25

Una volta, su Hyperion, mentre guidavo tra le paludi alcuni cacciatori, domandai a uno di loro, un pilota d’aeronave che comandava il dirigibile settimanale sulla rotta delle Nove Code da Equus ad Aquila, com’era il suo lavoro. «Pilotare un’aeronave?» aveva risposto lui. «Come la vecchia battuta: lunghe ore di noia interrotte da minuti di puro panico.»

Il nostro viaggio era un po’ sullo stesso piano. Non voglio dire che ne fossi stufo… solo, l’interno della nave spaziale, con i suoi libri e i vecchi olofilm e il pianoforte a coda, era abbastanza interessante per fugare la noia nei primi dieci giorni, oltre a permettermi di conoscere meglio i miei compagni di viaggio… ma avevamo già sperimentato quei lunghi, lenti, piacevoli periodi d’ozio intervallati da interludi con violenti fiotti d’adrenalina.

Ammetto che era stato sconvolgente, nel sistema di Parvati, restare fuori campo della telecamera e guardare la bambina mentre minacciava di uccidere se stessa, e noi!, se la nave della Pax non si fosse ritirata. Nell’isola Felix, una delle Nove Code, avevo fatto per dieci mesi il croupier al tavolo di blackjack e avevo osservato un mucchio di giocatori d’azzardo: questa bambina di dodici anni era un diavolo di giocatore di poker. In seguito, quando le domandai se avrebbe messo in atto la minaccia e aperto l’ultimo livello pressurizzato, Aenea si limitò a rivolgermi quel suo sorriso malizioso e a fare con la destra un gesto vago, come per spazzare via il pensiero. Nei mesi e anni seguenti mi abituai a quel gesto.

— Ma come facevi a conoscere il nome del capitano della Pax? — domandai.

M’aspettavo chissà quale rivelazione sui poteri di un protomessia, ma Aenea si limitò a dire: — Aspettava davanti alla Sfinge, quando ne uscii, una settimana fa. Avrò sentito qualcuno fare il suo nome.

Ne dubitavo. Se il Padre Capitano fosse stato davanti alla Sfinge, per la procedura standard dell’esercito della Pax sarebbe stato ben chiuso nell’armatura da combattimento e avrebbe comunicato solo su canali sicuri. Ma quale motivo aveva, la bambina, di mentire?

"Perché cerco logica e razionalità in questa storia?" mi domandai in quel momento. "Finora non se n’è vista neanche l’ombra."

Quando Aenea era scesa nel ponte inferiore per fare la doccia dopo la nostra sensazionale partenza dal sistema di Parvati, la nave aveva cercato di rassicurare A. Bettik e me: «Niente paura, signori. Non vi avrei lasciati morire per la decompressione».

L’androide e io ci eravamo scambiati un’occhiata. Penso che tutt’e due ci chiedessimo in quel momento se la nave sapeva che cosa avrebbe fatto o se la bambina avesse qualche controllo speciale su di essa.

Mentre trascorrevano i giorni della seconda tappa del viaggio, mi ritrovai a rimuginare sulla situazione e sul modo in cui reagivo. Il guaio principale, mi resi conto, era stato il mio comportamento passivo, quasi non pertinente, per l’intero viaggio. Avevo ventisette anni, ero un ex soldato, uomo di mondo (anche se il mondo era solo il periferico Hyperion) e avevo lasciato che la bambina se la vedesse con l’unica vera emergenza che ci eravamo trovati ad affrontare. Capivo perché A. Bettik fosse rimasto così passivo in quella situazione; l’androide era, in fin dei conti, condizionato dalla bioprogrammazione e dalla plurisecolare abitudine a rimettersi alle decisioni degli uomini. Ma perché io ero stato un tale pezzo di legno? Martin Sileno mi aveva salvato la vita e mi aveva mandato in quella pazzesca missione per proteggere la bambina, per mantenerla in vita e per aiutarla ad andare dove volesse. Fino a quel momento non avevo fatto altro che pilotare un tappeto volante e starmene nascosto dietro un pianoforte, mentre la bambina se la vedeva con una nave da guerra della Pax.

In quei primi giorni fuori del sistema di Parvati, tutt’e quattro, nave inclusa, discutemmo della nave da guerra della Pax. Se Aenea aveva ragione, se il Padre Capitano de Soya si trovava su Hyperion all’apertura della Sfinge, allora la Pax aveva trovato il modo di prendere scorciatoie nello spazio Hawking. Le implicazioni di questo ragionamento erano tali da far rinsavire; peggio, anzi: mi spaventarono a morte.

Aenea non parve granché preoccupata. I giorni trascorsero e noi ci abbandonammo alla comoda, anche se un po’ oppressiva, routine di bordo: dopo cena Aenea suonava il piano, tutt’e tre frugavamo la biblioteca, controllavamo gli olofilm e i libri di bordo in cerca di qualche indizio riguardante dove la nave avesse portato il Console (c’erano diversi indizi, nessuno dei quali definitivo), giocavamo a carte di sera (Aenea era davvero un formidabile giocatore di poker) e di tanto in tanto facevamo esercizi fisici, per i quali chiedevo alla nave di stabilire a 1,3 g il campo di contenimento nel pozzo delle scale, correndo tre quarti d’ora su e giù per la scala a chiocciola alta come sei piani. Non so che cosa quell’esercizio mi facesse al resto del corpo, ma i polpacci, le cosce e le caviglie in breve parvero appartenere a un elefantoide d’un pianeta tipo Giove.

