34

Prima d’allora non avevo mai provato a nuotare con le mani legate davanti al corpo. Mi auguro di tutto cuore che non mi tocchi mai più ripetere l’esperienza. Solo l’alta salinità di quell’oceano mi mantenne a galla, mentre scalciavo, mi dibattevo, mi dimenavo per avanzare verso nord. Non avevo una vera speranza di raggiungere la zattera: circa un chilometro a nord della piattaforma, la corrente diventava più forte e il nostro piano prevedeva di tenere la zattera il più lontano possibile dalla stazione senza uscire dall’invisibile fiume nell’oceano.

Nel giro di qualche minuto inoltre gli squali cominciarono di nuovo a girarmi intorno. Sotto le onde vedevo benissimo i loro colori brillanti, elettrici; quando uno squalo si muoveva come per attaccare, smettevo di agitare le braccia, mi tenevo a galla e gli mollavo un calcio in testa per tenerlo a bada, proprio come avevo visto fare al povero tenente. Il sistema pareva funzionare. Quei pesci erano indubbiamente micidiali, ma anche stupidi: attaccavano uno per volta, come se seguissero una scala gerarchica, così li prendevo a calci sul muso uno per volta. Ma era un procedimento estenuante. Un attimo prima d’essere assalito, avevo iniziato a togliermi gli stivali (il cuoio inzuppato mi tirava a fondo) ma il pensiero di colpire a piedi nudi quelle teste arrotondate e zannute m’indusse a tenerli il più a lungo possibile. Inoltre mi convinsi presto di non poter nuotare impugnando la rivoltella. Quando attaccavano, quelle creature simili ai dorsi-a-sciabola si tuffavano, perché emergere sotto la preda pareva il loro sistema d’aggressione preferito, e non ero sicuro che un proiettile di una vecchia sparapiombo avrebbe ottenuto grandi risultati, se avesse dovuto attraversare un paio di metri d’acqua. Alla fine rimisi nella fondina la rivoltella e presto rimpiansi di non averla lasciata cadere a fondo. Tenendomi a galla e rigirandomi per non perdere di vista le coppie di pinne, alla fine mi tolsi gli stivali e lasciai che si perdessero negli abissi. Quando lo squalo seguente mi assalì, lo scalciai con forza e sentii che sopra il minuscolo cervello aveva pelle ruvida, simile a carta smerigliata. La creatura tentò d’azzannarmi i piedi, ma si allontanò e riprese a girare in tondo.

A questo modo nuotai sempre verso nord, fermandomi, galleggiando, scalciando, imprecando, facendo a nuoto qualche metro, fermandomi di nuovo per girare in tondo in attesa dell’attacco seguente. Senza il vivido chiarore delle lune e il luccichio della pelle degli squali, una di quelle creature mi avrebbe già finito da tempo. Comunque, in breve fui troppo stanco per proseguire: potevo solo stare a galla sul dorso, ansimare per riempirmi d’aria i polmoni e mettere i piedi fra le mie gambe e quei denti candidi, ogni volta che scorgevo un guizzo di colori puntare su di me.

Ora le ferite mi facevano un male d’inferno. Il profondo squarcio lungo le costole mi provocava un terribile bruciore e mi sentivo appiccicoso lungo tutto il fianco. Ero sicuro di sanguinare e approfittai di un momento in cui le pinne dorsali giravano abbastanza lontano per tastarmi e tirare fuor d’acqua le mani. Erano rosse… molto più rosse del mare che risplendeva alla luce della grande luna ormai alta sull’orizzonte. Mi sentivo sempre più debole e capii che sarei morto dissanguato. L’acqua diventava più tiepida, come se il mio sangue la scaldasse a una temperatura piacevole, e di minuto in minuto sentivo crescere la tentazione di chiudere gli occhi e di lasciarmi sprofondare in quel tepore.

Ogni volta che l’onda mi portava in alto, continuavo a guardarmi alle spalle, lo ammetto, in cerca di un segno della zattera… di un miracolo da nord. Non vidi niente. Una parte di me ne fu compiaciuta: ormai probabilmente la zattera aveva varcato il portale. Non era stata intercettata. Non avevo visto skimmer in volo, neppure tòtteri, e la piattaforma era solo un bagliore d’incendio sempre più piccolo verso sud. Potevo solo augurarmi, ora che la zattera aveva varcato senza incidenti il portale, d’essere raccolto da un tòttero in perlustrazione, ma nemmeno l’idea di un simile salvataggio riusciva a rallegrarmi. Quel giorno ero già stato una volta sulla piattaforma.

Tenendomi a galla sul dorso, girando testa e collo per non perdere di vista le pinne multicolori, continuai a scalciare verso nord, alzandomi con ogni grande movimento del mare violaceo, ricadendo negli ampi ventri d’onda, mentre l’oceano pareva respirare. Mi girai sullo stomaco e cercai di muovere più forte i piedi, con i polsi ammanettati dritti davanti a me, ma ero esausto e in quella posizione non riuscivo a tenere la testa fuor d’acqua. Ora mi pareva che il braccio destro sanguinasse copiosamente; lo sentivo tre volte più pesante del sinistro. Sospettai che il coltello del tenente m’avesse reciso un tendine.

Alla fine rinunciai a nuotare e mi concentrai nel tenermi a galla, sfruttando i piedi per stare con la testa e le spalle fuor d’acqua, pugni stretti davanti al viso. Pareva che i dorso-a-sciabola avessero percepito la mia debolezza: facevano a turno a venire dalla mia parte, fauci spalancate per azzannare. Ogni volta tiravo su le gambe e scalciavo nel tentativo di colpire con i talloni il muso o la scatola cranica, senza farmi staccare i piedi da un morso. La ruvida pelle degli squali mi aveva scorticato i talloni e le piante dei piedi, per cui aggiungevo altro sangue alla nuvola rossastra che di sicuro già mi circondava e faceva impazzire gli squali. Gli attacchi divennero più frequenti e ogni volta ero sempre più stanco per tirare su le gambe e scalciare. Uno squalo mi lacerò la gamba destra dei calzoni, dal ginocchio alla caviglia, portando via anche uno strato di pelle, mentre si allontanava, trionfante, con un colpo di coda.

Intanto una parte della mia stanca mente rimuginava teologia… non pregando, ma interrogandosi su di un Dio cosmico che consentisse alle creature di torturarsi a vicenda in quel modo. Quanti ominidi, mammiferi e trilioni d’altre creature avevano passato gli ultimi minuti in quella stessa terribile paura, col cuore che batteva all’impazzata, l’adrenalina che si riversava in tutto il corpo e contribuiva a indebolirli più in fretta, la mente che correva nell’inutile ricerca di una via di fuga? Come poteva, un Dio, definirsi Dio di Misericordia e riempire l’universo di creature zannute come quelle? Ricordai che Nonna mi aveva parlato di un antico scienziato della Vecchia Terra, tale Charles Darwin, che aveva concepito una delle prime teorie sull’evoluzione o gravitazione o cose del genere: per quanto allevato devotamente nel cristianesimo ancora prima che esistesse il premio del crucimorfo, era diventato ateo mentre studiava una vespa terrestre che paralizzava un grosso ragno, vi impiantava le proprie uova e lasciava che il ragno si riprendesse e se ne andasse per i fatti suoi, fino al momento in cui le larve si sarebbero scavate la via per uscire dall’addome dell’ospite ancora vivo.

