Mi svegliai e non mi sorpresi d’essere ancora vivo. Immagino che ci si sorprenda solo se ci si sveglia morti. A ogni modo, mi svegliai senza alcun fastidio, a parte un vago formicolio alle estremità; per un paio di minuti rimasi disteso a guardare la luce del sole che strisciava lungo un ruvido soffitto a intonaco… finché non fui scosso da un pensiero fulminante.
"Un momento" pensai "non sono stato… non mi hanno…?"
Mi alzai a sedere, ora completamente sveglio, e mi guardai intorno. L’impressione che la condanna a morte fosse stata un sogno, se ancora mi restava, fu subito eliminata dalle banali caratteristiche dell’ambiente. La stanza era a forma di focaccia, con una curva parete di pietra tinta di bianco e uno spesso soffitto a intonaco. Il letto era l’unico mobile e il pesante lenzuolo, un tempo bianco, s’intonava all’intonaco e alla pietra. C’era una robusta porta di legno… chiusa… e una finestra ad arco aperta all’aria. Un’occhiata al cielo color lapislazzuli mi rivelò che mi trovavo ancora su Hyperion. Ma quella non era certo la prigione di Port Romance: la pietra era troppo vecchia, le finiture della porta erano troppo decorative, la stoffa del lenzuolo era di qualità troppo buona.
Mi alzai, scoprii d’essere nudo, andai alla finestra. La brezza autunnale era pungente, ma il sole mi scaldò. Mi trovavo in una torre di pietra. I gialli chalma e il fitto intrico di bassi weir intrecciavano un solido baldacchino di cime d’albero su per le montagne fino all’orizzonte. Semprazzurri crescevano sulle scarpate di granito. Scorgevo altre mura, bastioni, una torre circolare che scompariva lungo la cresta dove si alzava quella in cui mi trovavo. I muri parevano antichi. Il tipo di costruzione e lo stile architettonico appartenevano a un’epoca ricca d’abilità e di gusto, che risaliva a molto prima della Caduta.
Indovinai subito dove mi trovavo: i chalma e i weir indicavano che ero sempre nel continente meridionale, Aquila; l’eleganza degli edifici in rovina parlava della città abbandonata di Endymion.
Non ero mai stato nella città da cui la mia famiglia aveva preso il cognome, ma l’avevo sentita descrivere molte volte da Nonna, quella che nel clan raccontava le storie. Endymion era stata una delle prime città fondate su Hyperion dopo il disastroso atterraggio della navetta, circa sette secoli fa. Fino alla Caduta, era stata famosa per la sua elegante università, un gigantesco edificio a forma di castello che sovrastava la città vecchia, più in basso. Il bisnonno del bisnonno di Nonna era stato professore in quella università, finché l’esercito della Pax non aveva requisito l’intera regione centrale di Aquila, costringendo migliaia di persone a fare fagotto.
E adesso ero lì.
Un uomo calvo, dalla pelle azzurra e dagli occhi blu cobalto, entrò nella stanza, posò sul letto due capi di biancheria e un semplice vestito che pareva di cotone fatto in casa, e mi disse: — Prego, si vesta.
Mentre usciva, rimasi a fissarlo in silenzio. Pelle azzurra. Occhi blu cobalto. Totale assenza di peli. Lo sconosciuto era di sicuro un androide, il primo che avessi mai visto. Se me l’avessero domandato, avrei risposto che su Hyperion non erano rimasti androidi. Anche prima della Caduta era illegale bioprodurli; secoli fa erano stati importati dal leggendario re Billy il Triste per costruire la maggior parte delle città del continente settentrionale, ma non avevo mai sentito dire che nel nostro mondo ne esistessero ancora. Scossi la testa e mi vestii. L’abito, malgrado io abbia spalle insolitamente larghe e gambe più lunghe della media, pareva fatto su misura per me.
Quando l’androide tornò, ero di nuovo alla finestra. Lui si fermò sulla soglia e mi rivolse un gesto. — Da questa parte, prego, signor Endymion.