Quando si rese conto che il campo poteva essere modificato su misura anche limitandolo a piccole sezioni della nave, Aenea diventò incontrollabile. Cominciò a dormire in una bolla a gravità zero nel ponte di crio-fuga. Scoprì che il tavolo nella biblioteca poteva essere mutato in tavolo da biliardo e pretese di fare almeno due partite al giorno… ogni volta sotto un diverso carico gravitazionale. Una sera, mentre leggevo nel ponte di navigazione, udii un rumore, scesi nel ponte della piazzola olografica e scoprii che lo scafo aveva un’apertura a iride, che la loggia era all’esterno, ma senza il pianoforte, e che una gigantesca sfera d’acqua, forse di otto o dieci metri di diametro, galleggiava fra la balaustra e il campo di contenimento esterno.

— Che diavolo! — esclamai.

— È uno spasso! — disse una voce dall’interno della bolla pulsante d’acqua in movimento. Una testa dai capelli bagnati sbucò in superficie, penzolando capovolta a due metri dal pavimento della loggia. — Vieni dentro! L’acqua è calda.

Mi scostai da quell’apparizione, appoggiandomi alla balaustra e cercando di non pensare a che cosa sarebbe accaduto se per un secondo il campo localizzato della bolla fosse venuto a mancare.

— A. Bettik l’ha visto? — dissi.

Aenea si strinse nelle spalle. I pirotecnici frattali pulsavano e si ripiegavano al di là della loggia, lanciando sulla sfera d’acqua colori e riflessi incredibili. La sfera stessa era una grande bolla azzurra con chiazze più chiare sulla superficie e all’interno, dove si muovevano bolle d’aria. Mi ricordava le fotografie della Vecchia Terra.

Aenea ritrasse la testa, divenne una sagoma sbiadita che per un momento agitò i piedi nell’acqua, riemerse cinque metri più su lungo la curvatura. Gocce d’acqua schizzarono in libertà e ricaddero sulla sfera (a càusa del differenziale dei campi, immaginai) spiaccicandosi e formando complessi cerchi concentrici che incresparono la superficie del globo d’acqua.

— Vieni dentro — ripeté Aenea. — Dico sul serio!

— Non ho il costume da bagno.

Aenea galleggiò un secondo, si girò sullo stomaco, si tuffò di nuovo. Quando riemerse, a testa in giù rispetto al mio punto di vista, disse: — E chi ce l’ha, il costume? Non ti serve!

Sapevo che non scherzava, perché durante il tuffo avevo visto le sue vertebre risaltare sotto la chiara pelle della schiena e le sue natiche ancora da bambina riflettere la luce dei frattali come due piccoli funghi che sporgessero da uno stagno. Tutto sommato, dal punto di vista sessuale lo spettacolo del posteriore della dodicenne nostro futuro messia era eccitante quasi quanto la proiezione delle diapositive dei nuovi pronipoti di zia Merth nella vasca da bagno.

— Vieni dentro, Raul! — disse di nuovo Aenea e si tuffò verso la parte opposta della sfera.

Esitai solo un secondo, prima di togliermi la veste da camera. Tenni non solo gli slip, ma anche la lunga maglietta che spesso usavo come pigiama.

Per un momento rimasi sulla loggia, senza la minima idea di come entrare nella sfera alcuni metri più in alto. Poi udii la voce di Aenea giungere da qualche parte lungo l’arco superiore della bolla. — Salta, tonto!

Saltai. La transizione a g-zero iniziò circa un metro e mezzo più in alto. L’acqua era maledettamente fredda.

Girai su me stesso, mandai un grido per il freddo, sentii contrarsi ogni parte del corpo in grado di contrarsi e cominciai a dibattermi nel tentativo di tenere fuori la testa. Non fui sorpreso, quando A. Bettik uscì sulla loggia per vedere che cos’era tutto quel trambusto. L’androide incrociò le braccia e si appoggiò alla balaustra, accavallando i piedi.

— L’acqua è calda! — mentii, battendo i denti. — Vieni dentro!

L’androide sorrise e scosse la testa come un genitore paziente. Scrollai le spalle, girai su me stesso e mi tuffai.

Impiegai un paio di secondi a ricordare che il nuoto è molto simile al movimento in gravità zero e che quindi galleggiare a g-zero è molto simile a nuotare normalmente. Comunque la resistenza dell’acqua rendeva l’esperienza più simile al nuoto che al movimento in assenza di gravità, anche se c’era il divertimento aggiuntivo d’incontrare nella sfera una bolla d’aria e di fermarsi a tirare una boccata, prima di riprendere a nuotare sott’acqua.