Mi tolsi acqua dagli occhi e presi a calci uno squalo che s’avventava su di me. Mancai la testa, ma colpii una delle sensibili pinne. Solo ripiegando le gambe contro il petto evitai le fauci che si serrarono di scatto. Per un attimo non mi tenni più a galla e finii un metro sotto l’onda seguente, inghiottii acqua salata, riemersi ansimando, in pratica cieco. Altre pinne giravano più vicino. Inghiottii di nuovo acqua, mossi le mani intorpidite e afferrai la rivoltella: rischiai di farla cadere, mentre la bloccavo col mento. Mi dissi che sarebbe stato più semplice lasciarla lì e premere il grilletto, anziché tentare di usarla contro quei predoni marini. Be’, la rivoltella conteneva proiettili sufficienti (non l’avevo usata, nella confusione dell’ultimo paio d’ore) quindi l’alternativa mi sarebbe rimasta.

Mi girai, guardai la pinna più vicina accostarsi ancora e ricordai una storia che Nonna m’aveva letto quand’ero bambino. Era un antico classico, un racconto di Stephen Crane intitolato "La scialuppa", e riguardava vari uomini sopravvissuti all’affondamento della loro nave e i giorni sul mare, senza acqua potabile, solo per ritrovarsi bloccati, a qualche centinaio di metri da terra, da frangenti troppo alti per attraversarli senza capovolgere la barca. Uno dei naufraghi, non ricordo il nome del personaggio, aveva percorso tutto il ciclo dell’ipotesi teologica: aveva pregato, aveva creduto che Dio fosse una divinità misericordiosa che rimaneva sveglia di notte a preoccuparsi per lui, poi aveva creduto che Dio fosse un crudele bastardo e alla fine aveva deciso che nessuno lo ascoltava. Ora mi resi conto che a quel tempo non avevo capito affatto il significato del racconto, malgrado le domande maieutiche e l’accurata guida di Nonna. Ora pensai di ricordare il peso del momento illuminante sceso su quel personaggio nel rendersi conto che avrebbero dovuto nuotare per giungere a terra e che non tutti sarebbero sopravvissuti. Quell’uomo aveva desiderato che la Natura… ormai pensava all’universo in questi termini… fosse un gigantesco edificio di vetro, solo per poterlo prendere a sassate. Ma anche le sassate, aveva capito, sarebbero state inutili.

L’universo è indifferente al nostro destino. Ecco il pesante fardello che quel personaggio aveva preso su di sé, mentre lottava tra i frangenti verso la sopravvivenza o l’estinzione. All’universo non importava un fico, semplicemente.

Mi resi conto di ridere e piangere insieme, di urlare maledizioni e di gridare inviti ai dorso-a-sciabola distanti solo due o tre metri. Puntai la rivoltella e sparai alla pinna più vicina. Sorprendentemente, anche piena d’acqua, la sparapiombo funzionò; il rumore, che sulla zattera era stato assordante, ora parve inghiottito dalle onde e dall’immensità dell’oceano. Lo squalo si tuffò e scomparve. Altri due mi assalirono. Sparai a uno, scalciai l’altro, proprio mentre qualcosa, da dietro, mi colpiva con forza al collo.

Non ero tanto immerso nelle meditazioni teologiche e filosofiche da ritenermi pronto a morire. Mi girai di scatto, senza sapere se ero stato azzannato gravemente, ma ben deciso a sparare in bocca alla maledetta creatura, se occorreva. Avevo già armato e puntato la pesante rivoltella, prima di vedere il viso della bambina, lì a mezzo metro dal mio. Aenea aveva i capelli incollati alla testa e i suoi occhi brillavano nel chiaro di luna.

— Raul!

Di sicuro m’aveva chiamato anche prima, ma non avevo udito niente, tra il rumore dello sparo e il ronzio nelle orecchie.

Battei le palpebre per togliermi dagli occhi le goccioline d’acqua. Era un’allucinazione, pensai. Cristo, perché mai Aenea avrebbe dovuto abbandonare la zattera?

— Raul! — gridò di nuovo Aenea. — Stai a galla sul dorso. Usa la pistola per tenere lontano quelle creature. Ti tirerò su.

Scossi la testa. Non capivo. Perché aveva lasciato sulla zattera il robusto androide ed era venuta a cercarmi? Come avrebbe potuto…

Il cranio dalla pelle azzurra di A. Bettik comparve sulla cresta dell’onda seguente. L’androide nuotava con forza e stringeva fra i denti il lungo machete. Risi fra le lacrime: pareva un pirata di un olodramma di quarta serie.

— Stai a galla sul dorso! — gridò di nuovo Aenea.

Mi girai sul dorso, troppo stanco per scalciare lo squalo che si tuffava verso le mie gambe. Gli sparai, mirando fra i piedi, e lo centrai in mezzo agli occhi, neri e freddi. La doppia pinna scomparve nell’onda.

Aenea mi circondò il collo, con la sinistra mi afferrò sotto il braccio destro in modo da non soffocarmi e cominciò a nuotare con forza verso la cresta dell’onda successiva. A. Bettik nuotava accanto a noi, usando un braccio solo perché impugnava il machete. Vidi che menava un fendente nell’acqua e guardava due pinne gemelle contrarsi e deviare sulla destra.

— Cosa… — cominciai, soffocando e tossendo.

— Risparmia il fiato — ansimò Aenea, tirandomi nel successivo ventre d’onda. — Abbiamo molta strada da fare.

— La rivoltella — dissi, cercando di passargliela. Sentivo le tenebre chiudersi su di me come un tunnel sempre più stretto e non volevo perdere l’arma. Troppo tardi: la sentii cadere in mare. — Scusa — riuscii a dire, prima che il tunnel si chiudesse del tutto.

Il mio ultimo pensiero coerente fu un inventario di ciò che avevo perduto nella mia prima missione da solo: il prezioso tappeto hawking, gli occhiali col visore notturno, l’antica rivoltella, gli stivali, forse la ricetrasmittente e molto probabilmente la vita, mia e dei miei amici. Le tenebre interruppero quella cinica riflessione.


Mi accorsi confusamente d’essere tirato a bordo della zattera. Non avevo più le manette. Aenea mi soffiava in bocca e mi comprimeva il torace per farmi vomitare l’acqua che avevo nei polmoni. A. Bettik, in ginocchio accanto a noi, tirava con forza una grossa fune.