Dominai l’impulso di fare domande e lo seguii su per la scala interna della torre. La stanza in cima occupava l’intero piano. La luce del tardo pomeriggio entrava dalle vetrate dipinte di giallo e di rosso. Almeno una finestra era aperta, perché dal basso proveniva il fruscio delle fronde mosse dal vento che soffiava dalla valle.
La stanza era intonacata di bianco e spoglia come la mia cella, a parte un gruppo di attrezzature mediche e di banchi di comando per ricetrasmittenti posto al centro. L’androide uscì e si chiuse alle spalle la pesante porta; impiegai qualche istante per accorgermi che fra tutte quelle apparecchiature c’era un essere umano.
Almeno, pensai che fosse un essere umano.
L’uomo si trovava su un lettino di flussoschiuma sospeso a mezz’aria e regolato per fungere da poltrona. Cannule, fleboclisi, cavetti di monitoraggio e tubicini che parevano di sostanza organica andavano dalle apparecchiature all’essere avvizzito seduto sul lettino. Ho detto avvizzito, ma in realtà quell’uomo pareva quasi mummificato, con la pelle rugosa come il cuoio d’un vecchio giaccone, il cranio calvo e cosparso di macchie, braccia e gambe tanto emaciate da parere un residuo degli arti. Tutto, nella posizione di quell’uomo, mi faceva pensare a un grinzoso e implume pulcino caduto dal nido. La sua pelle, simile a pergamena, aveva una sfumatura azzurrina che per un attimo mi ricordò gli androidi; poi notai la diversa tonalità d’azzurro, la debole luminosità dei palmi, delle costole e della fronte; capii allora di trovarmi davanti a un uomo in carne e ossa, che aveva goduto… o patito… secoli di trattamento Poulsen.
Ormai più nessuno si sottopone al trattamento Poulsen. La relativa tecnologia scomparve con la Caduta, al pari degli indispensabili materiali grezzi provenienti da pianeti perduti nel tempo e nello spazio. Almeno, così credevo. Eppure avevo sotto gli occhi una creatura con un’età di parecchi secoli, alla quale l’ultimo trattamento Poulsen era stato somministrato da non più di qualche decennio.
Il vecchio aprì gli occhi.
Da allora ho visto altri occhi dallo sguardo altrettanto intenso, ma niente in vita mia m’aveva preparato all’impressione che provai in quel momento. Credo d’essere arretrato d’un passo.
— Vieni più vicino, Raul Endymion. — La voce pareva il rumore di una lama spuntata che sfregasse su pergamena. Le labbra si muovevano come il becco d’una tartaruga.
Mi avvicinai e mi fermai quando un quadro di comando si frappose tra me e quella creatura mummificata. Il vecchio batté le palpebre e sollevò la mano ossuta che pareva troppo pesante per quel polso ridotto a fuscello. — Sai chi sono? — domandò, con voce debole come bisbiglio.
Scossi la testa.
— Sai dove ti trovi?
Trassi un respiro. — A Endymion — risposi. — Nell’università abbandonata, credo.
Le rughe intorno alla bocca sdentata si allargarono in un sorriso. — Ottimo — disse il vecchio. — Hai riconosciuto il cumulo di pietre che diede il nome alla tua famiglia. Ma non sai chi potrei essere?
— No.
— E non vuoi sapere come sei sopravvissuto all’esecuzione?
Rimasi fermo come un soldato sul riposo e aspettai.
Il vecchio sorrise di nuovo. — Ottimo, davvero. Tutto arriva a colui che aspetta. E poi i particolari non spiegherebbero molto… bustarelle ai livelli più alti, uno storditore al posto della neuroverga, altre bustarelle a chi avrebbe certificato la morte ed eliminato il cadavere. Non siamo interessati al "come", vero, Raul Endymion?
— No — dissi infine. — Perché?
