Il ricordo dei venti minuti che trascorsi nell’ampia e luminosa sala mensa assomiglia molto a quegli incubi che prima o poi tutti abbiamo: sapete a quali mi riferisco, quelli in cui ci troviamo in un posto emerso dal nostro passato, ma non riusciamo a ricordare per quale motivo ci troviamo lì né il nome delle persone che ci circondano. Quando il tenente e i suoi due uomini mi accompagnarono nella sala mensa, tutto nella stanza aveva la dislocazione, tipica degli incubi, di una cosa un tempo ben nota. Dico ben nota perché avevo trascorso buona parte dei miei ventisette anni in accampamenti di cacciatori e in mense militari, in bar di sale da gioco e in cambuse di vecchie chiatte. Conoscevo bene le compagnie maschili: fin troppo, avrei potuto dire allora, perché gli elementi che percepivo in quella sala… baldoria, spacconate, l’untuoso odore dolciastro d’uomini innervositi dalla vita urbana in preda al cameratismo maschile dell’avventura… m’avevano da tempo stufato. Ma ora quella familiarità era compensata dalla stranezza: i brani di discorsi ricchi di cadenza dialettale, la sottile differenza nell’abbigliamento, il puzzo di suicidio dovuto alle sigarette e la consapevolezza che mi sarei tradito immediatamente se avessi dovuto vedermela con la loro lingua corrente, cultura, relazioni.
Sul tavolo più lontano c’era un alto contenitore di caffè… non ero mai stato in una mensa che non l’avesse. Mi diressi da quella parte, cercando d’assumere un’aria noncurante, trovai una tazza relativamente pulita e mi versai un po’ di caffè. Intanto tenevo d’occhio il tenente e i suoi due uomini che tenevano d’occhio me. Quando si convinsero che facevo parte del gruppo, i tre si girarono e uscirono. Sorseggiai un caffè orribile, notai oziosamente che la mano non mi tremava malgrado fossi in preda a un uragano d’emozioni e cercai di stabilire come comportarmi.
Incredibilmente, avevo ancora le armi (coltello e pistola) e la radio. Con la radio avrei potuto in qualsiasi momento far esplodere il plastico e poi, nella confusione, correre a recuperare il tappeto hawking. Ora che avevo visto le sentinelle della Pax, sapevo che sarebbe stata necessaria una manovra diversiva affinchè la zattera passasse accanto alla piattaforma senza essere vista. Andai alla finestra che dava su quello che consideravamo il nord, ma vidi il cielo "orientale" illuminato dall’imminente sorgere delle lune. L’arcata del teleporter era visibile a occhio nudo. Provai ad aprire la finestra, ma era chiusa in un modo che non riuscivo a capire, oppure era imbullonata. Circa un metro sotto la finestra c’era il tetto di lamiera ondulata di un altro modulo, ma non vedevo come arrivarci da lì.
— Tu con chi sei, figliolo?
Mi girai di scatto. Cinque uomini si erano staccati dal gruppo più vicino e uno di loro, il più basso e più grasso, mi aveva rivolto la parola. L’uomo indossava abiti sportivi (camicia di flanella a quadri, giubbotto di tela non molto diverso dal mio) e portava alla cintura un coltello per squamare pesce. Solo allora mi resi conto che forse i soldati della Pax avevano visto la punta della fondina sporgere dal giubbotto e l’avevano scambiata per il fodero di uno di quei coltelli.
Anche il grassone aveva parlato in dialetto, ma un dialetto diverso da quello delle sentinelle della Pax. I pescatori, ricordai, probabilmente provenivano da altri pianeti, per cui il mio modo di parlare forse non avrebbe destato troppi sospetti.
— Klingman — dissi, bevendo un altro sorso di quel caffè dal sapore di fanghiglia. Con i soldati della Pax, quell’unica parola aveva funzionato.
Con quegli uomini non funzionò. Si scambiarono delle occhiate e poi il grassone disse: — Siamo venuti con il gruppo Klingman, ragazzo. Fin qui, da Santa Teresa. Non eri sull’aliscafo. Qual è il tuo gioco?
