro letto. O forse c’è un canale con delle chiuse, che non abbiamo visto perché coperto dalla giungla. Non dobbiamo preoccuparcene, al momento. Dobbiamo solo scendere a valle e vedere se c’è un portale.
Alzai il dito. — Un’altra cosa — dissi, sentendomi un po’ più intelligente di poco prima. — Se ci prendiamo il mal di pancia di costruire qui una zattera e poi troviamo un’altra cascata fra noi e il portale? O altre dieci? Ieri notte non abbiamo scorto l’arcata del teleporter, perciò non sappiamo quanto sia distante.
— L’avevo pensato — disse Aenea.
Tamburellai sul manico della scure. Se la bambina avesse detto ancora una volta quelle tre parole, avrei preso in seria considerazione l’idea di usare su di lei l’attrezzo.
— La signorina Aenea mi ha chiesto di fare una ricognizione — disse A. Bettik. — Ho provveduto durante il trasporto dell’ultimo carico.
Corrugai la fronte. — Ricognizione? Non hai avuto il tempo di volare per centinaia di chilometri lungo il fiume!
— No — ammise l’androide — ma sono salito ad alta quota e ho usato il binocolo di riserva per esaminare il percorso. Pare che il fiume corra dritto per quasi duecento chilometri. Era difficile, certo, ma ho scorto un possibile teleporter, circa centotrenta chilometri più a valle. Non mi è parso di scorgere altre cascate né grossi ostacoli fra noi e l’arcata.
Accentuai di sicuro la ruga di perplessità. — Hai visto tutto questo? — replicai, stupito. — Quale quota hai raggiunto?
— Il tappeto non ha altimetro — rispose A. Bettik. — Ma a giudicare dalla visibile curvatura del pianeta e dal colore più scuro del cielo, penso d’essere salito a circa cento chilometri.
— Avevi una tuta spaziale? — domandai. A quell’altitudine il sangue gli sarebbe bollito nelle vene e i polmoni gli sarebbero esplosi per la decompressione. — Un respiratore? — Diedi un’occhiata, ma il nostro modesto mucchio di materiale non comprendeva niente del genere.
— No — rispose l’androide, girandosi per alzare una cassetta. — Ho solo trattenuto il fiato.
Scossi la testa e andai a tagliare qualche albero: la solitudine e l’esercizio fisico m’avrebbero fatto bene.
Terminammo la zattera solo a sera, ma avrei lavorato tutta la notte, se A. Bettik non avesse fatto a turno con me nel tagliare alberi. Il prodotto finale non era elegante, ma galleggiava. La nostra piccola zattera era lunga circa sei metri e larga quattro: nella parte posteriore aveva un lungo palo di governo, rozzamente sbozzato a forma di timone, sorretto da un sostegno biforcuto; proprio davanti al palo di governo c’era una sorta di pedana dove Aenea sagomò una tenda a una falda con aperture verso prua e poppa; sulle fiancate c’erano due rozzi scalmi per le lunghe pertiche che fungevano da remi e che sarebbero rimaste lungo il bordo a meno che non fossero necessarie per procedere in acque morte o per manovre d’emergenza nelle rapide. Avevo temuto che i fusti di quelle piante simili a felci s’inzuppassero d’acqua e si rivelassero inadatti per una zattera, ma un doppio strato di tronchi disposti a nido d’ape, tenuti insieme da corda da scalatore e imbullonati nei punti strategici, galleggiava molto bene e teneva il pianale della zattera a una quindicina di centimetri dall’acqua.