Il becco di tartaruga ebbe una contrazione, la grossa testa si mosse in un cenno d’assenso. Notai ora che il viso del vecchio, malgrado i danni provocati dai secoli, aveva ancora tratti netti e spigolosi… un’aria da satiro.
— Precisamente — disse il vecchio. — Perché? Perché prendersi la briga di falsificare la tua esecuzione e di trasportare la tua fottuta carcassa per mezzo fottuto continente? Già, perché?
Le parolacce non parvero particolarmente crude sulle labbra del vecchio, come se avessero costellato il suo modo d’esprimersi per tanto di quel tempo da perdere un’enfasi particolare. Aspettai che proseguisse.
— Voglio affidarti un incarico, Raul Endymion — disse il vecchio, con respiro sibilante. Un liquido chiaro scorreva nelle cannule endovenose.
— Ho scelta?
Il vecchio sorrise di nuovo, ma i suoi occhi erano immutabili come la pietra delle pareti. — Abbiamo sempre una scelta, caro ragazzo. Nel caso specifico, puoi ignorare l’eventuale debito che potresti sentire nei miei confronti perché ti ho salvato la vita e lasciar perdere tutto… puoi andartene, semplicemente. I miei servitori non ti fermeranno. Con un po’ di fortuna potrai uscire da questa zona vietata, trovare la strada per regioni più civili ed evitare le pattuglie della Pax, con le quali la tua identità e la mancanza di documenti potrebbero rivelarsi… ah… imbarazzanti.
Annuii. Probabilmente a quell’ora i miei abiti, il cronometro, il permesso di lavoro e la carta d’identità della Pax erano in fondo alla baia Toschahi. Il lavoro di guida nelle paludi mi aveva fatto dimenticare con quanta frequenza nei centri abitati le autorità controllavano i documenti. L’avrei riscoperto subito, se fossi tornato in una delle città costiere o nei paesi dell’interno. Perfino i lavori rurali, come il pastore o la guida, richiedevano la carta d’identità della Pax, per le tasse e le imposte. Non mi rimaneva che passare la vita nascosto nell’interno, vivendo dei prodotti della terra ed evitando contatti con la gente.
— Oppure — proseguì il vecchio — puoi svolgere per me un incarico e diventare ricco. — Mi ispezionò come avevo visto fare a cacciatori professionisti con i cuccioli che potevano o no rivelarsi buoni cani da caccia.
— Sentiamo — dissi.
Il vecchio chiuse gli occhi e trasse un respiro rauco e sibilante. Non si prese la briga di riaprire gli occhi. — Sai leggere, Raul Endymion?
— Sì.
— Hai letto il poema noto come i Canti?
— No.
— Ma ne conosci qualche brano? Sei nato in un clan di pastori nomadi del nord, perciò il cantastorie avrà di sicuro citato i Canti, no? — C’era un tono bizzarro, nella sua voce querula. Umiltà, forse.
Mi strinsi nelle spalle. — Ne ho sentito qualche verso. Il mio clan preferiva l’Epica di Garden o la Saga di Glennon-Height.
Il vecchio sorrise, con quella sua aria da satiro. — Ah, sì, l’Epica di Garden. Sì. Raul era l’eroe centauro del poema, vero?
Rimasi in silenzio. Nonna aveva amato quel personaggio, il centauro Raul. Mia madre e io eravamo cresciuti ascoltando i racconti che lo riguardavano.
— Credi nelle storie? — domandò bruscamente il vecchio. — Le storie dei Canti, voglio dire.
— Che siano cose davvero avvenute? I pellegrini e lo Shrike e tutto il resto? — Esitai qualche secondo. C’era chi credeva a tutte le storie narrate nei Canti. E c’era chi non credeva a nessuna di esse, chi pensava che fossero miti e farneticazioni messe insieme per aggiungere mistero all’orrenda guerra e alla confusione che era stata la Caduta. — A dire il vero, non ci ho mai pensato — risposi francamente. — Ha importanza?