Vomitai acqua per alcuni minuti. Alla fine dissi: — La zattera… come?… ormai doveva essere al portale… non…

Aenea mi costrinse a restare disteso con la testa contro uno zaino e con un coltello mi tagliò la camicia a brandelli e la gamba destra dei calzoni. — A. Bettik ha usato la microtenda e le corde da scalata per costruire una sorta d’ancora galleggiante — disse. — Ci ha rallentato, ma senza farci uscire di rotta. Ci ha dato il tempo per cercarti.

— Come…

— Zitto — disse Aenea, togliendomi l’ultimo pezzo di camicia. — Voglio rendermi conto della gravità delle ferite.

Sobbalzai quando mi toccò lo squarcio al fianco. Poi Aenea tastò la profonda ferita sul dorso del braccio, mi sfiorò la coscia e il polpaccio scorticati dalla pelle degli squali. — Ah, Raul — disse, rattristata. — Ti ho perso di vista per un paio d’ore e guarda come ti sei ridotto!

Sentivo la debolezza riprendere sopravvento, sprofondavo di nuovo nelle tenebre. Avevo perduto troppo sangue. Avevo molto freddo. — Mi spiace — mormorai.

— Zitto. — Con un forte rumore di plastica lacerata aprì il medipac più grosso. — Non dire niente.

— No — insistetti. — Ho fatto fiasco. Dovevo proteggerti… tenerti al sicuro. Scusami… — Emisi un gemito, mentre lei iniettava direttamente nella ferita al fianco una soluzione sulfamidica antisettica. Sul campo di battaglia avevo visto uomini piangere per questo. Adesso ero uno di loro.

Se Aenea avesse usato il mio moderno medipac, sono sicuro che sarei morto nel giro di qualche minuto, se non di qualche secondo. Invece aveva usato quello più grosso, l’antico medipac in dotazione alla FORCE trovato sulla nave. Il mio primo pensiero fu che medicinali e attrezzature sarebbero stati inutili dopo tutto quel tempo, ma poi vidi le spie luminose palpitare sulla parte superiore del medipac posato sul mio petto. Alcune erano verdi, altre, più numerose, erano gialle e altre, in numero inferiore, erano rosse. Non andava affatto bene.

— Resta disteso — mormorò Aenea. Aprì una confezione di suture sterili. Mi posò sul fianco il sacchetto chiaro: il millepiedi suturante che vi era contenuto prese vita e strisciò sulla ferita. La sensazione non era piacevole, mentre quella forma vivente creata a bella posta strisciava tra le labbra frastagliate della ferita, emetteva secrezioni antibiotiche e disinfettanti, ritirava le acuminate zampette e le serrava per la suturazione. Gridai di nuovo… e ancora, un attimo dopo, quando Aenea mi applicò un millepiedi anche al braccio.

— Ci servono altre cartucce di plasma sanguigno — disse Aenea all’androide. Infilò due cilindretti nel sistema iniettore del medipac. Sentii il bruciore alla coscia, mentre il plasma entrava in circolo.

— Abbiamo solo queste quattro — disse A. Bettik. Ora si affaccendava su di me, mi poneva sul viso la maschera osmotica. L’ossigeno cominciò a fluirmi nei polmoni.

— Maledizione — disse Aenea, inserendo l’ultima cartuccia. — Ha perso troppo sangue. Sta per avere un collasso.

Avrei voluto ribattere, spiegare che i tremiti e i brividi erano dovuti solo all’aria gelida, che mi sentivo molto meglio; ma la maschera osmotica mi premeva la bocca, gli occhi, il naso, non mi consentiva di parlare. Per un istante ebbi l’allucinazione di trovarmi di nuovo nella nave e d’essere bloccato dal campo di contenimento antiurto. Sono sicuro che in quel momento l’acqua salata sul mio viso non proveniva tutta dal mare.

Poi vidi in mano a Aenea l’iniettore d’ultramorfina e mi agitai. Non volevo perdere i sensi: se dovevo morire, volevo morire da sveglio.

Aenea mi sospinse di nuovo contro lo zaino. Capì che cosa cercavo di dire. — Ti voglio svenuto, Raul — mormorò. — Stai per avere un collasso. Dobbiamo stabilizzare le tue funzioni vitali… sarà più facile, se sarai incosciente. — L’iniettore sibilò.

Mi agitai ancora per qualche secondo. Ora piangevo di frustrazione. Dopo tutta quella fatica non volevo scivolare nell’incoscienza… Cristo, non era giusto… non era giusto…


Mi svegliai sotto la vivida luce del sole, in un caldo terribile. Per un momento fui sicuro di trovarmi ancora sulle onde di Mare Infinitum; ma quando radunai energie sufficienti a sollevare la testa, vidi che il sole era diverso… più largo, più caldo… e che il cielo aveva una tonalità d’azzurro molto più chiara. La zattera pareva muoversi lungo una sorta di canale di cemento largo non più d’un paio di metri. Vedevo cemento, sole, cielo azzurro… e nient’altro.

— Stai disteso — disse Aenea, spingendomi testa e spalle contro lo zaino e modificando il microtessuto della tenda in modo che il mio viso fosse di nuovo all’ombra. L’"ancora galleggiante" era stata recuperata, è ovvio.

Cercai di parlare, non ci riuscii, mi umettai le labbra secche che parevano incollate e alla fine riuscii a dire: — Per quanto tempo sono rimasto svenuto?

Aenea mi diede un sorso d’acqua dalla mia borraccia. — Circa trenta ore — disse poi.

— Trenta ore! — Cercai di gridare, ma emisi solo un gemito. A. Bettik girò intorno alla tenda e si accovacciò con noi all’ombra. — Ben tornato, signor Endymion.

— Dove siamo?

Rispose Aenea. — A giudicare dal deserto, dal sole e dalle stelle della scorsa notte, quasi sicuramente ci troviamo su Hebron. A quanto pare, navighiamo lungo un acquedotto. Al momento… be’, guarda da te, è meglio. — Mi sostenne per le spalle, in modo da consentirmi di guardare al di là delle rive di cemento del canale. Solo aria e alture lontane. — Siamo a circa cinquanta metri da terra, su questa sezione d’acquedotto — disse Aenea, rimettendomi con la testa sullo zaino. — Come negli ultimi cinque o sei chilometri. Se c’è stata un’interruzione dell’acquedotto… — Sorrise tristemente. — Non abbiamo visto nessuno, neppure un avvoltoio. Aspetteremo di giungere in una città.

Corrugai la fronte e provai a cambiare la posizione, ma avevo il fianco e il braccio irrigiditi e trovai doloroso anche quel minimo movimento. — Hebron? Non era…

— Occupato dagli Ouster? — terminò per me A. Bettik. — Sì, risultava anche a noi. Non importa, signore. Saremo felici di chiedere cure mediche per lei agli Ouster… più felici che di chiederle alla Pax.