Aenea era rimasta affascinata dalla microtenda e devo ammettere che la sagomava con un’abilità e un’efficienza superiori alle mie, anche se io avevo anni di pratica. La nostra tenda a una falda era accessibile dal posto di guida al timone, aveva sul davanti un riparo dal sole e dalla pioggia, che però non ostacolava la visuale, e dei tendoni ai lati per tenere all’asciutto le scatole di materiali di scorta. Aenea aveva già disteso in vari angoli i materassini di schiuma e i sacchi a pelo; la zona soggiorno al centro, da dove si aveva la vista migliore nella direzione di viaggio, adesso vantava una pietra levigata larga un metro, che fungeva da focolare, e l’attrezzatura da cucina e il termocubo; una delle torce, regolata nel modo lanterna, pendeva dal gancio centrale. Devo ammettere che nell’insieme la tenda dava l’impressione di un cantuccio accogliente.
Tuttavia Aenea non passò il pomeriggio solo a preparare cantucci accoglienti. M’ero aspettato, lo confesso, che se ne stesse da parte a guardare noi adulti sudare nel lavoro pesante (dopo un’ora mi ero messo a torso nudo per il gran caldo) e invece lei ci diede quasi subito una mano, trascinando al posto di lavoro i tronchi abbattuti, legandoli, piantando chiodi, applicando bulloni e perni, insomma aiutandoci in vari modi. Mi spiegò per quale motivo era poco efficiente il timone da me costruito alla buona secondo il sistema standard che m’avevano insegnato: abbassando la base del treppiede di sostegno e sistemandola a maggiore distanza, potevo muovere meglio e con maggiore efficacia il lungo palo di governo. Due volte mi mostrò altri sistemi di legare i supporti a croce nella parte inferiore della zattera, in modo che fossero più tesi e più resistenti. Quando ci occorreva un tronco sagomato, se ne occupava Aenea, usando il machete: A. Bettik e io potevamo solo tenerci da parte per non essere colpiti dalle schegge.
Eppure, malgrado il duro lavoro di tutt’e tre, prima che la zattera fosse terminata e caricata, era quasi il tramonto.
— Possiamo accamparci qui stanotte e partire domattina presto — dissi. Mentre facevo la proposta, mi resi conto di non essere entusiasta. Anche agli altri due l’idea non garbava. Così salimmo a bordo. Allontanai da riva la zattera, servendomi della lunga pertica scelta come principale fonte di locomozione quando non sarebbe bastata la corrente del fiume. A. Bettik si mise al timone e Aenea andò sul lato anteriore della zattera, per individuare eventuali banchi di sabbia o scogli a pelo d’acqua.
Nel primo paio d’ore il viaggio fu quasi magico. Dopo il caldo afoso della giungla e le fatiche della giornata, pareva d’essere in paradiso, sulla zattera in pigro movimento, con l’unica preoccupazione di dare di tanto in tanto una spinta contro il fondo fangoso mentre guardavamo scivolare via la muraglia d’alberi sempre più buia. Il sole tramontò quasi esattamente alle nostre spalle e per qualche minuto il fiume divenne rosso come lava fusa e le parti inferiori delle gimnosperme parvero in fiamme per il riflesso. Poi il grigiore si mutò in tenebra, ma riuscimmo a dare solo una fuggevole occhiata al cielo notturno, perché, come nella notte precedente, da est sopraggiunse una densa nuvolaglia.
— Chissà se la nave è riuscita a fare il punto — disse Aenea.
— Domandiamoglielo — proposi.
La nave non ci era riuscita. «Ho solo stabilito che non ci troviamo né su Hyperion né su Vettore Rinascimento» disse la vocina proveniente dal braccialetto comlog.
— Be’, è già un sollievo — replicai. — Altre novità?