Il vecchio parve soffocare; poi capii che quel suono gorgogliante era una risatina. — No, in realtà — rispose infine. — Ora, ascolta. Ti spiegherò gli elementi essenziali del… dell’incarico. Quando parlo, spendo energia, perciò non fare domande finché non avrò terminato. — Batté le palpebre e con la mano simile a un artiglio maculato indicò il lettino coperto da un lenzuolo bianco. — Vuoi sederti?
Scossi la testa e rimasi in piedi.
— Bene — disse il vecchio. — La mia storia inizia duecentosettanta e passa anni fa, durante la Caduta. Uno dei pellegrini di cui si parla nei Canti era una mia amica. Si chiamava Brawne Lamia. Era una persona reale. Dopo la Caduta, dopo la morte dell’Egemonia e l’apertura delle Tombe del Tempo, Brawne Lamia mise al mondo una figlia. L’aveva chiamata Diana, ma la bambina era ostinata e appena fu in grado di parlare, cambiò nome. Per un poco fu conosciuta come Cynthia, poi come Cate, diminutivo di Ecate, e poi, quando ebbe dodici anni, pretese che amici e familiari la chiamassero Temis. L’ultima volta che la vidi, si chiamava Aenea…
Il vecchio si fermò e mi scrutò a occhi socchiusi. — Pensi che questo non abbia importanza… ma i nomi sono importanti! Se tu non portassi il nome di questa città, a sua volta battezzata col nome di un antico poema, non saresti mai stato notato da me e adesso non ti troveresti qui. Saresti morto. Cibo per i vermisquali del Grande Mare Meridionale. Capisci, Raul Endymion?
— No — risposi.
Scosse la testa. — Non importa. Dov’ero rimasto?
— L’ultima volta la bambina si chiamava Aenea.
— Ah, sì. — Chiuse di nuovo gli occhi. — Non era particolarmente bella, ma era… unica. Chiunque l’avesse conosciuta, sentiva che era diversa. Speciale. Non viziata, malgrado la stupida faccenda del nome cambiato di continuo. Solo… differente. — Sorrise, mettendo in mostra le gengive rosee. — Hai mai incontrato qualcuno che sia profondamente diverso, Raul Endymion?
Esitai solo un secondo. — No — risposi. Ma non era vero. Quel vecchio era diverso. Però sapevo che la domanda non riguardava lui.
— Cate… Aenea… era diversa — proseguì. — Sua madre lo sapeva. Brawne sapeva che sua figlia era speciale, prima ancora che la bambina nascesse… — Si fermò e socchiuse gli occhi quanto bastava a scrutarmi. — Hai sentito questa parte dei Canti?
— Sì — risposi. — Un’entità cìbrida aveva predetto che la donna di nome Lamia avrebbe generato una figlia conosciuta come Colei Che Insegna.
Pensai che il vecchio stesse per sputare. — Un appellativo stupido — disse. — Per il periodo in cui la conobbi, nessuno la chiamò in quel modo. Aenea era solo una bambina. Brillante e ostinata, ma bambina. Ciò che aveva di unico, esisteva solo potenzialmente. Ma poi…
Lasciò morire la frase e i suoi occhi parvero velarsi. Come se avesse perduto il filo del discorso. Aspettai in silenzio.
— Ma poi Brawne Lamia morì — disse il vecchio dopo alcuni minuti, con voce più forte, come se non ci fosse stata interruzione nel monologo. — Aenea scomparve. Aveva dodici anni. Tecnicamente ero il suo tutore, ma lei non mi chiese il permesso di scomparire. Un giorno se ne andò e da lei non ebbi più notizie. — S’interruppe di nuovo: pareva una macchina che di tanto in tanto si esauriva e doveva essere ricaricata.
— A che punto ero? — disse dopo un poco.
— Non ha più avuto sue notizie.
— Sì, da lei non ho più avuto notizie, ma so dove andò e so quando ricomparirà. Ora le Tombe del Tempo sono zona vietata, chiusa al pubblico dai militari della Pax posti lì di guarnigione; ma tu, Raul Endymion, ricordi il nome e la funzione d’ogni tomba?