Sorrisi. — Nessun gioco — risposi. — Dovevo fare parte del gruppo… l’ho mancato, a Santa Teresa… e mi sono aggregato agli Autery.
M’era andata ancora buca. I cinque parlottarono tra loro. Varie volte colsi le parole "pescatori di frodo". Due di loro lasciarono la sala. Il grassone puntò il dito su di me. — Ero seduto laggiù con la guida del gruppo Autery. Anche lui non ti ha mai visto prima. Resta lì, figliolo.
Era l’unica cosa che non avrei fatto di sicuro. Posai sul tavolo la tazza e dissi: — No, resta lì tu. Vado a chiamare il tenente, così mettiamo in chiaro qualche cosetta. Non muoverti.
Il grassone parve confuso e rimase dov’era, mentre attraversavo la sala mensa, ora silenziosa, aprivo la porta e uscivo sulla passerella.
Non c’era posto dove andare. Alla mia destra, i due soldati della Pax armati di fucile a fléchettes stavano all’erta accanto alla ringhiera. Alla mia sinistra, il magro tenente con cui poco prima m’ero scontrato percorreva in fretta la passerella verso di me, seguito dai due civili e da un grassoccio capitano della Pax.
— Maledizione — dissi. Usai il laringofono. «Ragazzina» trasmisi «sono nei guai. Potrebbero catturarmi. Lascerò aperto il microfono esterno, così potrai udire. Vai dritto al portale. E non rispondere!» Ci mancava solo che durante la conversazione una vocina trillasse dall’auricolare.
— Ehi! — dissi, avanzando verso il capitano e alzando la mano come per stringergli la sua. — Proprio la persona che cercavo.
— È lui — gridò uno dei due pescatori. — Non è giunto con noi né con il gruppo Autery. È uno dei maledetti pescatori di frodo di cui lei parlava!
— Ammanettatelo — ordinò il capitano. Prima che potessi tentare una mossa intelligente, i soldati alle mie spalle mi afferrarono e il magro tenente mi ammanettò. Erano manette metalliche del vecchio tipo, ma funzionavano benissimo: erano tanto strette da bloccare quasi la circolazione del sangue.
In quell’istante mi resi conto che come spia non sarei mai stato un asso. L’incursione sulla piattaforma era stata un disastro da cima a fondo. I soldati della Pax non erano molto meticolosi (mi premevano da tutte le parti, mentre avrebbero dovuto stare a distanza e tenermi sotto tiro mentre mi perquisivano e, dopo avermi disarmato, mi ammanettavano con le mani sulla schiena e non davanti al corpo) però fra pochi secondi mi avrebbero perquisito.
Decisi di non concedere loro quei pochi secondi. Alzai di scatto le mani ammanettate, afferrai per la camicia il grassoccio capitano e lo gettai all’indietro contro i due civili. Vi fu un momento di grida e di spintoni, durante il quale mi girai rapidamente, tirai con tutte le mie forze un calcio nelle palle al soldato più vicino e afferrai il secondo per il fucile ancora a tracolla. Il soldato lanciò un grido e afferrò l’arma, usando tutt’e due le mani, proprio mentre io tiravo in basso la cinghia. Il soldato seguì l’arma, batté una testata contro la parete e cadde subito a sedere. L’altro, quello che avevo colpito nelle palle, era ancora piegato in due e con una mano si teneva l’inguine; ma allungò l’altra mano e mi lacerò il maglione dal collo alla cintura, stappandomi anche gli occhiali a visore notturno. Gli mollai un calcio alla gola e lui finì lungo e disteso.
Intanto il tenente aveva sguainato la pistola a fléchettes, ma capì che, se mi avesse sparato, avrebbe ucciso anche i due soldati alle mie spalle e allora col calcio dell’arma mi colpì in testa.
Le pistole a flécbettes non sono poi molto pesanti, ma quella mi fece vedere le stelle per un momento e mi lacerò il cuoio capelluto. Mi rese anche rabbioso.