«Mi sono spostata sul fondo del fiume» riferì la nave. «Sto abbastanza comodamente e mi preparo a…»
All’improvviso i fulmini variegati striarono l’orizzonte, a nord e a ovest; il vento sferzò di traverso il fiume, con tale violenza che fummo costretti a fissare in fretta tutti i materiali in modo che non fossero spazzati via; la zattera cominciò a spostarsi verso la riva sud, sulle creste d’onda, e il comlog sputò solo scariche. Lo spensi e mi concentrai sulla pertica, mentre A. Bettik riprendeva il timone. Per alcuni minuti pensai che la zattera si sarebbe sfasciata sotto le alte onde e il vento ruggente; la prua si alzava e si abbassava e l’unica luce proveniva dalle esplosioni di fulmini rosso magenta e scarlatto. Quella notte c’erano anche i tuoni, grandi ondate di rumore, come se qualcuno facesse rotolare giù per le scale verso di noi giganteschi bidoni di ferro, e i fulmini dell’aurora boreale laceravano il cielo, anziché danzarvi come nella notte precedente. Tutti e tre impietrimmo per un secondo, quando uno di quei fulmini color rosso magenta colpì una gimnosperma sulla riva nord e la incendiò all’istante, con un’esplosione di scintille colorate. In qualità di ex marinaio fluviale, imprecai contro la mia stupidità: ci trovavamo al centro di un ampio fiume (il Teti era di nuovo largo quasi un chilometro) e non avevamo neppure un’asta parafulmine né materassini di salvataggio. Ce ne stavamo accovacciati e facevamo smorfie quando i fulmini multicolori colpivano le rive o incendiavano l’orizzonte davanti a noi.
A un tratto si mise a piovere e le scariche di fulmini si attenuarono. Corremmo sotto la tenda: Aenea e A. Bettik si rannicchiarono nel vano anteriore, sempre attenti a scorgere in tempo banchi di sabbia o tronchi galleggianti, e io rimasi nella parte posteriore, dove Aenea aveva accomodato un riparo a chi fosse al timone.
Anche sul Kans pioveva a dirotto e di frequente (ricordo quando, rannicchiato nel castello di prua di una vecchia chiatta che imbarcava acqua, mi domandavo se la maledetta bagnarola non sarebbe colata a picco solo per il peso della pioggia), ma non avevo mai visto un diluvio come quello.
Per un attimo pensai che eravamo giunti a un’altra cascata, molto più larga della precedente, stavolta, e che senza volerlo eravamo finiti sotto il torrente d’acqua… ma navigavamo ancora a valle e non c’erano cascate che precipitassero su di noi, solo la terribile violenza della peggiore tempesta che avessi mai provato.
La soluzione più saggia sarebbe stata quella di tornare a riva e aspettare che il diluvio si esaurisse, ma non riuscivamo a vedere niente, a parte i fulmini colorati che esplodevano dietro la muraglia d’acqua, e non avevo idea di quanto distassero le rive né se sarebbe stato possibile portare a terra la zattera oppure ormeggiarla. Così legai il timone, tenendolo alto in modo che servisse solo a mantenere la poppa rivolta a monte, abbandonai il mio posto e mi rannicchiai vicino a Aenea e all’androide, mentre il cielo si spalancava e versava su di noi fiumi, laghi, oceani d’acqua.
A dimostrare l’abilità, o la fortuna, di Aenea nel sagomarla e nel fissarla, nemmeno una volta la tenda cominciò a piegarsi o a staccarsi dagli agganci alla zattera. Ho detto che mi rannicchiai accanto agli altri, ma in realtà tutt’e tre eravamo impegnatissimi a tenere ferme le casse che non erano state già legate, mentre la zattera s’impennava, sprofondava, ruotava, riprendeva la giusta direzione e poi ricominciava da capo. Non sapevamo da quale parte puntavamo, se la zattera era al sicuro al centro del fiume o si dirigeva contro i massi di una rapida o correva a tutta velocità contro un dirupo dove il fiume avrebbe curvato e noi no. A quel punto, non ce ne importava: il nostro scopo era quello di non perdere i materiali, di non farci scagliare fuori bordo e di tenere d’occhio gli altri per quanto possibile.