Emisi un borbottio. Nonna soleva tormentarmi allo stesso modo sui particolari delle storie. Pensavo che Nonna fosse molto anziana. A confronto di quel vecchio appassito e raggrinzito, era una bimbetta. — Credo di ricordare le tombe — risposi. — C’erano la Sfinge, la Tomba di Giada, l’Obelisco, il Monolito di Cristallo dove fu sepolto il soldato…
— Il colonnello Fedmahn Kassad — borbottò il vecchio. Tornò a guardarmi. — Continua.
— Le tre Tombe Grotta…
— Solo la terza Tomba Grotta portava altrove — m’interruppe di nuovo il vecchio. — Nei labirinti su altri mondi. La Pax l’ha sigillata. Continua.
— Non ne ricordo altre… ah, sì, il Palazzo dello Shrike.
Il vecchio mostrò quel suo sorriso a becco di tartaruga. — Non bisogna dimenticare il Palazzo dello Shrike, né il nostro vecchio amico Shrike, giusto? Non ce ne sono altre?
— Non credo — risposi. — No, non ce ne sono.
Il vecchio annuì. — La figlia di Brawne Lamia scomparve dentro una delle tombe. Sai quale?
— No. — Però avevo un sospetto.
— Sette giorni dopo la morte di Brawne, la bambina scrisse un biglietto; poi, nel cuore della notte, entrò nella Sfinge e scomparve. Ricordi dove porta la Sfinge, ragazzo?
— Secondo i Canti, per mezzo della Sfinge Sol Weintraub e sua figlia viaggiarono nel remoto futuro.
— Sì — mormorò il vecchio. — Sol e Rachel e pochissimi altri scomparvero nella Sfinge, prima che la Pax la chiudesse e vietasse l’ingresso nella Valle delle Tombe del Tempo. In quei primi giorni, molti provarono a entrare nella Sfinge, cercando una scorciatoia per il futuro; ma pareva che fosse la Sfinge a scegliere chi poteva percorrere il suo tunnel del tempo.
— E accettò la bambina — dissi.
Il vecchio si limitò a un borbottio d’assenso per l’ovvia deduzione. — Raul Endymion — gracchiò infine — sai cosa sto per chiederti?
— No — risposi. Ma anche stavolta avevo un forte sospetto.
— Devi seguire la mia Aenea — disse il vecchio. — Devi trovarla, devi proteggerla dalla Pax, devi fuggire con lei e… quando sarà cresciuta e sarà diventata ciò che deve diventare… devi trasmetterle un messaggio. Devi dirle che suo zio Martin è in fin di vita e che, se lei desidera parlargli di nuovo, deve tornare a casa.
Soffocai un sospiro. Avevo immaginato che quella vecchissima creatura fosse il poeta Martin Sileno. Tutti conoscevano i Canti e il loro autore. Come fosse sfuggito alle purghe della Pax e come fosse riuscito a vivere in quella zona vietata, era per me un mistero, ma un mistero che non avevo voglia di sondare.
— Vuole — dissi — che vada a nord, nel continente Equus, che mi apra con la forza la strada fra parecchie migliaia di soldati della Pax, che entri in qualche modo nella Valle delle Tombe del Tempo, che m’introduca nella Sfinge, augurandomi d’essere accettato, e che insegua nel remoto futuro quella bambina, che le rimanga attorno per qualche decennio e che poi le dica di tornare indietro nel tempo per farle visita?
Per alcuni momenti ci fu silenzio, rotto solo dai deboli rumori delle apparecchiature che mantenevano in vita Martin Sileno. Le macchine respiravano.
— Non esattamente — disse alla fine il vecchio.
Aspettai che si spiegasse.
— Aenea non è andata in chissà quale remoto futuro — proseguì — ma in un futuro non molto lontano dal nostro tempo attuale. Quando varcò l’ingresso della Sfinge, 247 anni fa, voleva fare un viaggio breve. 262 anni di Hyperion, per la precisione.