Guardai il medipac sistemato accanto a me. Dei cavetti lo collegavano al petto, al braccio, alle gambe. La maggior parte delle spie luminose palpitava di luce gialla. Non era buona cosa.

— Le tue ferite sono chiuse e disinfettate — disse Aenea. — Ti abbiamo dato tutto il plasma del vecchio medipac. Ma te ne serve altro… e forse hai un’infezione che gli antibiotici multispettro non riescono a debellare.

Questo spiegava la sensazione di febbre che sentivo sotto la pelle.

— Forse causata da qualche microrganismo nell’acqua di Mare Infinitum — disse A. Bettik. — Il medipac non riesce a diagnosticarlo. Sapremo di cosa si tratta quando l’avremo portata in un ospedale. Pensiamo che questo segmento del Teti condurrà all’unica grande città di Hebron…

— Nuova Gerusalemme — mormorai.

— Esatto. Anche dopo la Caduta, era famosa per il Centro Medico Sinai.

Tentai di scuotere la testa, ma smisi subito, per il dolore e le vertigini. — Ma gli Ouster…

Aenea mi passò sulla fronte un panno bagnato. — Troveremo chi ti aiuti, Ouster o non Ouster.

Un pensiero cercò di farsi strada nel mio cervello ottenebrato. Attesi che si manifestasse compiutamente. — Hebron… non aveva… non credo che avesse…

— Ha ragione, signore — disse A. Bettik. Diede un colpetto al libro che aveva appena consultato. — Secondo la guida, Hebron non faceva parte del Teti e aveva un unico terminal di teleporter, a Nuova Gerusalemme, anche nei tempi d’oro della Rete. Ai visitatori di altri pianeti non era consentito lasciare la capitale. Qui tenevano in gran conto riservatezza e indipendenza.

Guardai scorrere le pareti dell’acquedotto. All’improvviso fummo fuori della grande condotta e continuammo a muoverci fra alte dune e rocce bruciate dal sole. Il caldo era tremendo.

— Ma il libro sbaglia di sicuro — disse Aenea, bagnandomi di nuovo la fronte. — Il portale era lì… e noi siamo qui.

— Sei certa… che sia… Hebron? — mormorai.

Aenea annuì. A. Bettik mi mostrò il braccialetto comlog. L’avevo dimenticato. — Il nostro amico meccanico ha fatto un buon rilevamento delle stelle — disse l’androide. — Siamo su Hebron e… direi… solo a qualche ora di distanza da Nuova Gerusalemme.

A quel punto fui assalito dal dolore; cercai di non farlo capire, ma evidentemente mi contorsi. Aenea estrasse l’iniettore di ultramorfina.

— No — dissi, tra le labbra screpolate.

— Questa è l’ultima, per un poco — mormorò Aenea. Udii il sibilo e sentii diffondersi la benedetta insensibilità. "Se c’è un dio" pensai "è un analgesico."


Quando ripresi i sensi, le ombre si erano allungate e ci trovavamo al riparo di un basso edificio. A. Bettik mi portava di peso giù dalla zattera. Ogni gradino mi provocava fitte lancinanti. Non emisi suono.

Aenea ci precedeva. La via era larga e polverosa, gli edifici erano bassi (nessuno superava i tre piani) e di un materiale simile all’adobe. Non si vedeva nessuno.

— Ehi! — chiamò Aenea, con le mani a coppa intorno alla bocca. Il richiamo echeggiò nella via deserta.

Mi sentivo sciocco a lasciarmi portare come un bambino, ma A. Bettik pareva non badarci e sapevo che non sarei riuscito a reggermi in piedi nemmeno a costo della vita.

Aenea tornò verso di noi, vide che avevo aperto gli occhi. — Questa città è Nuova Gerusalemme — disse. — Non ci sono dubbi. Secondo la guida, al tempo della Rete qui vivevano tre milioni di persone e A. Bettik dice che ce n’era ancora almeno un milione, l’ultima volta che ne ha sentito parlare.

— Gli Ouster… — riuscii a dire.

Aenea annuì. — Negozi e case lungo il canale sono abbandonati, ma danno l’impressione che siano stati abitati fino a qualche settimana o mese fa.

— Secondo le trasmissioni captate su Hyperion — disse A. Bettik — si supponeva che questo pianeta fosse caduto in mano agli Ouster circa tre anni standard fa. Ma ci sono segni d’abitazione molto più recenti.

— La griglia energetica è ancora in funzione — disse Aenea. — Il cibo rimasto in giro è ormai guasto, ma i compartimenti frigoriferi sono ancora freddi. In alcune case c’è la tavola apparecchiata, le piazzole olografiche ronzano per la statica, le radio sibilano. Ma non c’è gente.

— E neppure segni di violenza — aggiunse l’androide, calandomi con cautela in un veicolo terrestre munito di pianale metallico nella parte posteriore, dietro la cabina di guida. Il dolore al fianco mi fece vedere puntini luminosi.

Aenea si strofinò le braccia. Aveva la pelle d’oca, malgrado l’ardente calore della sera. — Ma qui è avvenuto qualcosa di terribile — disse. — Lo sento.

Io invece non sentivo altro che dolore e febbre. I miei pensieri erano come mercurio… scivolavano sempre via, prima che potessi afferrarli o sagomarli in forma coerente.

Aenea saltò sul pianale del veicolo e si accovacciò al mio fianco, mentre A. Bettik apriva la portiera ed entrava nella cabina. Sorprendentemente, il veicolo si mise in moto al semplice tocco della piastra d’accensione. — So guidarlo — disse l’androide, innestando la marcia.

"Anch’io" pensai, come se mi rivolgessi a loro. "Su Ursus ho guidato un veicolo simile. Una delle poche macchine dell’universo che so far funzionare. Forse una delle poche cose che so fare senza incasinare tutto."

Procedemmo sobbalzando nella via principale. Il dolore mi faceva gridare, a volte, malgrado tutti gli sforzi per stare in silenzio. Serrai le mascelle.

Aenea mi teneva la mano. Le sue dita mi parevano così fredde da mettermi i brividi. Mi resi conto che ero io, a scottare.

— … colpa della maledetta infezione — diceva in quel momento Aenea. — Altrimenti a quest’ora saresti già guarito. Qualcosa nell’oceano.

— O nel coltello — mormorai. Chiusi gli occhi e rividi il tenente volare in mille pezzi, dilaniato dal nugolo di fléchettes. Riaprii gli occhi per cancellare l’immagine. Ora gli edifici erano più alti, almeno dieci piani, e gettavano un’ombra più fitta. Ma il caldo era terribile.

— … un amico di mia madre, che partecipò all’ultimo pellegrinaggio su Hyperion, visse qui per un certo tempo — diceva Aenea. Mi pareva che la sua voce oscillasse, vicina e lontana, come una radio mal sintonizzata.