Mi girai e col pugno colpii in faccia il tenente. Lui girò su se stesso, arretrò contro la ringhiera, alta circa un metro, agitando le braccia, e proseguì sullo slancio. Per un secondo tutti si bloccarono, impietriti, tranne io: infatti, mentre ancora si vedevano le piante dei piedi del tenente passare sopra la ringhiera, mi ero girato, avevo scavalcato il soldato disteso per terra, avevo spalancato la porta schermata ed ero entrato di corsa nella sala mensa. Gli uomini si agitavano da tutte le parti, per la maggior parte verso la porta e le finestre, per scoprire la causa del trambusto; ma mi fecero largo, mentre a testa bassa li schivavo con l’azione travolgente del giocatore di rugby che porta la palla in meta.
Alle mie spalle udii il rumore della porta spalancata e il grido, del capitano o di un soldato: — Giù! Fuori dei piedi! Attenti!
Mi sentii ingobbire le scapole al pensiero di migliaia di flécbettes in volo verso di me, ma non rallentai, balzai sopra un tavolo, con i polsi sempre ammanettati mi coprii il viso e mi lanciai contro la finestra, assorbendo con la spalla destra la parte peggiore dell’urto.
Mentre ero in volo, pensai per un attimo che se la finestra fosse stata di perspex o di vetro rinforzato la mia avventura si sarebbe conclusa in una perfetta farsa: sarei rimbalzato nella sala mensa e sarei stato ucciso o catturato, a scelta dei soldati. Sarebbe stato logico, per una piattaforma in mare aperto, utilizzare materiali infrangibili anziché vetro. Ma quando, alcuni minuti prima, l’avevo toccato, il pannello della finestra mi era parso davvero di vetro.
Era vetro.
Atterrai sul tetto di lamiera ondulata e continuai a rotolare verso l’esterno, mentre schegge di vetro volavano e scricchiolavano intorno a me e sotto di me. Trascinavo parte dell’intelaiatura (il giubbotto e il maglione a brandelli erano trapunti di schegge di legno e di vetro) ma non rallentai per liberarmene. Alla fine del tetto mi si presentò una scelta: l’istinto voleva che continuassi a rotolare oltre il bordo per sparire alla vista prima che i fucilieri aprissero il fuoco, augurandomi che là sotto ci fosse un’altra passerella; la logica voleva che mi fermassi a controllare, prima di rotolare giù; la memoria mi suggeriva che non c’erano passerelle lungo quel bordo della piattaforma.
Scelsi un compromesso: rotolai fino al bordo del tetto, ma mi afferrai alla sporgenza e scrutai di sotto prima che gli stivali scivolassero e le dita perdessero la presa. Non c’erano ponti né piattaforme, di sotto: solo venti metri d’aria dai miei piedi alle onde viola. Le lune si levavano e il mare pareva vivo per il riflesso luminoso.
Mi alzai sulle braccia quanto bastava a dare un’occhiata alla finestra da cui ero fuggito; vidi i tiratori agitarsi e abbassai la testa proprio mentre uno di loro sparava. Il nugolo di fléchettes passò alto di poco, mancando di qualche centimetro le mie dita; trasalii nell’udire il ronzio di migliaia d’aghi d’acciaio che mi sorvolavano. Sotto di me non c’era un ponte, ma vedevo un tubo che correva in orizzontale lungo la fiancata del modulo. Aveva un diametro di sei o otto centimetri. C’era pochissimo spazio fra il tubo e la parete del modulo, forse appena sufficiente a passarci le dita e aggrapparsi… se il tubo non si fosse spezzato sotto il peso, se l’urto non mi avesse slogato la spalla, se le manette non mi avessero ostacolato, se… Non rimasi lì a pensare: mi lasciai cadere. L’avambraccio e il ferro delle manette sbatterono contro il tubo e rischiai di rimbalzare via, ma ero pronto a serrare le dita e ci riuscii; per un attimo le dita scivolarono, ma poi ressero il peso.
La seconda scarica di fléchettes disintegrò la sporgenza del tetto e perforò in centinaia di punti la parete esterna. Schegge e frammenti d’acciaio piovvero nel chiaro delle lune, mentre più in alto gli uomini gridavano e imprecavano. Udii rumore di passi sul tetto.