Dopo qualche istante di capriole dovute al disorientamento, giunsi dentro una bolla larga un metro, mi fermai prima di ruzzolare nella sfera e guardai sopra di me, dove emergevano la testa e le spalle di Aenea. La bambina mi guardò dall’alto e agitò la mano. Sul petto nudo aveva la pelle d’oca, o per l’acqua fredda o per l’aria ancora più fredda.

— Uno spasso, eh? — disse, scrollandosi acqua dal viso e spingendo indietro i capelli. Bagnati, parevano d’un castano più scuro. Guardai la bambina e cercai di scorgere in lei la madre, l’investigatrice lusiana dai capelli neri. Inutile: non avevo mai visto un’immagine di Brawne Lamia, avevo solo sentito come la descriveva il poeta nei Canti.

La parte più difficile è non volare fuori dell’acqua quando ci si avvicina al bordo — disse Aenea, mentre la bolla si spostava e si contraeva e la parete d’acqua s’incurvava intorno a noi e sopra di noi. — Vediamo chi arriva prima fuori!

Ruotò su se stessa e scalciò; cercai di seguirla, ma feci l’errore di battere le braccia attraverso la bolla d’aria (oddio, spero che né A. Bettik né la bambina abbiano visto il patetico movimento convulso delle braccia e delle gambe!) e arrivai al bordo della sfera mezzo minuto dopo di lei. Lì camminammo sull’acqua; la nave e la loggia erano fuori vista sotto di noi, la superficie della sfera s’incurvava a sinistra e a destra, spariva come cascata da tutti i lati, mentre in alto i frattali si espandevano, esplodevano, si contraevano, si espandevano di nuovo.

— Peccato non poter vedere le stelle — dissi e mi accorsi con sorpresa d’avere parlato ad alta voce.

— Vorrei vederle anch’io — disse Aenea. Aveva il viso rivolto allo sconvolgente spettacolo luminoso e credetti di scorgervi per un attimo un’ombra di tristezza. — Ho freddo — disse alla fine Aenea. Ora serrava le mascelle per impedire ai denti di battere. — La prossima volta ricorderò alla nave di non usare acqua fredda per la piscina.

— Faresti meglio a uscire — dissi. Nuotammo verso il basso e intorno alla curvatura. La loggia parve una parete che si ergesse ad accoglierci, ma aveva un’anomalia: la figura di A. Bettik, in piedi trasversalmente, pronta a porgere a Aenea un grande asciugamano.

— Chiudi gli occhi — disse lei. Chiusi gli occhi e sentii i pesanti goccioloni degli schizzi a g-zero colpirmi il viso, mentre Aenea muoveva le braccia sulla superficie di tensione e galleggiava fuori della sfera. Un attimo dopo udii il tonfo di piedi scalzi sul pavimento della loggia.

Aspettai ancora qualche secondo e aprii gli occhi. A. Bettik aveva avvolto Aenea nel voluminoso asciugamano e lei vi si era rannicchiata: ora batteva i denti e non riusciva a trattenersi. — F-f-fai attenzione — disse. — R-r-r-uota appena e-e-esci dall’acqua, s-s-se no c-c-cadi di t-t-testa e ti r-r-rompi il c-c-collo.

— Grazie — dissi. Non avevo nessuna intenzione di lasciare la sfera prima che lei e A. Bettik fossero andati via dalla loggia. Ma loro rientrarono quasi subito e io nuotai, dimenando braccia e gambe nel forsennato tentativo di ruotare di 180 gradi prima che la gravità tornasse a farsi sentire; ruotai troppo, esagerai nel compensare il movimento e atterrai pesantemente sul fondo schiena.

Presi l’asciugamano che A. Bettik aveva coscienziosamente lasciato per me sulla balaustra, mi asciugai il viso e dissi: — Nave, puoi eliminare il microcampo g-zero.

L’attimo dopo m’accorsi dell’errore, ma non feci in tempo a modificare l’ordine: parecchie centinaia di litri d’acqua precipitarono sulla loggia: una pesante e gelida cascata da grande altezza. Se mi fossi trovato lì sotto, forse ci avrei lasciato la pelle (conclusione un poco ironica di una grande avventura), ma ero seduto a un paio di metri dal diluvio e perciò fui solo sbattuto contro la loggia, catturato dal vortice d’acqua che si riversava dalla balaustra e che minacciava di trascinarmi nello spazio e giù oltre la poppa della nave, quindici metri più in basso, fino in fondo alla bolla a forma d’ellissoide del campo di contenimento, dove avrei fatto la fine di un insetto annegato in un becher ovoidale.

Mi aggrappai alla balaustra e mantenni la presa finché il torrente non fu passato.

«Chiedo scusa» disse la nave, accorgendosi dell’errore e sagomando di nuovo il campo per contenere e raccogliere il diluvio. Notai che neppure una goccia era entrata nel livello della piazzola olografica.

Quando il microcampo portò via l’acqua in sfere sciaguattanti, presi l’asciugamano inzuppato e rientrai nella nave. Mentre lo scafo si chiudeva alle mie spalle e l’acqua presumibilmente veniva rimessa nei serbatoi per essere depurata a nostro uso o come massa di reazione, mi fermai di colpo.

— Nave! — esclamai.