— Sol Weintraub — gracchiai. — Lo studioso, nei Canti del vecchio poeta.

Aenea mi diede un colpetto sulla mano. — Dimentico sempre che tutte le esperienze di mia madre sono diventate grano per il leggendario mulino di zio Martin.

Sobbalzammo su una gobba dell’asfalto. Digrignai i denti per non gridare.

Aenea aumentò la stretta sulla mia mano. — Sì — disse. — Mi sarebbe piaciuto conoscere l’anziano studioso e sua figlia.

— Sono andati… avanti… nella Sfinge — riuscii a dire. — Come… te.

Aenea si chinò su di me, con l’acqua della borraccia m’inumidì le labbra e annuì. — Sì. Ma ricordo le storie di Mamma, su Hebron e sui kibbutz locali.

— Ebrei — mormorai e smisi di parlare. Sciupavo troppa energia che mi occorreva per combattere il dolore.

— Fuggirono dal Secondo Olocausto — disse Aenea, guardando ora avanti, mentre il veicolo girava l’angolo. — Chiamavano Diaspora la loro Egira.

Chiusi gli occhi. Il tenente volò in brandelli, abiti e carne ridotti a lunghe stelle filanti che scendevano lentamente a spirale sul mare violaceo…

All’improvviso mi accorsi che A. Bettik mi sollevava. Entravamo in un edificio più grande e più snello degli altri, tutto plastacciaio e vetro temperato. — Il centro medico — disse l’androide. La porta automatica si aprì con un sibilo davanti a noi. — La corrente c’è. Ora, se solo le attrezzature mediche sono intatte…

Evidentemente mi appisolai per qualche secondo, perché quando riaprii gli occhi, terrorizzato dalle pinne dorsali che mi accerchiavano sempre più da vicino, mi ritrovai sopra un ripiano a rotelle che qualcuno faceva scivolare nel cilindro di un robochirurgo diagnostico.

— Ci vediamo più tardi — diceva in quel momento Aenea. Mi lasciò la mano. — Ci vediamo dall’altra parte.


Restammo su Hebron per tredici giorni locali, ciascuno pari a circa ventinove ore standard. Per i primi tre giorni il robochirurgo si sfogò su di me: non meno di otto operazioni invasive e una buona decina di trattamenti terapeutici, almeno secondo la tabella digitale.

Era proprio con una forma di vita microrganica che quel miserabile oceano di Mare Infinitum aveva deciso di uccidermi, anche se, quando vidi la risonanza magnetica e le scansioni bioradar, mi resi conto che alla fin fine quell’organismo non era poi tanto microscopico. Qualsiasi cosa fosse (la robodiagnosi era incerta) aveva attecchito lungo l’interno della costola scorticata ed era cresciuto come i funghi delle felci fino a diramarsi negli organi interni. Se avesse tardato ancora di un giorno standard l’intervento, riferì più tardi il robochirurgo, avrebbe trovato solo licheni e materia decomposta.

Dopo avermi aperto e ripulito, dopo avere ripetuto altre due volte il procedimento perché tracce infinitesimali dell’organismo oceanico avevano iniziato a riprodursi, il robochirurgo dichiarò che il fungo era ormai debellato e si mise a lavorare sulle ferite che presentavano una minaccia meno immediata per la mia vita. Per lo squarcio al fianco sarei di sicuro morto dissanguato… soprattutto a causa degli sforzi nel calciare e dell’alto ritmo delle pulsazioni provocato dai miei amici con le pinne dorsali. Le cartucce di plasma del vecchio medipac e alcuni giorni di stato comatoso per le abbondanti dosi d’ultramorfina mi avevano mantenuto in vita fin quando il chirurgo non aveva potuto iniettarmi altre otto unità di plasma sanguigno.

La profonda ferita al braccio non aveva reciso tendini, come avevo temuto, ma muscoli e nervi, tanto che il robochirurgo vi aveva lavorato durante la seconda e la terza operazione per liberarmi dal fungo. Poiché al nostro arrivo nell’ospedale l’energia elettrica non mancava, il chirurgo al silicio aveva preso l’iniziativa di far crescere nel serbatoio d’organi situato nelle cantine i nervi di ricambio occorrenti. L’ottavo giorno, mentre Aenea sedeva al mio capezzale e mi raccontava come il robochirurgo avesse continuato a chiedere consiglio e autorizzazione ai soprastanti umani, riuscii perfino a ridere quando lei disse che il "dottor Bettik" aveva autorizzato ogni operazione critica, trapianto e terapia.

La gamba che il variopinto squalo aveva cercato di tranciarmi con un morso si rivelò la parte più dolorosa della cura. Eliminato il fungo dalla zona lacerata dai denti dello squalo, mi vennero trapiantati, strato dopo strato, tessuti muscolari e pelle. Faceva un male d’inferno. Passato il dolore, sopravvenne il prurito. Nella seconda settimana di confino nell’ospedale, entrai in crisi per la mancanza di ultramorfina e presi in serio esame la possibilità di puntare la rivoltella su Aenea o sull’androide e pretendere la droga, anche se in realtà non credevo che l’una o l’altro avrebbero ceduto alla minaccia e mi avrebbero dato sollievo dalla crisi d’astinenza e dall’infernale prurito. Comunque non avevo più la rivoltella, finita nel violaceo mare senza fondo.

L’ottavo giorno, quando potei mettermi a sedere nel letto e mangiare davvero (semplice cibo d’ospedale, replicato in vasca) parlai con Aenea del mio breve lavoro come Eroe. — L’ultima notte su Hyperion mi ubriacai con il vecchio poeta e gli promisi che in questo viaggio avrei fatto certe cose — dissi.

— Quali? — domandò Aenea, tuffando il cucchiaio nel mio piatto di gelatina verdastra.

— Oh, niente d’eccezionale — risposi. — Proteggerti, riportarti a casa, trovare la Vecchia Terra e rimetterla al suo posto in modo che lui potesse rivederla prima di morire…

Aenea interruppe l’assaggio della gelatina. Inarcò le sopracciglia. — Ti ha detto di riportare al suo posto la Vecchia Terra? Interessante.

— Non è tutto. Strada facendo, avrei dovuto parlare con gli Ouster, distruggere la Pax, detronizzare la Chiesa e… ripeto le sue esatte parole… scoprire che cazzo trama il TecnoNucleo e impedire che lo realizzi.

Aenea posò il cucchiaio e col mio tovagliolo si pulì le labbra. — È tutto?

— Non proprio — dissi, lasciandomi ricadere sui guanciali. — Voleva pure che impedissi allo Shrike di nuocere a te e di distruggere la razza umana.

Aenea annuì. — È tutto?

