Impiegammo poco più d’un giorno a percorrere i tunnel di ghiaccio fino alla città sepolta, dove avremmo trovato padre Glauco, ma in quel tempo ci furono tre brevi periodi di sonno e il viaggio stesso (buio, freddo, stretti cunicoli nel ghiaccio) non avrebbe avuto niente di particolare, se uno spettro artico non avesse preso una persona del nostro gruppo.
Come tutti i veri atti di violenza, avvenne troppo rapidamente per essere osservato. L’attimo prima avanzavamo (Aenea, l’androide e io ci trovavamo quasi in coda alla fila di Chitchatuk) e l’attimo dopo ci fu un’esplosione di ghiaccio e di movimento (mi bloccai, pensando che qualcuno avesse fatto esplodere una mina) e la figura impellicciata, due posti davanti a Aenea, scomparve senza un grido.
Ero ancora impietrito, reggendo nelle mani guantate la carabina al plasma, inutile perché ancora con la sicura, quando il Chitchatuk più vicino cominciò a ululare di rabbia e di disperazione, mentre quelli nei pressi si lanciavano nel nuovo cunicolo che si spalancava dove un attimo prima non c’era alcun tunnel.
Aenea già illuminava con la torcia il condotto quasi verticale, quando mi spinsi accanto a lei, tenendo alzata l’arma. Due Chitchatuk si erano lanciati in quel pozzo, servendosi, per frenare la caduta, degli stivali e di corti coltelli d’osso che sollevarono schegge di ghiaccio. Stavo per infilarmi nel tunnel, quando Cuchiat mi afferrò per la spalla. — Ktchey! — disse. — Ku tcheta chi!
Ormai, dopo quattro giorni con i Chitchatuk, ne sapevo abbastanza per capire che mi ordinava di non entrare nel tunnel. Ubbidii, ma estrassi la torcia laser per illuminare la via ai cacciatori urlanti che già si trovavano venti metri più in basso e sparivano alla vista nel punto in cui il condotto faceva una curva e continuava in piano. Sulle prime pensai che fosse il riflesso rossastro del raggio laser, ma poi vidi che il pozzo era rivestito, quasi totalmente, di sangue rosso vivo.
I lamenti fra i Chitchatuk durarono anche dopo il ritorno a mani vuote dei cacciatori. Capii che non c’era traccia dello spettro artico né della sua vittima, a parte il sangue, la pelliccia e il mignolo della destra della sventurata. Cuchtu, quello che ritenevamo lo stregone, si mise in ginocchio, baciò il dito mozzato, usò sul proprio braccio il coltello d’osso fino a far gocciolare sul dito insanguinato il proprio sangue e poi con cura, quasi con reverenza, ripose nella sua sacca di pelle il misero resto. I lamenti si fermarono di colpo. Chiaku, il Chitchatuk alto con la pelliccia macchiata di sangue (ora doppiamente macchiata, perché lui era uno dei cacciatori che si erano lanciati nel condotto verticale) si rivolse a noi e parlò in tono pressante per qualche momento, mentre gli altri si mettevano in spalla le sacche, riponevano le lance e riprendevano il cammino.
Continuammo a risalire il tunnel di ghiaccio ma non potei fare a meno di girarmi a guardare il frastagliato foro provocato dallo spettro artico svanire nel buio che pareva seguirci. Sapendo che quegli animali vivevano in superficie e scendevano nei cunicoli soprattutto per cacciare, non mi ero mai innervosito; ma ora lo stesso fondo di ghiaccio mi pareva infido, le sfaccettature e le creste delle pareti e del soffitto mi parevano nascondigli del prossimo spettro artico. Mi ritrovai a camminare in punta di piedi, come se in questo modo avrei evitato di sprofondare nella trappola di un altro predone. Non era facile, camminare in punta di piedi su Sol Draconis Septem.
— Signorina Aenea — disse l’intabarrato A. Bettik — non ho capito che cosa diceva il signor Chiaku. Qualcosa a proposito di numeri?
Il viso di Aenea in pratica scompariva sotto la griglia di zanne della pelliccia. Sapevo che le pelli provenivano tutte da cuccioli di spettro artico, ma mi era bastato scorgere per un attimo le bianche braccia grosse come il mio tronco che si protendevano dalla parete di ghiaccio e i neri artigli lunghi come il mio avambraccio, per capire quant’erano enormi quei cuccioli. A volte, mi resi conto (intanto avevo tolto la sicura alla carabina e stavo cercando di procedere a passi felpati malgrado l’opprimente gravità di Sol Draconis Septem) la via più breve per il coraggio è l’assoluta ignoranza.
— … perciò penso che si riferisse al fatto che la banda non è più formata da un numero primo di persone — diceva in quel momento Aenea all’androide. — Prima che quella sventurata… fosse presa… eravamo ventitré di loro più tre di noi, cosa che andava bene. Ma ora devono trovare presto un rimedio, altrimenti… non so… altra malasorte.