Mi spostai verso sinistra, dondolando, più in fretta che potevo. Dall’angolo del modulo sporgeva un ponte, almeno tre metri più in basso e quattro o cinque verso est. L’avanzata era lenta da impazzire. Le spalle protestavano per lo sforzo, le dita mi s’intorpidivano per mancanza di circolazione. Sentivo nei capelli e nel cuoio capelluto schegge di vetro: il sangue mi colava negli occhi. I soldati sarebbero giunti al bordo del tetto prima che io arrivassi a trovarmi sospeso sopra la piattaforma.
A un tratto ci furono imprecazioni e grida: una sezione del tetto, nel punto da dove poco prima penzolavo, si era incavata. Evidentemente la scarica di fléchettes aveva indebolito la struttura e ora il peso dei soldati la faceva cedere. Udii i soldati ritirarsi in fretta, imprecando e cercando altre vie per arrivare al bordo.
L’indugio mi concesse otto o dieci secondi in più, ma mi bastarono per arrivare al termine del tubo, per dondolare una volta, due, e mollare la presa alla terza. Caddi pesantemente sulla piattaforma, rotolai e andai a sbattere contro la ringhiera, con tanta violenza da restare senza fiato.
Ma non potevo fermarmi a riprendere fiato. Mi mossi in fretta e rotolai verso la parte più buia del ponte, sotto il modulo. Almeno due fucili a fléchettes fecero fuoco: una scarica andò a vuoto e fece ribollire l’acqua quindici metri più in basso, l’altra colpì l’estremità del ponte, col rumore di cento sparachiodi in funzione nello stesso istante. Mi tirai in piedi e mi misi a correre, scansando basse travi e cercando di scorgere qualcosa in quel labirinto d’ombre. Da qualche parte, sopra di me, risuonarono dei passi. I soldati avevano il vantaggio di conoscere la disposizione dei ponti e delle scale, ma solo io sapevo dov’ero diretto.
Ero diretto al ponte più basso dell’estremità est, dove avevo lasciato il tappeto; ma il ponte di servizio sul quale mi trovavo portava a una lunga passerella che correva a nord e a sud. Passai sotto la piattaforma principale finché non ritenni d’essere in pari col ponte est; allora montai a cavalcioni di una trave di sostegno larga circa sei centimetri e, agitando a destra e a sinistra le mani ammanettate per tenermi in equilibrio, attraversai una sezione scoperta, fino al successivo pilone verticale. Ripetei la manovra, deviando a nord e a sud quando la trave terminava, ma trovandone sempre un’altra che andava a est.
Botole si spalancavano e passi rimbombavano sulle passerelle sotto il ponte principale, ma raggiunsi per primo il ponte est. Vi saltai sopra, trovai il tappeto ancora legato al puntone, lo srotolai, toccai i fili di volo, presi quota e mi ritrovai a passare sopra la ringhiera proprio mentre una botola si apriva sulla lunga rampa di scalini che portava giù al ponte. Mi ero disteso bocconi sul tappeto nel tentativo di presentare la minore sagoma possibile contro le lune o le acque illuminate e per via delle manette manovravo con impaccio i fili di volo.
L’istinto mi diceva di volare dritto a nord, ma sarebbe stato un errore. I fucili a fléchettes erano precisi solo fino a sessanta o settanta metri, ma lassù qualcuno aveva di sicuro un fucile al plasma o l’equivalente. Ora tutti concentravano l’attenzione sull’estremità est della piattaforma. Per me era meglio puntare a ovest o a sud.
Virai a sinistra, planai sotto le travi di sostegno e mi tenni a breve distanza dalle onde, dkigendomi a ovest e sfruttando come protezione il bordo della piattaforma. Da quella parte solo un ponte sporgeva sul mare (quello su cui mi ero lasciato cadere) e vedevo che sull’estremità nord non c’era nessuno. Anzi, notai, il ponte era ridotto a brandelli per le scariche di fléchettes e probabilmente sarebbe crollato, se qualcuno ci avesse messo piede. Volai sotto quel ponte e continuai verso ovest. Stivali rimbombarono sulle passerelle superiori, ma chi mi avesse visto, avrebbe avuto il suo daffare a prendermi di mira a causa delle decine di piloni e di travi incrociate.