«Sì, signor Endymion?»

— Non era la tua idea di uno scherzo, vero?

«Si riferisce al fatto che abbia ubbidito all’ordine di annullare il microcampo g-zero, signor Endymion?»

— Sì.

«Le conseguenze sono state semplicemente il risultato di una piccola trascuratezza, signor Endymion. Non faccio mai scherzi. Stia tranquillo, non ho il senso dell’umorismo.»

— Uhmmm — borbottai, non del tutto convinto. Portando con me le scarpe bagnate e i vestiti, sciaguattai al piano di sopra per asciugarmi e vestirmi.


Il giorno seguente andai a trovare A. Bettik in quella che lui chiamava la "sala motori". Il locale dava un po’ la sensazione della sala motori di una nave marittima (tubi caldi, vaghi ma ingombranti oggetti a forma di dinamo, passerelle e piattaforme metalliche), ma A. Bettik mi mostrò che lo scopo primario di quel locale era d’interfacciarsi con i motori della nave e con i generatori di campo per mezzo di vari connettori simili a quelli per lo stim-sim. Ammetto di non avere mai apprezzato le realtà generate da computer: sperimentai alcune vedute virtuali della nave, tolsi il collegamento e mi sedetti accanto all’amaca di A. Bettik per chiacchierare con lui. L’androide mi raccontò d’avere collaborato a tenere in ordine la nave per lunghi decenni e d’essersi a poco a poco convinto che non avrebbe mai più volato. Intuii il suo sollievo per il fatto che la nave fosse di nuovo in viaggio.

— Avevi già deciso d’accompagnare chiunque il vecchio poeta avesse scelto per andare con la bambina? — gli domandai.

L’androide mi guardò negli occhi. — Nell’ultimo secolo ho covato l’idea, signor Endymion. Ma raramente l’ho considerata una possibilità reale. La ringrazio per averla fatta realizzare.

Il suo tono esprimeva una gratitudine così sincera che per un momento rimasi imbarazzato. — Faresti meglio a non ringraziarmi finché non saremo sfuggiti alla Pax — dissi per cambiare discorso. — Immagino che ci aspetteranno nello spazio di Vettore Rinascimento.

— La riterrei un’ipotesi attendibile. — L’uomo dalla pelle azzurra non pareva particolarmente preoccupato per quella prospettiva.

— Credi che la minaccia di Aenea di depressurizzare la nave possa funzionare una seconda volta?

A. Bettik scosse la testa. — Vogliono catturare viva la bambina, ma non berranno il bluff un’altra volta.

Inarcai il sopracciglio. — Pensi davvero che bluffasse? Credevo che fosse pronta ad aprire al vuoto il nostro ponte.

— Ho i miei dubbi — disse A. Bettik. — Non conosco bene la signorina, ovviamente, ma ho avuto il piacere di trascorrere parecchi giorni in compagnia di sua madre e degli altri pellegrini, durante la traversata di Hyperion. La signora Lamia amava la vita e rispettava la vita altrui. Credo che la signorina Aenea avrebbe potuto attuare la minaccia, se fosse stata da sola, ma non credo che sia capace di nuocere volutamente a lei o a me.

A queste parole non trovai niente da dire, così parlammo d’altro… la nave, la nostra destinazione, i cambiamenti senza dubbio intervenuti nei mondi della Rete dopo tutto quel tempo dalla Caduta.

— Se atterriamo su Vettore Rinascimento — dissi — hai intenzione di lasciarci?

— Lasciarvi? — ripeté A. Bettik, mostrando sorpresa per la prima volta. — E perché dovrei lasciarvi?

Mossi la mano in un gesto d’impaccio. — Be’… immagino… voglio dire, ho sempre pensato che tu volessi la libertà e che l’avresti trovata nel primo mondo civile da noi toccato… — Lasciai perdere, per non fare ancora di più la figura dell’idiota.

— La libertà mi è giunta con la possibilità di partecipare a questo viaggio — disse piano l’androide. Sorrise. — E poi, signor Endymion, se volessi rimanere su Vettore Rinascimento, difficilmente potrei confondermi con la gente.

La battuta sollevò un argomento sul quale avevo cominciato a riflettere. — Potresti cambiare il colore della pelle — dissi. — Il robo-chirurgo della nave potrebbe farlo… — Lasciai perdere di nuovo; avevo notato nella sua espressione un sottile mutamento che non riuscivo a spiegarmi.

— Come lei sa, signor Endymion — cominciò A. Bettik — noi androidi non siamo programmati come macchine… non abbiamo neppure i basilari parametri e gli asimotivatori delle prime Intelligenze Artificiali DNA che si evolsero nelle intelligenze del Nucleo. Però è vero che alcune inibizioni furono… ah… fortemente impresse in noi, al momento di progettare i nostri istinti. Una, ovviamente, riguarda l’ubbidienza agli esseri umani ogni qual volta sia ragionevole e la loro salvaguardia. Questo asimotivatore, per quanto ne so, è più antico della robotica e della bioingegneria. Ma un altro… istinto… m’impedisce di cambiare il colore della pelle.