— Come lo sa? — domandai. Da ciò che avevo letto, nessuno, neppure gli scienziati della Pax che avevano avuto duecento anni per studiare le tombe sigillate, era in grado di predire quanto lontano nel futuro la Sfinge avrebbe mandato una persona.
— Lo so e basta! — replicò il vecchio. — Non mi credi?
Evitai una risposta diretta. — Allora la bambina… Aenea… uscirà dalla sfinge un giorno di quest’anno.
— Ne uscirà fra quarantadue ore e sedici minuti — precisò il vecchio.
Ammetto d’essere rimasto sorpreso.
— E la Pax sarà lì ad aspettarla — continuò lui. — Anche loro sanno il minuto preciso in cui Aenea emergerà…
Non gli domandai come si fosse procurato l’informazione.
— E la cattura di Aenea è il punto più importante nei programmi della Pax — gracchiò il vecchio poeta. — Sanno che dalla sua cattura dipende il futuro dell’universo.
Ora sapevo che il vecchio poeta soffriva di demenza senile. Il futuro dell’universo non può dipendere da un singolo evento… fin qui ci arrivavo anch’io. Mantenni il silenzio.
— In questo preciso momento, più di trentamila soldati della Pax si trovano nella Valle delle Tombe del Tempo e nei dintorni. Almeno cinquemila sono Guardie Svizzere del Vaticano.
Mi lasciai sfuggire un fischio. Le Guardie Svizzere erano il meglio del meglio, la forza militare meglio addestrata e meglio equipaggiata in tutto l’ambito della Pax. Dieci Guardie Svizzere in alta uniforme avrebbero battuto tutti i diecimila effettivi della Guardia Nazionale di Hyperion. — Così — dissi — ho quarantadue ore per raggiungere Equus, attraversare il mar d’Erba e le montagne, passare in qualche modo sotto il naso di venti o trentamila dei migliori soldati della Pax e portare in salvo la bambina?
— Sì — rispose il vecchio.
Riuscii a non roteare gli occhi. — E poi? Non esiste nascondiglio. La Pax controlla tutto Hyperion, tutte le astronavi, le spaziolance e ogni pianeta di quella che un tempo era l’Egemonia. Se la bambina è davvero così importante, per trovarla rivolteranno Hyperion in lungo e in largo. Anche se in qualche modo potessimo lasciare il pianeta, e non possiamo, non potremmo fuggire da nessuna parte.
— Esiste un modo per lasciare il pianeta — disse il vecchio, con voce stanca. — Per voi è pronta una nave.
Deglutii con forza. Una nave! L’idea di viaggiare per mesi fra le stelle, mentre a casa passavano anni interi, mi toglieva il fiato. Mi ero arruolato nella Guardia Nazionale spinto dall’infantile idea che un giorno avrei fatto parte dell’esercito della Pax e sarei volato fra le stelle. Un’idea davvero sciocca, per un ragazzotto che aveva già deciso di non accettare il crucimorfo.
— Tuttavia — dissi, non del tutto convinto che ci fosse davvero una nave, perché nessun membro della Pax Mercatoria avrebbe mai trasportato dei fuggiaschi — anche se riuscissimo ad arrivare su di un altro pianeta, ci avrebbero in pugno. A meno che lei non ci veda fuggire per nave fino ad accumulare secoli di debito temporale.
— No — disse il vecchio. — Niente secoli. Né decenni. Fuggirete per nave su uno dei più vicini mondi della vecchia Egemonia. Poi seguirete una via segreta. Vedrete gli antichi mondi. Viaggerete sul fiume Teti.
Adesso ero sicuro che il vecchio avesse perduto la ragione. Quando i teleporter avevano smesso di funzionare e le Intelligenze Artificiali del TecnoNucleo avevano abbandonato la razza umana, la Rete dei Mondi e l’Egemonia erano morte nello stesso giorno. La razza umana era ricaduta sotto la tirannia delle distanze interstellari. Attualmente solo le forze militari della Pax, i loro burattini della Mercatoria e gli odiati Ouster sfidavano il buio fra le stelle.