Mi lanciai fuori della piattaforma, tenendomi nella sua ombra (le lune adesso erano più alte) e a qualche millimetro dall’acqua, nel tentativo di frapporre la lunga onda oceanica tra me e l’estremità ovest della stazione. Mi ero allontanato di una sessantina di metri e mi preparavo a emettere un sospiro di sollievo, quando udii lo sciaguattio e i colpi di tosse, a qualche metro alla mia destra, al di là della cresta dell’onda seguente.
Capii subito che cos’era… chi era! Il tenente che avevo scaraventato dalla ringhiera. Il mio primo impulso fu di tirare dritto. Alle mie spalle c’era una grande confusione… grida, spari dal lato nord, altre grida all’estremità est, da dove ero fuggito… ma pareva che ancora nessuno m’avesse scorto. Quell’uomo m’aveva rifilato un colpo in testa e m’avrebbe allegramente ucciso, se non ci fossero stati di mezzo i suoi compagni. Il fatto che la corrente l’avesse trascinato lì, lontano dalla piattaforma, si poteva imputare alla sua sfortuna. Cosa potevo farci io, se lui era sfortunato?
"Posso calarlo sulla base della piattaforma" mi dissi. "Oppure su una delle travi di sostegno. Da lì sono già andato via una volta, posso ripetermi. Faceva il suo lavoro. Non merita di morire per questo."
Mi sembra giusto dire che in simili momenti odiavo la mia coscienza… anche se di simili momenti non è che me ne capitassero tanti.
Fermai a pelo d’acqua il tappeto hawking. Ero ancora disteso bocconi, testa e spalle ingobbite perché i soldati urlanti sulla piattaforma non mi scorgessero. Ora mi sporsi sulla destra per localizzare la fonte dello sciaguattio e dei colpi di tosse.
Vidi per prima cosa i pesci. Avevano la pinna dorsale come gli squali della Vecchia Terra o come i famelici dorso-a-sciabola del mar Meridionale di Hyperion… con una differenza: due lucenti pinne al posto di una. Nella luce delle lune vedevo chiaramente i pesci: dalla coppia di pinne dorsali al ventre scintillavano di una decina di vividi colori diversi. Lunghi circa tre metri, si muovevano come predatori, con possenti spinte della coda, e mostravano denti bianchissimi.
Seguii sopra l’onda uno di quegli assassini, dirigendomi verso i colpi di tosse, e vidi il tenente. Si dimenava fra gli spruzzi nel tentativo di tenere la testa fuor d’acqua e intanto si rigirava per tenere a bada gli squali multicolori. Appena una creatura s’avventava su di lui nell’acqua viola, il tenente scalciava nel tentativo di colpire con lo stivale la testa o le pinne. Il pesce azzannava a vuoto e si allontanava. Altri serravano il cerchio. Il tenente della Pax era chiaramente esausto.
— Maledizione — mormorai. Non potevo lasciarlo lì.
Per prima cosa annullai il campo deflettore… un mini-campo di contenimento progettato per fungere da parabrezza ad alta velocità e per non perdere i passeggeri (in particolare i bambini) a qualsiasi velocità. Se tiravo a bordo quel poveraccio zuppo d’acqua, non volevo lottare anche contro il campo. Poi mossi il tappeto lungo l’onda e lo fermai nel punto esatto dove avevo visto il tenente.
Il tenente non c’era più. Era scivolato sotto. Pensai di tuffarmi, poi scorsi le braccia che si dimenavano sotto il pelo dell’acqua. Gli squali stringevano il cerchio, ma per il momento non attaccavano. Forse erano sconcertati dall’ombra del tappeto.
Protesi nell’acqua le mani ammanettate, afferrai per il polso destro il tenente e lo tirai su. Per il peso rischiai di cadere dal tappeto, ma mi sporsi all’indietro, ritrovai l’equilibrio e tirai fuori il tenente quanto bastava per afferrarlo per il fondo dei calzoni e trascinarlo, gocciolante e sputacchiante, sul tappeto.