— Non puoi cambiarlo? Non potresti cambiarlo nemmeno se la nostra vita dipendesse dal fatto che tu nasconda la tua pelle azzurra?

— Oh, sì, ho anch’io il libero arbitrio — disse A. Bettik. — Potrei farlo, soprattutto se l’azione fosse in armonia con asimotivazioni di massima priorità, come salvaguardare lei e la signorina Aenea; ma la decisione mi… metterebbe a disagio. Molto a disagio.

Annuii, ma in realtà non lo capivo appieno. Parlammo di altre cose.


In quello stesso giorno feci l’inventario del contenuto degli armadi per le armi e per le attrezzature d’attività extraveicolare, posti nel ponte principale. C’era più di quanto non avessi pensato durante la prima ispezione, ma alcuni oggetti erano così antiquati che fui costretto a domandare alla nave a che cosa servissero. Le attrezzature nell’armadio AEV erano abbastanza ovvie: tute spaziali e tute per atmosfere a rischio, quattro aerociclette ben piegate nelle nicchie di magazzinaggio sotto l’armadio delle tute, robuste lampade a mano, attrezzatura da campeggio, maschere osmotiche e autorespiratori subacquei con pinne e fucili, una cintura a propulsione EM, tre cassette di utensili, due medipac ben attrezzati, sei serie di occhiali a visione notturna e a raggi infrarossi, un numero uguale di cuffie leggere con ricetrasmettitori a goccia e videocamera, e vari comlog. I comlog m’indussero a chiedere spiegazioni alla nave: in un mondo senza sfera dati, come quello dov’ero cresciuto, non se ne faceva molto uso. I comlog andavano dal tipo antiquato (la sottile banda d’argento tipo bigiotteria che era molto in voga vari decenni fa) a quello antidiluviano: massicci congegni formato piccolo libro. Tutti potevano essere usati come ricetrasmettitori, potevano immagazzinare una grande quantità di dati, accedere alla locale sfera dati e, soprattutto i più vecchi, agganciarsi tramite telecomando ai relè astrotel planetari, in modo da avere accesso alla megasfera.

Soppesai uno dei braccialetti. Non arrivava a un grammo. Ed era del tutto inutile. Sapevo, dai discorsi dei cacciatori giunti da altri pianeti, che alcuni mondi avevano di nuovo una primitiva sfera dati (Vettore Rinascimento era uno di essi, pensavo) ma i relè astrotel erano inutili da almeno tre secoli. L’astrotel, la banda comune di trasmissione FTL, cioè a velocità superiore a quella della luce, dalla quale a suo tempo l’Egemonia dipendeva, taceva fin dalla Caduta. Rimisi il comlog nel suo astuccio foderato di velluto.

«Potrebbe esserle utile portarlo con sé, nel caso dovesse lasciarmi per qualche tempo» disse la nave.

Istintivamente mi guardai alle spalle. — Perché? — domandai poi.

«Dati» rispose la nave. «Potrei scaricare il mio archivio base in uno, o più, di quelli. E lei vi accederebbe a piacimento.»

Mi mordicchiai il labbro e cercai d’immaginare a cosa potesse servirmi avere al polso la confusa massa di dati della nave. Poi mi tornarono in mente le parole di Nonna: La conoscenza va sempre tenuta da conto, Raul. Nel tentativo di capire l’universo è seconda solo all’amore e all’onestà.

Buona idea — dissi, agganciandomi al polso il sottile nastro d’argento. — Quando puoi scaricare le tue banche dati?

«L’ho appena fatto» rispose la nave.

Prima d’arrivare nel sistema di Parvati, avevo passato attentamente in rassegna il contenuto dell’armadio delle armi: non c’era niente che avrebbe rallentato d’un secondo una Guardia Svizzera. Ora esaminai meglio il contenuto dell’armadio, tenendo in mente scopi diversi.

È strano come le vecchie cose sembrino vecchie. Le tute spaziali, le aerociclette, le lampade a mano… quasi tutto, a bordo della nave, pareva antiquato, fuori moda. Non c’erano dermotute, per esempio; e le dimensioni, la concezione tecnica e il colore di ogni oggetto parevano tolti di peso da un libro di storia. Ma le armi erano una faccenda un po’ diversa. Erano vecchie, certo, ma ben note al mio occhio e alla mia mano.

Era evidente che il Console era stato un cacciatore: in una rastrelliera c’erano sei doppiette, ben oliate e conservate secondo le regole. Avrei potuto prenderne una a caso, andare in palude e riempire d’anatre il carniere. I modelli variavano, da un piccolo .310 a canne sovrapposte a una massiccia doppietta cal. 16. Scelsi un antico, ma perfettamente conservato, cal. 16 a pompa con vere e proprie cartucce e lo misi da parte nel corridoio.