— Vieni qui — disse con voce rauca il vecchio, facendo un gesto a dita sempre rattrappite. Mi sporsi sul basso quadro comandi. Sentii l’odore del vecchio, una vaga mistura di medicinali, di vecchiaia e di qualcosa di simile al cuoio.
Non avevo bisogno di ricordare le storie narrate da Nonna intorno al fuoco da campo per sapere che cosa fosse il fiume Teti e per convincermi che il vecchio era affetto da demenza senile. Tutti conoscevano il fiume Teti. Il fiume e il cosiddetto Grand Concourse erano state due serie di teleporter in continua attività fra i mondi dell’Egemonia. Il Concourse era una via che collegava cento e passa mondi sotto cento e passa soli, aperta a tutti e punteggiata di portali teleporter che non venivano mai chiusi. Il fiume Teti era una via meno frequentata, ma comunque importante per il commercio all’ingrosso e per le innumerevoli barche di piacere che viaggiavano senza fatica da mondo a mondo in quel corso d’acqua davvero unico.
La Caduta della Rete dei Mondi e del suo sistema di teleporter aveva frazionato il Concourse in mille segmenti; per lo stesso motivo, il Teti aveva semplicemente cessato d’esistere: i portali di collegamento erano diventati inutili e l’unico fiume su cento mondi si era riconvertito in cento fiumi più piccoli che non si sarebbero mai più riuniti. Perfino il vecchio poeta seduto davanti a me aveva descritto la morte del Teti. Ricordavo i versi dei Canti, come li recitava Nonna:
E il fiume ch’era scorso di continuo
per duecento o più anni,
dai trucchi del Nucleo
collegato attraverso spazio e tempo,
ora smise di scorrere
sul Mondo di Barnard e l’ampio Fuji,
su Acteon e Deneb Drei,
Esperance e Nevermore.
Là dove il Teti scorreva come nastro
fra i pianeti dell’uomo,
là i portali più non funzionarono,
il letto là del fiume prosciugò,
là le correnti più non vorticarono.
Persi andaron del TecnoNucleo i trucchi,
persi furon per sempre i viaggiatori:
chiuso il portale, la porta sbarrata,
a scorrere mai più è tornato il Teti.
— Vieni più vicino — mormorò il vecchio poeta, movendo ancora il dito giallastro per chiamarmi. Mi chinai su di lui. Il respiro di quella vecchissima creatura pareva vento secco che uscisse da una tomba spalancata: privo di odore, ma antico, in un certo modo richiamava alla mente secoli dimenticati. Il poeta bisbigliò:
Un bell’oggetto è gioia per sempre:
la sua bellezza aumenta;
per sempre non cadrà in nulla…
Ritrassi la testa e annuii, come se il vecchio avesse detto qualcosa d’assennato. Era chiaramente pazzo.
Quasi m’avesse letto nel pensiero, il vecchio ridacchiò. — Spesso m’hanno definito pazzo, quelli che sottovalutano il potere della poesia. Non decidere subito, Raul Endymion. Ci rivedremo più tardi a cena e concluderò la descrizione della sfida. Decidi dopo. Per ora… riposa! La morte e la risurrezione t’avranno stancato di sicuro. — S’ingobbì ed emise quel suono secco e gorgogliante che ormai riconoscevo come risata.
L’androide mi riaccompagnò nella mia stanza. Dalle finestre della torre colsi rapidi scorci di corti interne e di edifici aggiunti. Vidi anche un altro androide, anch’esso maschio, camminare davanti alle vetrate verticali, dall’altra parte del cortile.
La mia guida aprì la porta e arretrò d’un passo. Mi resi conto che non sarei stato chiuso nella stanza: non ero prigioniero.