Per quanto ne capii, risolsero il problema del numero portasfortuna mandando avanti Chiaku come esploratore. O forse il Chitchatuk si offrì semplicemente di stare lontano dal gruppo finché gli altri non ci avessero lasciato nella città sepolta… venticinque, in quanto numero dispari, poteva essere sopportato per breve tempo, ma senza di noi la banda sarebbe stata composta di ventidue persone, un numero del tutto inaccettabile.
Quando giungemmo alla città, lasciai perdere tutti i pensieri sulle preoccupazioni dei Chitchatuk per i numeri primi.
Per prima cosa vedemmo la luce. Nel giro di pochi giorni i nostri occhi si erano abituati al fioco bagliore delle braci del "chuchkituk", ossia del braciere d’osso, al punto che perfino l’occasionale balenio delle nostre torce pareva accecante. La luce della città sepolta nel ghiaccio fu realmente dolorosa.
Un tempo l’edificio era d’acciaio o plastacciaio e vetro intelligente, alto forse settanta piani, e probabilmente guardava su una piacevole e verdeggiante valle terraformata… forse era rivolto a sud, verso il fiume distante mezzo chilometro. Ora il nostro tunnel di ghiaccio si apriva in una breccia nel vetro, dalle parti del 59° piano; le lingue del ghiacciaio avevano piegato l’armatura metallica dell’edificio e avevano trovato vie d’accesso in vari piani.
Ma il grattacielo non era crollato e forse sporgeva i piani superiori nel vuoto nero e quasi assoluto sopra il ghiacciaio. E risplendeva ancora di luce.
I Chitchatuk si fermarono all’ingresso, riparandosi gli occhi dal bagliore e ulularono in un tono diverso dal precedente lamento per la cattura della donna. Era un richiamo. Mentre stavamo lì ad aspettare, fissai l’aperto scheletro d’acciaio e di vetro dell’edificio, le decine e decine di lampade appese da tutte le parti, piano su piano, tanto che attraverso il limpido ghiaccio vedevamo sotto i nostri piedi l’edificio dalle finestre vividamente illuminate sprofondare come in un abisso.
Poi padre Glauco venne verso di noi, attraversando un ambiente che era per metà caverna di ghiaccio e per metà stanza d’ufficio. Indossava la lunga tonaca nera e il crocifisso che mi ricordavano i gesuiti del monastero nei pressi di Port Romance. Fu subito chiaro che l’anziano prete non ci vedeva… i suoi occhi erano lattei per la cataratta e ciechi come sassi; ma non fu questa la prima cosa di padre Glauco che mi colpì: il prete era vecchio, vecchissimo, canuto, barbuto come un patriarca, e quando Cuchiat lo chiamò, parve risvegliarsi da una sorta di trance, inarcando le candide sopracciglia e corrugando l’alta fronte. Labbra avvizzite e screpolate si arricciarono in un sorriso. Potrebbe sembrare un atteggiamento bizzarro, ma in padre Glauco non c’era niente di bizzarro… non la sua cecità, non l’abbagliante barba bianca, non la pelle maculata e sciupata dalle intemperie, non le labbra avvizzite. Era… se stesso… a tal punto che ogni paragone è inutile.
Avevo avuto parecchie riserve sull’incontro con quel "glauco"… per timore che avesse qualche rapporto con la Pax da cui fuggivamo… e ora, vedendo che era un prete, avrei dovuto afferrare la bambina e A. Bettik e filarmela con loro e i Chitchatuk. Ma nessuno di noi tre sentì l’impulso di fuggire. Quel vecchio non era la Pax… era solo padre Glauco. Lo scoprimmo qualche minuto dopo il nostro primo incontro.
Ma subito, prima che uno di noi aprisse bocca, il prete cieco parve percepire la nostra presenza. Parlò a Cuchiat e a Chichticia nella loro lingua e poi all’improvviso si girò dalla nostra parte e sollevò la mano come se con il palmo potesse percepire il nostro calore… di Aenea, di A. Bettik, di me stesso. Allora si avvicinò a noi, fermi sul confine fra l’avvolgente caverna di ghiaccio e la stanza avvolta dal ghiaccio.
Padre Glauco venne direttamente da me, mi mise sulla spalla la mano ossuta e disse, forte, in un inglese chiaro della Rete: — Tu sei l’uomo!
Ho impiegato un certo tempo… anni… a porre nella giusta prospettiva quelle parole. A quel tempo pensai soltanto che il vecchio prete aveva perso il senno, oltre la vista.