Le carabine e le armi a energia erano molto belle. Di sicuro il Console era stato un collezionista, perché quegli esemplari erano opere d’arte, oltre che strumenti per uccidere: intarsi nel calcio, acciaio brunito, impugnatura anatomica, equilibrio perfetto. Nel millennio e passa che ci separava dal XX secolo, quando le armi individuali erano prodotte in serie ed erano incredibilmente micidiali, poco costose e brutte come fermaporte metallici, alcuni di noi (io e il Console, fra quei pochi) avevamo imparato a dar valore alle belle armi da fuoco fabbricate a mano o prodotte in serie limitata. Nella rastrelliera c’erano fucili da caccia di grosso calibro, carabine al plasma (non è un termine improprio, come avevo imparato durante l’addestramento nella Guardia Nazionale: quando usciva dalla bocca da fuoco, il proiettile era ovviamente una scarica di pura energia, ma beneficiava della rigatura della canna), due carabine dal calcio riccamente intagliato, a energia laser (questo sì che era un termine improprio, un manufatto linguistico, più che progettuale) non molto diverse da quella con cui il signor Herrig aveva ammazzato la mia Izzy, un fucile d’assalto nero opaco della FORCE simile a quello che il colonnello Fedmahn Kassad aveva portato su Hyperion tre secoli fa, un’arma al plasma di calibro gigante che di certo il Console aveva usato per cacciare dinosauri su chissà quale pianeta, e tre pistole. Non c’erano neuroverghe. Ne fui contento: li odiavo, quei maledetti aggeggi.

Tolsi dalla rastrelliera una carabina al plasma, il fucile d’assalto della FORCE e le pistole, per esaminarli più accuratamente.

Il fucile della FORCE era brutto, faceva a pugni con i criteri che avevano ispirato la collezione del Console; ma capii perché vi era stato compreso. Era un ordigno multiuso: carabina al plasma da 18 mm., arma a energia coerente a raggio variabile, lanciagranate, schermo protettivo reae (raggi d’elettroni ad alta energia), lancia-fléchettes, accecatore a banda ampia, lancia-dardi a ricerca di fonte di calore-diavolo, un fucile d’assalto della FORCE farebbe qualsiasi cosa, tranne che cucinare il rancio del soldato. (Ma, sul campo, il raggio variabile, tenuto al minimo, di solito fa anche questo.)

Prima d’entrare nel sistema di Parvati, avevo accarezzato l’idea di accogliere con il fucile della FORCE le Guardie Svizzere all’abbordaggio, ma le moderne tute da combattimento si sarebbero fatte gioco di qualsiasi cosa quel fucile potesse scagliare; e poi, a essere onesti, avevo temuto che una simile accoglienza facesse inferocire i soldati della Pax.

Ora esaminai più attentamente il fucile della FORCE: un’arma così versatile poteva rivelarsi utile, se ci fossimo allontanati troppo dalla nave e se avessi dovuto vedermela con un nemico un po’ meno moderno… che so, un cavernicolo, un caccia a reazione, un poveraccio equipaggiato come noi della Guardia Nazionale di Hyperion. Alla fine rinunciai a prenderlo: pesava in maniera proibitiva per chi non avesse indosso la vecchia tuta esoenergizzata della FORCE, non aveva munizioni per il lancia-fléchettes, il lancia-granate e per lo schermo reae; inoltre era ormai impossibile trovare le pulsocartucce da 18 mm e per sfruttare le opzioni a energia mi sarei dovuto trovare nei pressi della nave o di qualche altra potente fonte energetica. Rimisi al suo posto il fucile d’assalto, pensando in quel momento che forse era appartenuto davvero al leggendario colonnello Kassad. Non rientrava nello stile della collezione del Console, ma quest’ultimo aveva conosciuto Kassad e forse aveva conservato il fucile per ragioni affettive.

Domandai alla nave, ma la nave non ricordava. — Ma guarda che strano! — borbottai.

Le pistole erano più antiche del fucile d’assalto, ma più promettenti. Ognuna era un pezzo da collezione, ma usava caricatori ancora in commercio… su Hyperion, almeno. Non potevo esserne sicuro, per i pianeti che avremmo visitato. La più grossa era un’automatica Steiner-Ginn Penetrator cal. 60. Un’arma di tutto rispetto, ma pesante: gli stampocaricatori pesavano quasi quanto la pistola, progettata inoltre per consumare munizioni a ritmo prodigioso. La rimisi a posto. Le altre due lasciavano ben sperare: una pistola a fléchettes, piccola, leggera, molto maneggevole, che poteva essere la bisnonna di quella con cui il signor Herrig aveva tentato di uccidermi. Era fornita di parecchie centinaia di minuscoli e lucenti ago-ovuli (il caricatore ne conteneva cinque per volta) e ciascun ovulo conteneva varie migliaia di fléchettes. Una buona arma, per chi non fosse un gran tiratore.

L’ultima pistola mi stupì. Era conservata nella relativa fondina di cuoio oliato. La estrassi con le dita che tremavano un poco. La conoscevo solo grazie ai libri antichi: una rivoltella .45 semiautomatica, con veri proiettili… quelli incamiciati d’ottone, non quelli prodotti da uno stampocaricatore che li crea man mano che la pistola spara… impugnatura zigrinata, mirino metallico, acciaio brunito. Rigirai la pistola. Poteva avere benissimo più di mille anni.

Esaminai il cofanetto dove era tenuta: cinque scatole di proiettili cal. 45, ossia alcune centinaia di colpi. Pensai che anche quelli erano di sicuro molto antichi, ma vidi la targhetta di fabbrica: una ditta di Lusus. Circa tre secoli.