— Il suo abito da sera è pronto, signore — disse l’androide. — Naturalmente lei è libero di andarsene o di girare a piacimento nella zona della vecchia università. Mi permetto però d’avvertirla, signor Endymion, che nella foresta e nelle montagne qui intorno ci sono animali pericolosi.
Annuii e sorrisi. Gli animali pericolosi non m’avrebbero impedito di andarmene, se avessi voluto. Al momento, non volevo.
Allora l’androide si girò per andarsene e io, agendo d’impulso, mossi un passo e feci un’azione che avrebbe cambiato per sempre il corso della mia vita.
— Un momento — dissi. Tesi la mano. — Non siamo stati presentati. Raul Endymion.
Per un poco l’androide si limitò a guardare la mia mano tesa e in quel momento fui sicuro d’avere infranto chissà quale protocollo. In fin dei conti, secoli fa, quando erano stati biocostruiti per essere impiegati nell’espansione dell’Egira, gli androidi erano considerati creature un po’ inferiori alla razza umana. Poi l’uomo artificiale mi strinse la mano e la scosse con forza. — A. Bettik — disse in tono dimesso. — Lieto di conoscerla.
A. Bettik. Il nome mi ricordò qualcosa che non riuscii a precisare. — Mi piacerebbe parlare con te, A. Bettik — dissi. — Apprendere altri particolari su… su di te e su questo posto e sul vecchio poeta.
L’androide alzò gli occhi e nel suo sguardo mi parve di scorgere un lampo come di divertimento. — Sì, signore — disse. — Sarei felice di parlare con lei. Purtroppo dovremo rimandare a più tardi, perché al momento devo sovrintendere a diversi incarichi.
— A più tardi, allora. La considero una promessa.
A. Bettik annuì e scese la scala della torre.
Entrai nella mia stanza. A parte il letto rifatto e un elegante abito da sera ben piegato, la stanza era uguale a prima. Andai alla finestra e guardai al di là delle rovine dell’Università di Endymion. Alti semprazzurri stormivano nella fresca brezza. Foglie viola cadevano dal boschetto di weir accanto alla torre e frusciavano sulla pavimentazione a lastre di pietra, venti metri più in basso. Foglie di chalma spargevano nell’aria la caratteristica fragranza di cinnamomo. Ero cresciuto a qualche centinaio di chilometri da lì, verso nordest, nelle brughiere di Aquila, fra quelle montagne e la zona conosciuta come il Becco, ma qui la gelida freschezza dell’aria di montagna era nuova per me. Il cielo pareva di un turchese più intenso di quanto non avessi mai visto nelle brughiere e nelle pianure. Mi riempii i polmoni dell’aria autunnale e sorrisi: qualsiasi bizzarria mi riservasse il destino, ero maledettamente felice d’essere vivo.
Lasciata la finestra, mi diressi alla scala della torre per scendere a dare un’occhiata agli edifici universitari e alla città dalla quale la mia famiglia aveva preso il cognome. Per quanto pazzo fosse il vecchio, la conversazione durante la cena sarebbe stata di sicuro interessante.
A un tratto, quando ero quasi in fondo alla scala, mi fermai di colpo.
A. Bettik. Ora ricordavo. Il nome proveniva dai Canti. A. Bettik era l’androide che aveva pilotato la chiatta a levitazione Benares a nordest dalla città di Keats nel continente Equus, su per il fiume Hoolie, al di là della stazione fluviale Naiade, delle Chiuse Karla e della Ceppaia Doukhobor, fin dove il fiume navigabile terminava nell’Orlo. Dall’Orlo i pellegrini avevano proseguito attraverso il mar d’Erba. Ricordavo d’avere ascoltato da bambino quel racconto e d’essermi domandato perché A. Bettik fosse l’unico androide di cui si riportava il nome e che fine avesse fatto, dopo che i pellegrini l’avevano lasciato sull’Orlo. Per più di vent’anni avevo dimenticato quel nome.
Scossi la testa e mi domandai se il matto non ero io, anziché il vecchio poeta; poi uscii nella luce del tardo pomeriggio per esplorare Endymion.