Decidemmo che ci saremmo fermati per qualche giorno con padre Glauco nel suo grattacielo subglaciale, mentre i Chitchatuk sarebbero andati a fare importanti cose chitchatukesche (Aenea e io ritenemmo che la loro massima priorità fosse ripristinare il numero primo del gruppo) e poi sarebbero tornati a vedere che cosa combinavamo. Aenea e io eravamo riusciti a spiegare a segni che volevamo smontare la zattera e portarla a valle fino all’arcata del teleporter. Ci era sembrato che i Chitchatuk avessero capito: almeno, avevano fatto cenni d’intesa e avevano detto "chia", parola con cui assentivano, quando avevamo mimato l’arcata e la zattera che l’attraversava. Se avevo capito la loro risposta a voce e a gesti, il viaggio fino al portale avrebbe richiesto una camminata di diversi giorni in superficie, in una zona infestata dagli spettri artici. Dissero, ne sono sicuro, che ne avremmo riparlato appena soddisfatta la necessità di "cercare indivisibile equilibrio": ossia, immaginammo, trovare un altro membro per il loro gruppo… o perderne tre. L’ultima prospettiva dava da pensare.
In ogni caso, saremmo rimasti con padre Glauco fino al ritorno del gruppo. Il prete cieco chiacchierò animatamente con i Chitchatuk per alcuni minuti; poi rimase sull’ingresso della caverna di ghiaccio, in ascolto, finché il bagliore del braciere d’osso non fu svanito da tempo.
Allora padre Glauco ci diede di nuovo il benvenuto, passandoci la mano sul viso, sulle spalle, sulle braccia. Confesso di non avere mai sperimentato una simile presentazione. Quando strinse fra le mani il viso di Aenea, il vecchio disse: — Un bambino. Non mi sarei mai aspettato di vedere di nuovo un bambino.
Non capivo. — E i Chitchatuk? — dissi. — Anche loro sono esseri umani. Avranno anche loro dei bambini.
Prima delle "presentazioni", padre Glauco ci aveva guidati nel grattacielo e su per una rampa di scale fino a una stanza più calda, senza dubbio il suo luogo di soggiorno: c’erano lanterne e bracieri in cui ardeva vividamente la stessa carbonella usata dai Chitchatuk, solo che lì lanterne e bracieri erano centinaia e c’erano comodi mobili e un antiquato apparecchio per suonare dischi di musica e scaffali di libri che rivestivano le pareti… cosa che trovai incongrua, nella casa di un cieco.
— I Chitchatuk hanno bambini — rispose il vecchio prete — ma non li fanno stare con le bande che girano così lontano a nord.
— Perché? — domandai.
— Gli spettri artici — spiegò padre Glauco. — A nord della vecchia linea di terraforming sono numerosissimi.
— Pensavo che i Chitchatuk dipendessero per tutto dagli spettri artici.
Il vecchio annuì e si lisciò la barba, piena, candida, tanto lunga da nascondere il solino. Aveva una tonaca rattoppata e rammendata con cura, ma gualcita e lisa. — I miei amici Chitchatuk dipendono totalmente dai cuccioli di spettri artici — precisò. — Il metabolismo degli adulti rende la pelle e le ossa inutili per i loro scopi…
Non capivo l’ultima parte, ma non chiesi spiegazioni.
— Agli spettri artici, d’altro canto, niente piace di più dei bambini Chitchatuk. Ecco perché Cuchiat e gli altri sono così perplessi per la presenza della sua giovane amica.
— Dove stanno i loro bambini? — domandò Aenea.
— Molte centinaia di chilometri più a sud — rispose il prete. — Con i gruppi che allevano i bambini. Laggiù… fa caldo. Il ghiaccio è spesso solo trenta o quaranta metri e l’atmosfera è quasi respirabile.
— Perché gli spettri artici non vanno laggiù a caccia dei bambini? — domandai.
— Per loro è un territorio sgradevole… troppo caldo.
— Allora perché tutti i Chitchatuk non si spostano a sud al sicuro… — M’interruppi: evidentemente l’elevata gravità e il gelo m’avevano reso più stupido del solito.
— Per l’appunto — disse padre Glauco, accorgendosi dalla mia pausa che avevo capito da solo. — I Chitchatuk dipendono totalmente dagli spettri artici. Le bande di cacciatori, come quella del vostro amico Cuchiat, vanno incontro a rischi terribili per rifornire di carne, di pelli e di utensili le bande che allevano i bambini. Queste ultime corrono il rischio di morire di fame, prima di ricevere le forniture di cibo. I Chitchatuk hanno pochi bambini, ma quei pochi sono preziosi. O, come direbbero nella loro lingua, "utchai tuk aichit chacutkuchit".
— Più… sacri, mi pare significhi… del calore — tradusse Aenea.
— Precisamente — confermò il vecchio prete. — Ma dimentico le buone maniere. Ora vi accompagno nelle vostre stanze… ho alcune stanze per gli ospiti, ammobiliate e riscaldate, anche se voi siete i miei primi ospiti non Chitchatuk in… ah… cinque decenni standard, credo. Mentre vi sistemate, scalderò il pranzo.