Con la sinistra, la mano buona, mi strofinai la fronte sudata. — Mi pare. Comunque, è tutto ciò che ricordo. Ero ubriaco, te l’ho detto. — La guardai. — Come me la cavo, con l’elenco?

Aenea fece quel suo caratteristico gesto. — Non male. Tieni presente che abbiamo iniziato solo da qualche mese standard… meno di tre mesi, a conti fatti.

— Già — replicai, guardando dalla finestra i bassi raggi di sole che colpivano l’alto edificio di adobe di fronte all’ospedale. Al di là della città, vedevo le alture rocciose ardere di rosso per la luce della sera. — Già — ripetei, con voce prosciugata d’ogni energia e divertimento — me la cavo alla grande. — Sospirai e spinsi più in là il vassoio con la cena. — Non capisco una cosa: anche se c’era una gran confusione, come mai il loro radar non ha rilevato la zattera, quando eravamo vicinissimi?

— A. Bettik l’ha fracassato con un colpo — spiegò Aenea, riprendendo a mangiare la gelatina verdastra.

— Cosa?

— A. Bettik l’ha fracassato. Il riflettore parabolico. Con la tua carabina al plasma. — Terminò il pastone verdastro e pulì il cucchiaio. In quell’ultima settimana era stata infermiera, dottoressa, cuoca e lavapiatti.

— Mi pareva che non potesse sparare alle persone.

— Non può, infatti — disse Aenea, togliendo dal letto il vassoio e posandolo sul cassettone. — Gliel’ho domandato. Ha risposto che nessuno gli proibiva di sparare a tutti i riflettori parabolici che voleva. Così ha sparato. Poi abbiamo stabilito la tua posizione e ci siamo tuffati per salvarti.

— Era un tiro di tre o quattro chilometri, da una zattera in balia delle onde. Quante pulsoscariche ha sparato?

— Una — rispose Aenea. Guardava i diagrammi sul monitor sopra la mia testa.

Mandai un fischio sommesso. — Spero che non si arrabbi mai con me. Anche da distante.

— Se non diventi un riflettore parabolico, non hai di che preoccuparti — disse Aenea, rimboccandomi le lenzuola.

— Adesso dov’è?

Aenea si accostò alla finestra e indicò l’est. — Ha trovato un VEM con piena carica e controlla i kibbutz dalle parti del Grande Mare Salato.

— Gli altri erano deserti?

— Tutti. Gli abitanti non hanno lasciato nemmeno un cane, un gatto, un cavallo o uno scoiattolo domestico.

Capii che non scherzava. Avevamo parlato della faccenda… quando le comunità fuggono di corsa, o quando sono colpite da un disastro, spesso abbandonano gli animali domestici. I branchi di cani inselvatichiti erano stati un guaio, durante la rivolta nell’Artiglio Meridionale, su Aquila. La Guardia Nazionale aveva dovuto sparare a vista agli ex animali domestici.

— Significa che hanno avuto il tempo di portarli con sé — commentai.

Aenea si girò verso di me e incrociò le braccia. — Lasciando invece qui i vestiti? E i computer, i comlog, i diari privati, le olografie di famiglia… tutte le cianfrusaglie personali?

— E in quella roba non c’è traccia dell’accaduto? Nessuna ultima annotazione sui diari? Nessuna registrazione di telecamera a circuito chiuso? Nessun frenetico messaggio dell’ultimo minuto nei comlog?

— No. Sulle prime ero riluttante a curiosare nei comlog personali. Ma ormai li ho ascoltati decine di volte. Nell’ultima settimana c’erano le solite notizie di combattimenti nelle vicinanze. La Grande Muraglia distava meno di un anno luce e le navi della Pax riempivano il sistema. Non scendevano spesso sul pianeta, ma era evidente che alla fine Hebron avrebbe dovuto entrare nel Protettorato della Pax. Poi ci sono state le ultime trasmissioni per comunicare che gli Ouster erano penetrati nelle linee… poi più niente. Noi pensiamo che la Pax abbia fatto evacuare tutta la popolazione e che poi siano sopraggiunti gli Ouster, ma nei notiziari non ci sono accenni all’evacuazione; neppure nei computer, né da qualsiasi parte. Pare che tutti siano semplicemente svaniti. — Si strofinò le braccia. — Ho alcuni dischi dei notiziari, se vuoi vederli.

— Dopo, forse. — Ero molto stanco.

— A. Bettik tornerà domattina — disse Aenea, tirandomi la coperta fin sotto il mento. Il sole era tramontato, ma le alture ardevano, alla lettera, di luce immagazzinata. Era l’effetto-crepuscolo delle pietre di quel mondo, un effetto che non mi sarei mai stancato di guardare. Ma al momento non riuscivo a tenere gli occhi aperti.

— Hai la doppietta? — borbottai. — La carabina al plasma? Bettik non c’è… qui da sola…

— Sono sulla zattera — disse Aenea. — Ora dormi.


Il primo giorno in cui ero pienamente cosciente cercai di ringraziare Aenea e A. Bettik per avermi salvato. Loro si schermirono.

— Come m’avete trovato? — domandai.

— Non è stato difficile — rispose Aenea. — Hai lasciato aperto il microfono, che ha continuato a funzionare finché il tenente della Pax non ti ha colpito, guastando la ricetrasmittente. Abbiamo ascoltato tutto. E col binocolo riuscivamo a vederti.

— Non dovevate lasciare la zattera tutt’e due. Troppo pericoloso.

— Non eccessivamente, signor Endymion — disse A. Bettik. — Oltre a preparare l’ancora galleggiante che ha rallentato notevolmente la corsa della zattera, la signorina Aenea ha pensato di gettare in acqua un piccolo tronco legato con una fune, rimorchiato a un centinaio di metri. Eravamo sicuri che, se non avessimo raggiunto la zattera, avremmo potuto arrivare facilmente con lei alla fune, prima che fosse fuori portata. E gli eventi ci hanno dato ragione.

Scossi la testa. — In ogni caso è stata una sciocchezza.

— Non c’è di che — disse Aenea.


Il decimo giorno provai a stare in piedi. Fu una breve vittoria, ma sempre vittoria. Il dodicesimo giorno riuscii a percorrere il corridoio fino al gabinetto in fondo. Quella fu una vittoria importante. Il tredicesimo giorno la rete elettrica smise di funzionare in tutta la città.

Nell’ospedale subentrarono i generatori d’emergenza posti nel seminterrato, ma capimmo di non avere più molto tempo.


— Mi piacerebbe portare con noi il robochirurgo — dissi quell’ultima sera, mentre ce ne stavamo seduti sulla terrazza dell’ottavo piano a guardare i viali coperti d’ombra.

— Sulla zattera ci starebbe — riconobbe A. Bettik. — Ma la prolunga sarebbe un problema.

— Senza scherzi — dissi, cercando di non sembrare l’infermo paranoide e demoralizzato che mi sentivo in quel momento — dobbiamo controllare le farmacie locali e rifornirci della roba che ci occorre.