A un certo punto (con un braccio intorno alla pila di zaini e l’altra mano stretta sul colletto di Aenea che si sporgeva a recuperare una pentola diretta a tutta velocità fuori della tenda) guardai verso prua e m’accorsi che la zattera, a parte la piccola piattaforma dove ci trovavamo, era sott’acqua. Il vento sferzava creste d’onda che brillavano di rosso o di giallo vivo a seconda del colore dei fulmini che in quel momento squarciavano la cortina dell’aurora boreale. Ricordai una cosa che non avevo cercato nella nave: giubbotti di salvataggio… arnesi per galleggiare in acqua.
Tirai Aenea sotto la copertura della tenda che sbatteva al vento e gridai per superare il frastuono della tempesta: — Sai nuotare, quando non siamo a g-zero?
— Cosa? — gridò la bambina. Vidi le labbra formare la parola, ma in realtà non udii niente.
— Sai… nuotare?
A. Bettik, fra le casse che ballavano, drizzò la testa. L’acqua gli rusceliava dal cranio calvo e dal lungo naso. Gli occhi azzurri parevano viola, quando i fulmini si scatenavano.
Aenea scosse la testa, ma non ero sicuro se fosse una risposta negativa o un segno per indicare che non aveva capito. La tirai più vicino; il suo giubbotto, fradicio d’acqua, sbatacchiava come un lenzuolo bagnato in balia di raffiche di vento. — Sai… nuotare? — gridai a pieni polmoni. Lo sforzo mi lasciò senza fiato. Mossi freneticamente le mani imitando i movimenti di chi nuota. La zattera s’impennò e ci separò, poi ci spinse di nuovo vicino.
Scorsi nei suoi occhi un lampo di comprensione. La pioggia o la spruzzaglia le schizzavano dai lunghi capelli. Aenea sorrise e si sporse per gridarmi nell’orecchio.
— Grazie! Mi… piacerebbe… una nuotata… ma più tardi… forse.
A quel punto probabilmente finimmo in un gorgo, o forse il vento afferrò la tenda e la usò come vela per far ruotare la zattera sul proprio asse, fatto sta che la zattera girò, parve esitare, continuò nella rotazione. Tutt’e tre rinunciammo ad aggrapparci a qualcosa che non fosse la nostra vita e gli altri due: restammo rannicchiati al centro della piattaforma. Mi accorsi che Aenea gridava, una sorta di yu-huu di gioia; aprii bocca per urlarle di tacere e invece la imitai. Era piacevole, gridare contro la zattera vorticante e la tempesta e il diluvio, senza essere uditi, ma sentendo il proprio grido echeggiare nel cranio e nelle ossa insieme con il rombo dei tuoni. Mentre un fulmine cremisi illuminava l’intero fiume, lanciai un’occhiata alla mia destra: un masso sporgeva dall’acqua per almeno cinque metri e la zattera lo evitò e passò oltre, come una trottola che giri accanto a un carbone. Fui ancora più stupito nel vedere A. Bettik sulle ginocchia, testa gettata all’indietro, gridare yu-huu come noi a pieni polmoni.
La tempesta durò tutta la notte. Verso l’alba la pioggia diminuì e diventò un semplice acquazzone. I fulmini dell’aurora boreale e i tuoni dal rombo ultrasonico terminarono più o meno in quel momento, ma non posso esserne sicuro: come la mia giovane amica e come il mio amico androide, mi ero già addormentato e russavo.
Quando ci svegliammo il sole era alto; non c’era traccia di nuvole, l’ampio fiume scorreva calmo e lento, sulle rive la giungla sfilava come un lungo arazzo srotolato al nostro passaggio, il cielo era azzurro e mite.
Per un poco riuscimmo solo a stare seduti al sole, gomiti sulle ginocchia, con gli abiti ancora bagnati e gocciolanti. Non aprimmo bocca. Avevamo ancora negli occhi il maelstrom della notte, nella retina ci scoppiettava l’esplosione di colori.