Mi venne in mente che, secondo i Canti, Brawne Lamia portava con sé un’antiquata .45. Più tardi lo domandai a Aenea e lei mi disse di non avere mai visto una pistola in mano a sua madre.

Tuttavia la rivoltella e la pistola a fléchettes parevano armi da portare con noi. Non sapevo se le cartucce della .45 avrebbero ancora funzionato, perciò ne portai una sulla loggia, dissi alla nave d’impedire al campo esterno di far rimbalzare il proiettile e premetti il grilletto. Niente. Ricordai che quelle armi avevano la sicura manuale. Trovai la levetta, tolsi la sicura e riprovai. Diomio, che botto! Le cartucce erano ancora buone. Misi nella fondina la rivoltella e me l’agganciai alla cintura. Pareva al posto giusto. Certo, sparata l’ultima cartuccia la rivoltella sarebbe diventata inutile, a meno che non trovassi un club di armi antiche che fabbricasse munizioni.

"Non ho in programma di sparare parecchie centinaia di proiettili contro chissà cosa" pensai ironicamente a quel tempo. Se solo avessi saputo!

Più tardi mostrai alla bambina e all’androide la doppietta e la carabina al plasma che avevo scelto, la pistola a fléchettes e la .45. — Se andiamo in giro in posti strani — dissi — dovremmo avere un’arma. — Offrii loro la pistola a fléchettes, ma tutt’e due la rifiutarono. Aenea non voleva armi; l’androide mi fece notare che non avrebbe potuto usare un’arma contro un essere umano e confidava che io fossi nelle vicinanze, se un animale feroce l’avesse assalito.

Brontolai, ma misi da parte la carabina, il fucile e la pistola a fléchettes. — Questa la tengo io — dissi, toccando la .45.

— S’intona al tuo abbigliamento — notò Aenea, con un lieve sorriso.


Stavolta non ci fu la disperata discussione di un piano all’ultimo minuto. Nessuno di noi credeva che la minaccia di autodistruzione avrebbe funzionato di nuovo, se la Pax fosse stata lì ad aspettarci. La discussione più seria sugli eventi futuri ebbe luogo due giorni prima dell’emersione nel sistema di Vettore Rinascimento. Avevamo fatto un buon pasto (A. Bettik aveva preparato filetto di manta fluviale in salsa dolce e dalla cantina della nave avevamo preso una bottiglia d’ottimo vino dei vigneti del Becco) e dopo un’ora di musica, con Aenea al pianoforte e l’androide al flauto (l’aveva portato con sé da Hyperion) ci mettemmo a parlare del nostro futuro.

— Nave, cosa puoi dirci su Vettore Rinascimento? — domandò Aenea.

Seguì la breve pausa che secondo me rivelava un certo imbarazzo. «Mi spiace, signorina Aenea» rispose la nave «ma a parte dati di navigazione e antiquate mappe d’approccio orbitale, purtroppo non ho informazioni su quel pianeta.»

— Io ci sono stato — disse A. Bettik. — Secoli fa, è vero; ma abbiamo tenuto sotto controllo i traffici radiotelevisivi che lo riguardavano.

— E io ne ho sentito parlare da alcuni cacciatori — dissi. — Alcuni fra i più ricchi provengono da Vettore Rinascimento. — Mi rivolsi all’androide. — Comincia tu.

A. Bettik annuì e incrociò le braccia. — Vettore Rinascimento era uno dei mondi più importanti dell’Egemonia — disse. — Molto simile alla Terra, secondo la scala Solmev. Colonizzato dalle prime navi coloniali, interamente urbanizzato ai tempi della Caduta. Famoso per le università, per i centri medici… i trattamenti Poulsen per i cittadini della Rete che potevano permetterseli erano effettuati per la maggior parte lì… per l’architettura barocca, particolarmente bella a Rocca Enable, una fortezza sulle montagne, e per la produzione industriale. Nei suoi cantieri si fabbricava la maggior parte delle navi spaziali della FORCE. Anche questa nave è stata costruita lì… è un prodotto del complesso Mitsubishi-Havcek.

«Davvero?» intervenne la nave. «I dati, se li avevo, sono ormai perduti. Molto interessante.»

Per l’ennesima volta Aenea e io ci scambiammo un’occhiata: una nave che non potesse ricordare il proprio passato né il luogo d’origine non ispirava fiducia, viste le complessità del volo interstellare. "Oh, insomma" pensai per l’ennesima volta "ci ha portati senza errori dentro e fuori del sistema di Parvati."

— Da Vinci è la capitale di Vettore Rinascimento — proseguì A. Bettik. — Ma l’intera massa di terre emerse e buona parte dell’unico oceano sono urbanizzati, per cui c’è poca distinzione fra un centro urbano e l’altro.

— È un attivo mondo della Pax — aggiunsi io. — Uno dei primi a unirsi alla Pax, dopo la Caduta. Ci sono militari a palate: Vettore Rinascimento e Rinascimento M. hanno guarnigioni orbitali e lunari, senza contare le numerose basi planetarie.