— Già fatto — disse Aenea. — Tre nuovi medipac migliorati. Un’intera borsa di cartucce di plasma sanguigno. Un’apparecchiatura diagnostica portatile. Ultramorfina… ma non chiederla, oggi non ne avrai.

Protesi la sinistra. — Vedi? Oggi pomeriggio ha smesso di tremare. Non chiederò tanto presto altra morfina.

Aenea annuì. In alto, nuvole vaporose rosseggiavano per l’ultima luce della sera.

— Quanto resisteranno secondo te i generatori d’emergenza? — domandai all’androide. L’ospedale era uno dei pochi edifici ancora illuminati.

— Alcune settimane, forse — rispose A. Bettik. — La griglia energetica ha continuato ad autoripararsi e a funzionare per mesi, ma questo è un pianeta aspro… avrà notato anche lei le tempeste di sabbia che giungono dal deserto ogni mattina… e per quanto la tecnologia sia abbastanza avanzata per un mondo che non appartiene alla Pax, sono necessari tecnici umani per la manutenzione.

— L’entropia è una puttana — sospirai.

— Su, su — disse Aenea, appoggiata alla parete della terrazza. — L’entropia può esserci amica.

— Quando?

Aenea si girò in modo da stare appoggiata sul gomito. Dietro di lei, l’edificio era un rettangolo scuro che metteva in rilievo lo splendore della sua pelle abbronzata. — Logora gli imperi — disse Aenea. — E manda in rovina i dispotismi.

— Facile a dirsi — replicai. — Di quali dispotismi parliamo?

Aenea fece quel tipico gesto di noncuranza e per un momento pensai che non avrebbe aggiunto altro; poi invece disse: — Gli Unni, gli Sciti, i Visigoti, gli Ostrogoti, gli Egizi, i Macedoni, i Romani, gli Assiri.

— Sì, ma…

— Gli Avar e i Wei del Nord — continuò Aenea — e i Juan-Juan, i Mamelucchi, i Persiani, gli Arabi, gli Abbasidi, i Seljuk.

— Certo, ma non vedo…

— I Curdi e i Ghaznavidi — continuò, ora sorridendo. — Per non parlare di Mongoli, Sui, Tang, Buminidi, Crociati, Cosacchi, Prussiani, Nazisti, Sovietici, Giapponesi, Giavanesi, Ammeri del Nord, Cinesi Uniti, Colombo-peruviani e Nazionalisti Antartici.

Alzai la mano. Aenea smise. Guardando A. Bettik, dissi: — Non conosco nemmeno quei pianeti. E tu?

— Ritengo che si riferiscano tutti alla Vecchia Terra, signor Endymion — rispose l’androide con espressione neutra.

— Niente stronzate.

— Niente stronzate mi pare corretto, in questo contesto — replicò A. Bettik, in tono piatto.

Tornai a guardare Aenea. — Allora è questo, il nostro piano per rovesciare la Pax e far contento il vecchio poeta? Nasconderei da qualche parte e aspettare che l’entropia pretenda il suo scotto?

Aenea incrociò di nuovo le braccia. — No no — disse. — In condizioni normali sarebbe stato un buon piano… starsene accucciati per qualche millennio e lasciare che il tempo segua il suo corso… ma quei maledetti crucimorfi complicano l’equazione.

— E allora? — dissi, in tono serio.

— Anche se volessimo rovesciare la Pax… cosa che, tra parentesi, non voglio: è compito tuo… anche se volessimo rovesciare la Pax, l’entropia ormai non è più dalla nostra parte, con quel parassita che può rendere la gente quasi immortale.

— Quasi immortale — mormorai. — Mentre ero moribondo, ho pensato al crucimorfo, lo confesso. Sarebbe stato molto più facile… e molto meno doloroso delle operazioni chirurgiche e della convalescenza… morire e lasciare che quell’affare mi risuscitasse.

Aenea ora mi fissava. Alla fine disse: — Proprio per questo Hebron aveva il miglior servizio sanitario nell’ambito della Pax e fuori.

— Ossia? — Avevo ancora la mente annebbiata dai medicinali e dalla stanchezza.

— I suoi abitanti erano… sono… ebrei. Pochissimi hanno accettato la croce. Avevano a disposizione una vita sola.

Restammo in silenzio per un poco, quella sera, mentre le ombre riempivano i canyon di Nuova Gerusalemme e l’ospedale ronzava di vita elettrica, finché era possibile.


Il mattino seguente andai con le mie gambe fino al vecchio veicolo che mi aveva portato all’ospedale tredici giorni prima; poi, seduto sul pianale, dove mi avevano preparato un giaciglio, ordinai di cercare un negozio d’armi.

Dopo un’ora di giri fu chiaro che a Nuova Gerusalemme non esistevano negozi d’armi. — E va bene — dissi. — Proviamo in una centrale di polizia.

Ce n’erano diverse. Entrai zoppicando nella prima, rifiutando l’aiuto dell’androide e della bambina, e scoprii ben presto fino a che punto possa essere insufficientemente armata una società pacifica. Nella centrale di polizia non c’erano rastrelliere d’armi, neppure di fucili a canna corta per interventi d’ordine pubblico, né di storditori.

— Ho il sospetto che su Hebron non ci sia mai stato l’esercito e neppure la Guardia Nazionale — commentai.

— Penso proprio di no — disse A. Bettik. — Fino all’incursione Ouster, tre anni standard fa, sul pianeta non esistevano nemici umani né animali pericolosi.

Borbottai qualcosa e continuai a cercare. Alla fine, forzato l’ultimo cassetto a triplice serratura della scrivania di un capo di polizia, trovai qualcosa.

— Una Steiner-Ginn, mi pare — disse l’androide. — Una pistola che spara minicariche al plasma.

— So cos’è — replicai. Nel cassetto c’erano due caricatori. Quindi, circa sessanta colpi. Andai fuori, puntai la pistola verso una lontana collina e premetti il grilletto anulare. La pistola tossì e sul fianco della collina comparve un minuscolo bagliore. — Bene — dissi, infilando nella fondina l’antiquata pistola. Avevo temuto che fosse un’arma "a firma", cioè utilizzabile solo dal proprietario. Nel corso dei secoli, simili armi venivano e passavano di moda.

— Sulla zattera abbiamo la pistola a fléchettes — cominciò A. Bettik.

Scossi la testa: per un bel pezzo non volevo avere niente a che fare con quella roba.

Durante la mia convalescenza, A. Bettik e Aenea avevano fatto provvista d’acqua e di cibo; quando andai all’approdo nel canale e guardai la zattera riattrezzata e rifornita, vidi infatti le scatole extra.

— Domanda — dissi. — Perché continuiamo a usare questo mucchio di legname, mentre legati laggiù ci sono piccoli e comodi motoscafi da diporto? In alternativa, potremmo prendere un VEM e viaggiare godendoci anche l’aria condizionata.