Dopo un poco Aenea si alzò, malferma sulle gambe. Il pianale della zattera era bagnato, ma non sott’acqua. Un tronco del lato di destra si era staccato, al posto dei nodi c’erano alcune corde sfilacciate, ma tutto sommato l’imbarcazione era ancora idonea a tenere il mare… sì, il fiume. Fa lo stesso. Controllammo le attrezzature e facemmo l’inventario. La torcia appesa come lanterna era sparita e mancava anche una delle scatole più piccole di razioni, ma tutto il resto pareva a posto.
— Bene — disse Aenea — fate pure un giro, mentre preparo la colazione.
Regolò al massimo il termocubo, in un minuto ebbe un pentolino d’acqua bollente, preparò il tè per sé e versò il resto nella caffettiera per noi, poi mise a friggere in una casseruola delle fette di prosciutto e patate tagliate a fettine.
Guardai il prosciutto sfrigolante. — Non eri vegetariana?
— Certo. Mangerò fiocchi di grano e un po’ di quell’orribile latte ricostituito della nave, ma per questa prima e unica volta sono la cuoca e voi mangerete bene.
Mangiammo bene, seduti sulla parte anteriore della piattaforma, dove il sole ci scaldava e ci asciugava i vestiti. Da una tasca del giubbotto zuppo d’acqua tolsi il tricorno sgualcito, lo strizzai per eliminare l’acqua e lo calzai per ripararmi. Lo spettacolo provocò le risate di Aenea. Lanciai un’occhiata all’androide, ma A. Bettik era impassibile, come sempre… come se non avesse mai gridato yu-huu con noi.
L’androide tirò in posizione verticale un palo sulla prua della zattera (l’avevo sistemato in modo che ruotasse, per appendervi di notte una lanterna) si tolse la camicia e l’appese ad asciugare. Il sole brillò sulla sua pelle perfettamente azzurra.
— Una bandiera! — esclamò Aenea. — Proprio ciò che mancava a questa spedizione.
Mi misi a ridere. — Ma quella è bianca, non va bene. Significa… — M’interruppi.
Avevamo percorso lentamente un’ampia ansa del fiume. Ora vedemmo l’antico portale formare un arco per centinaia di metri sopra di noi e ai nostri lati. Interi alberi erano cresciuti nel suo interno; rampicanti ricadevano per diversi metri dagli intagli e dalle rientranze.
Andammo tutti al nostro posto: io al timone, stavolta; A. Bettik accanto alla pertica, come se si tenesse pronto a spingere via scogli o nemici all’abbordaggio; Aenea accoccolata a prua.
Per un intero minuto seppi che quel portale era una fregatura, che non avrebbe funzionato. Vedevo sotto l’arcata la ben nota giungla e il cielo azzurro, vedevo il fiume proseguire al di là dell’arco. Il panorama rimase normale finché non fummo all’ombra della gigantesca arcata. Dieci metri più avanti, un pesce saltò dall’acqua. Il vento arruffò i capelli di Aenea e produsse piccole onde sul fiume. Su di noi erano sospese tonnellate d’antico metallo che parevano il tentativo di un bambino di disegnare un ponte.
— Non succede niente… — cominciai.
L’aria si riempì d’elettricità, più improvvisa e terrificante della tempesta della notte. Pareva che dall’arco un gigantesco sipario fosse piombato direttamente sulla nostra testa. Caddi su un ginocchio, sentii il peso di quel sipario e subito dopo la sua mancanza di peso. Per un istante, troppo breve per essere misurato, mi sentii come quando il campo d’urto era esploso intorno a noi nella nave che precipitava… come un feto che si dimenasse in un sacco amniotico appiccicoso.
Poi fummo al di là. Il sole era scomparso. Il giorno era scomparso. Le rive del fiume e la giungla non c’erano più. Da ogni parte l’acqua si estendeva fino all’orizzonte. Stelle così grandi e numerose come non avevo mai immaginato né tantomeno visto, riempirono un cielo che pareva smisurato.
Proprio sopra di noi, mettendo in risalto come proiettori arancione la figura di Aenea, c’erano tre lune, ciascuna della grandezza di un pianeta con tutte le carte in regola.