Il tenente era cereo e freddo, tremava tutto; subito vomitò acqua e poi parve respirare regolarmente. Ne fui contento: non ero sicuro che la mia generosità sarebbe giunta fino a praticargli la respirazione a bocca a bocca. Controllai che fosse disteso a una certa distanza dal bordo del tappeto (non volevo che uno squalo saltasse su ad azzannargli una gamba) e riportai l’attenzione sui comandi. Stabilii la rotta per tornare alla piattaforma e feci sollevare un poco il tappeto. Frugai nel giubbotto, trovai la ricetrasmittente e impostai il codice per far esplodere il plastico piazzato sui ponti degli skimmer e dei tòtteri. Mi sarei avvicinato alla piattaforma da sud, perché così potevo controllare che su quei ponti non ci fossero persone: allora, con una semplice pressione sul pulsante, avrei trasmesso il codice che avrebbe azionato i detonatori; nella confusione avrei fatto il giro e mi sarei riaccostato da ovest per lasciar cadere il tenente sul primo luogo asciutto che avessi trovato là sotto.
Mi girai per vedere se il tenente respirava ancora e scorsi come in un lampo che si era alzato sul ginocchio e impugnava qualcosa di lucente che…
… mi pugnalò al cuore.
O meglio, mi avrebbe trapassato il cuore, se non mi fossi girato nell’istante che la lama impiegò a trapassare il giubbotto, il maglione e la carne. In realtà la lama mi colpì al torace e raschiò una costola. Sul momento non sentii dolore, ma una scossa… una vera e propria scossa elettrica. Ansimai e cercai di afferrargli il polso. Vidi saettare la lama, stavolta più in alto; ma avevo le mani scivolose per l’acqua marina e per il mio stesso sangue e non riuscii a fare presa sul suo polso. Riuscii solo a spingerglielo in basso, usando la barretta metallica che collegava le manette, mentre lui cercava ancora di colpirmi, una pugnalata dall’alto che sarebbe passata sopra la stessa costola e mi avrebbe centrato il cuore, se la pressione delle manette non avesse rallentato il movimento e la ricetrasmittente nella tasca del giubbotto non avesse deviato la lama. Anche così, sentii di nuovo l’acciaio lacerarmi la carne e barcollai all’indietro, tentando di ritrovare l’equilibrio sul tappeto in lenta ascesa.
Sentii confusamente l’esplosione alle mie spalle: la lama del coltello aveva centrato il pulsante d’invio. Non mi girai a guardare, anche se avevo ritrovato a gambe larghe l’equilibrio. Il tappeto stava prendendo quota: ora si trovava a una decina di metri dalla superficie dell’oceano e continuava a salire.
Anche il tenente era balzato in piedi e aveva assunto la posizione tipica dell’esperto nel combattimento col coltello. Ho sempre odiato le armi da taglio. Ho scorticato animali e sventrato innumerevoli pesci; però, anche quando ero nella Guardia Nazionale, non capivo come gli uomini potessero fare la stessa cosa ad altri uomini, soprattutto a distanza ravvicinata. Avevo un coltello alla cintura, ma non ero in grado di tenere testa a quell’uomo. Mi restava una sola speranza: estrarre la rivoltella. Ma era un movimento difficile, per uno che è ammanettato: tenevo la pistola sul fianco sinistro, calcio in avanti per estrarla con la destra, ma ora dovevo usare tutt’e due le mani, scostare il giubbotto, aprire la fondina, estrarre la pistola, puntare…
Il tenente tirò un colpo al bersaglio grosso, un fendente da sinistra a destra. Saltai all’indietro sul bordo del tappeto, ma ero in ritardo: la piccola lama affilata mi tagliò carne e muscolo sul dorso del braccio destro, proteso a prendere la pistola. Stavolta sentii il dolore e mandai un grido. Il tenente sorrise. Sempre acquattato, sapendo che non avevo dove andare, avanzò di mezzo passo e vibrò in avanti il coltello, in un arco destinato a sventrarmi.