Aenea e A. Bettik si guardarono. — Mentre eri in convalescenza — disse Aenea — abbiamo votato. Teniamo la zattera.

— E io non voto? — replicai, brusco. Volevo solo fingermi in collera, ma scoprii d’essere in collera davvero.

— Certo — disse Aenea, ferma sul pontile, ben dritta, a gambe larghe, mani sui fianchi. — Vota!

— Voto per prendere un VEM e viaggiare comodamente — dissi, notando con disgusto il mio tono petulante. Proseguii senza cambiarlo. — Oppure uno di quei motoscafi. Voto per lasciar perdere quei tronchi.

— Voto conteggiato — disse Aenea. — A. Bettik e io abbiamo votato per tenere la zattera. Non ha bisogno di ricarica e galleggia. Uno di quei motoscafi sarebbe stato rilevato dai radar, su Mare Infinitum; e poi su certi pianeti i VEM non funzionano. Due voti favorevoli, uno contrario. Teniamo la zattera.

— Chi ha detto che questa è una democrazia? — protestai. Mi vidi a sculacciare la bambina, lo ammetto.

— Chi ha detto che è un’altra cosa? — replicò Aenea.

Intanto A. Bettik se ne stava sul bordo del pontile e giocherellava con una corda; aveva l’espressione imbarazzata di chi assiste al litigio dei componenti di un’altra famiglia. Indossava un’ampia giubba militare e larghi calzoncini di lino giallo. In testa aveva un cappello giallo a tesa larga.

Aenea salì sulla zattera e sciolse la gomena di prua. — Se vuoi un motoscafo o un VEM, o magari un divano volante, prendilo pure, Raul. A. Bettik e io proseguiamo su questa zattera.

Sempre zoppicando, mi diressi verso un grazioso dinghy legato al pontile. — Ehi — dissi, facendo perno sulla gamba buona per girarmi e guardare in viso la bambina. — Il teleporter non funziona, se cerco di varcarlo da solo.

— Giusto — disse Aenea. A. Bettik era già salito sulla zattera e la bambina lasciò cadere la fune d’ormeggio. In quel punto il canale era più largo di quanto non lo fosse in quella sorta di trogolo dell’acquedotto: misurava circa trenta metri di larghezza, nel tratto attraverso Nuova Gerusalemme.

A. Bettik si mise al timone e mi guardò, mentre Aenea prendeva una pertica e scostava dal pontile la zattera.

— Aspetta! — dissi. — Maledizione, aspetta! — Percorsi zoppicando il pontile, superai con un balzo il metro che mi separava dalla zattera, atterrai sulla gamba menomata e fui costretto a sorreggermi sul braccio buono, prima di rotolare contro la tenda.

Aenea mi porse la mano, ma io finsi di non vederla e mi tirai in piedi. — Dio, se sei una mocciosa testarda! — dissi.

— Senti chi parla — replicò lei e andò a sedersi sulla prua della zattera, mentre ci spostavamo al centro della corrente.

Fuori dell’ombra degli edifici, il sole di Hebron era ancora più ardente. Tolsi di tasca il vecchio tricorno, mi coprii la testa e raggiunsi A. Bettik accanto al timone.

— Immagino che tu stia dalla sua parte — dissi alla fine, mentre ci spostavamo in pieno deserto e il canale tornava a restringersi.

— Sono del tutto neutrale, signor Endymion.

— Bah! Hai votato per tenere la zattera.

— Finora ci è stata utile, signore — replicò l’androide, tirandosi da parte mentre prendevo il timone.

Guardai le nuove scatole di provviste impilate per bene all’ombra della tenda, il focolare di pietra, il termocubo e le pentole e le padelle, la doppietta e la carabina al plasma (oliati di fresco e protetti da stracci) e i nostri zaini, i sacchi a pelo, i medipac e altra roba. In mia assenza era stato alzato un "albero maestro" e ora una delle camicie di ricambio di A. Bettik svolazzava come bandiera al vento.

— Be’, al diavolo — dissi.

— Proprio così, signore.

Il portale successivo si trovava a soli cinque chilometri dalla città. Mentre passavamo sotto la tenue ombra dell’arcata, guardai a occhi socchiusi l’ardente sole di Hebron e poi la linea del portale stesso. Nel caso degli altri portali c’era stato un momento in cui l’aria all’interno luccicava e variava, fornendo un breve accenno di ciò che si trovava più avanti.

In questo caso c’era solo tenebra assoluta. E la tenebra non cambiò, quando varcammo il portale. In compenso la temperatura scese di almeno settanta gradi. Nello stesso istante, la gravità cambiò: all’improvviso avevo l’impressione di reggere sulla schiena una persona pesante quanto me.

— Le lanterne! — gridai, reggendo sempre il timone per lottare contro la corrente a un tratto impetuosa. Lottavo per reggermi in piedi, sotto la terribile forza di gravità di quel mondo. La combinazione di gelo, di buio assoluto e di peso oppressivo era terrificante.

Sulla zattera c’erano delle lanterne trovate a Nuova Gerusalemme, ma Aenea accese per prima la vecchia lampada portatile. Il suo raggio tagliò gelidi vapori, brillò su acqua nera, si alzò a illuminare un soffitto di solido ghiaccio a una quindicina di metri dalla nostra testa. Stalattiti di ghiaccio pendevano fin quasi sull’acqua. Pugnali di ghiaccio emergevano dalla nera corrente ai lati della zattera. Un centinaio di metri più avanti, all’incirca dove il raggio della lampada cominciava ad affievolirsi, una solida parete di blocchi di ghiaccio scendeva fino all’acqua. Ci trovavamo in una grotta di ghiaccio… per giunta priva di visibili vie d’uscita. Il gelo mi bruciava le mani, le braccia, il viso. La gravità mi premeva sulle spalle come una serie di collari di ferro.

— Maledizione — dissi. Legai la barra del timone e zoppicai verso gli zaini. Era difficile stare dritti, con una gamba menomata e ottanta chili sulla schiena. A. Bettik e Aenea erano già lì e tiravano fuori i vestiti pesanti.

A un tratto ci fu un forte schianto. Alzai gli occhi, aspettandomi di vedere una stalattite che ci cadeva addosso o il soffitto che franava per il peso; invece era solo l’albero maestro che si era spezzato per l’urto contro una bassa sporgenza di ghiaccio. Cadde molto più velocemente di quanto avrebbe fatto nella gravità di Hyperion… si avventò contro la zattera, come in un filmato fatto scorrere a gran velocità. Volarono schegge di legno. La camicia di A. Bettik colpì il pianale e produsse un percettibile fragore. Era gelata, coperta di una crosta di brina.

— Maledizione! — ripetei, con i denti che battevano. Tirai fuori la biancheria di lana.

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