— Cos’è Rinascimento M.? — domandò Aenea.

— Rinascimento Minore — spiegò A. Bettik. — Il secondo pianeta dal sole… Vettore Rinascimento è il terzo. Anche Minore è abitato, ma ha una popolazione molto meno numerosa. È un pianeta soprattutto agricolo: enormi fattorie automatizzate ricoprono gran parte del pianeta e riforniscono Vettore. Dopo la Caduta e la scomparsa dei teleporter, tutt’e due i pianeti hanno tratto beneficio da questa situazione; prima che la Pax ristabilisse su basi regolari il commercio interstellare, il sistema Rinascimento era autosufficiente. Vettore fabbricava i prodotti tecnologici; Minore produceva il cibo per i cinque miliardi di persone dell’altro pianeta.

— Qual è adesso la popolazione di Vettore Rinascimento — domandai.

— Credo che sia circa la stessa… cinque miliardi di persone, cento milioni più, cento milioni meno. Come ho detto, la Pax vi arrivò presto e offrì sia il crucimorfo sia il regime di controllo demografico che lo accompagna.

— Hai detto d’esserci stato — dissi all’androide. — Che mondo è?

— Ah — sospirò A. Bettik, con un sorriso triste — sono rimasto per meno di trentasei ore nello spazioporto di Vettore Rinascimento. Ero stato spedito dal pianeta Asquith per colonizzare le nuove terre di re William su Hyperion. Ci svegliarono dal crio-sonno, ma non ci permisero di lasciare la nave. Non ricordo molto, di quel mondo.

— Sono tutti cristiani rinati? — domandò Aenea. Pareva pensierosa, un po’ chiusa in se stessa. Notai che si mangiucchiava di nuovo le unghie.

— Oh, sì — disse A. Bettik. — Quasi tutt’e cinque miliardi, purtroppo.

— E non scherzavo, sulla forte presenza militare della Pax — dissi. — I soldati che addestravano la Guardia Nazionale di Hyperion provenivano da Vettore Rinascimento. Lì è di stanza un’importante guarnigione e il pianeta è il punto di smistamento per la guerra contro gli Ouster.

Aenea annuì, ma pareva sempre turbata.

Decisi di non menare il can per l’aia. — Perché andiamo proprio lì? — domandai.

Aenea mi guardò. I suoi occhi scuri erano molto belli, ma remoti, in quel momento. — Voglio vedere il fiume Teti.

Scossi la testa. — Il fiume Teti era un’applicazione del teleporter, sai. Non esisteva fuori della Rete. O meglio, esisteva come migliaia di piccole sezioni di altri fiumi.

— Lo so. Ma voglio vedere un fiume che fosse parte del Teti ai tempi della Rete. Mia madre me ne parlò. Mi disse che il Teti era simile al Grand Concourse, ma più tranquillo. Lo si poteva navigare da mondo a mondo, per settimane, mesi.

Cercai di non arrabbiarmi. — Sai che in pratica non abbiamo nessuna possibilità di oltrepassare le difese di Vettore Rinascimento — dissi. — E se ci riusciamo, lì non ci sarà il Teti, ma solo quel tratto di fiume che faceva parte del Teti. Come mai è tanto importante vederlo?

Aenea cominciò a scrollare le spalle, si trattenne. — Se ricordi, ho parlato di un architetto con cui devo… voglio… studiare.

— Sì, ma non sai come si chiama né in quale mondo si trova. Allora perché inizi la ricerca da Vettore Rinascimento? Non potremmo almeno guardare su Rinascimento Minore? O evitare tutto il sistema e andare in un pianeta disabitato, Armaghast per esempio?

Aenea scosse la testa. Notai che si era pettinata con cura particolare: le ciocche bionde risaltavano. — Nei miei sogni — disse — uno degli edifici di quell’architetto si trova sul Teti.

— Ci sono centinaia di pianeti su cui scorreva il Teti — dissi, sporgendomi verso di lei perché vedesse che parlavo seriamente. — Non tutti comportano il rischio d’essere catturati o uccisi dalla Pax. Dobbiamo proprio cominciare da Rinascimento?

— Penso di sì — rispose lei, piano.

Lasciai cadere le mani sulle ginocchia. Martin Sileno non aveva detto che quel viaggio sarebbe stato facile o razionale… aveva solo detto che avrebbe fatto di me un eroe. — E va bene — dissi, sentendo nella mia voce la stanchezza. — Qual è il tuo piano stavolta, ragazzina?

— Non ho un piano. Se saranno lì ad aspettarci, dirò loro la verità: atterriamo su Vettore Rinascimento. Penso che ci lasceranno atterrare.

— E se ci lasciano atterrare? — replicai, cercando di raffigurarmi la nave circondata da migliaia di soldati della Pax.

— Allora vedremo, penso — disse Aenea. Mi sorrise. — Chi vuol fare una partita a biliardo a gravità 0,2? A soldi, stavolta.

Trattenni una risposta pepata, cambiai tono. — Tu soldi non ne hai.

Aenea allargò il sorriso. — Allora non posso perdere, giusto?

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