Quando mi aveva colpito, mi stavo girando sulla destra; ora continuai il movimento e mi tuffai dal tappeto hawking, con stile perfetto, mani di fronte al corpo mentre urtavo l’acqua dieci metri più in basso. L’oceano era salato e buio. Non avevo nemmeno inspirato a fondo prima di colpire l’acqua e per un orribile attimo non capii letteralmente da quale parte fosse l’alto. Poi vidi il bagliore delle tre lune e scalciai in quella direzione. Emersi con la testa in tempo per vedere il tenente ancora in piedi sul tappeto hawking che ora distava trenta metri dalla piattaforma e forse venticinque dall’acqua e continuava a salire. Si sporgeva in avanti e guardava nella mia direzione: pareva aspettare che tornassi, per concludere il combattimento.
Non sarei certo tornato, ma volevo anch’io concludere il combattimento. Cercai a tentoni la rivoltella, aprii la fondina, estrassi l’arma e cercai di tenermi a galla sulla schiena per prendere la mira. Il bersaglio saliva e presto sarebbe scomparso, ma si stagliava ancora contro l’incredibile luna, mentre tiravo indietro il cane e tenevo ferme le braccia.
Il tenente aveva lasciato perdere me e si era girato verso la confusione sulla piattaforma: in quel momento i soldati aprirono il fuoco. Mi precedettero di un secondo. Non credo che avrei centrato il tenente, da quella distanza. Ma era impossibile che i soldati lo mancassero.
Almeno tre nugoli di fléchettes lo colpirono nello stesso istante, sbattendolo giù dal tappeto hawking come un sacco di biancheria lavata lanciato in aria. Vidi la luce delle lune attraverso il corpo crivellato che cadeva verso le onde. L’attimo dopo, uno squalo multicolore mi sfiorò… mi spinse addirittura da parte, nella bramosia d’azzannare la massa sanguinolenta che era stata il tenente della Pax.
Rimasi lì a galla ancora un secondo, guardando il tappeto hawking, finché qualcuno sulla piattaforma non lo afferrò al volo. Avevo avuto l’infantile speranza che il tappeto facesse un’ampia curva e tornasse a prendermi, mi tirasse fuori dell’acqua e mi riportasse alla zattera, in quel momento un paio di chilometri a nord di lì. Mi ero affezionato al tappeto hawking (ero compiaciuto di far parte del mito e della leggenda che rappresentava) e nel vederlo volare via da me per sempre in quel modo, mi sentii rivoltare lo stomaco.
Avevo davvero la nausea. Tra le ferite e l’acqua ingerita (per non parlare dell’effetto dell’acqua salata sulle ferite) la nausea era reale. Continuai a stare a galla, movendo i piedi per tenermi con la testa e le spalle fuor d’acqua, impugnando a due mani la pesante rivoltella.
Per nuotare, avrei dovuto spezzare con un colpo le manette. Ma come potevo riuscirci? La barretta d’acciaio che le collegava era lunga solo la metà del mio polso; per quanto mi contorcessi, non riuscivo a sistemare il muso della rivoltella in modo da tranciare con un proiettile la barretta metallica.
Intanto le pinne avevano smesso di girare intorno ai resti del tenente e si allontanavano dal banchetto. Sapevo di perdere molto sangue. Sentivo la chiazza appiccicosa sul fianco e sul dorso del braccio, dove il sangue salato gocciolava nel mare salato. Se quelle creature assomigliavano solo un poco ai dorso-a-sciabola o agli squali, sentivano l’odore del sangue a chilometri di distanza. La mia unica speranza era di nuotare fino alla piattaforma, usando la rivoltella sulle prime pinne che si fossero avvicinate, aggrapparmi se possibile a un pilone e tirarmi fuori o chiamare aiuto. Non avevo altre speranze.
Mi lasciai andare sul dorso, mossi i piedi, mi girai sullo stomaco e cominciai a nuotare invece verso nord, verso l’oceano aperto. Già una volta quel giorno ero stato sulla piattaforma. Bastava e avanzava.