Quando sbucammo dall’altra parte del portale, lo Shrike era sparito.
Dopo un momento abbassai la carabina e mi guardai intorno. Lì il fiume era ampio e poco profondo. Il cielo era di un azzurro più scuro di quello di Hyperion e lontano, verso nord, si vedevano torreggianti stratocumuli. Pareva che le colonne di nubi riflettessero la luce della sera e uno sguardo alle nostre spalle ci mostrò un grosso sole basso all’orizzonte. Avevo l’impressione che il sole stesse per tramontare, non che fosse appena sorto.
Le rive mostravano rocce, erbacce e un terreno coperto dì cenere. L’aria stessa odorava di cenere, come se nella zona da noi attraversata ci fosse stata una foresta distrutta dalle fiamme. La bassa vegetazione confermava questa ipotesi. Alla nostra destra, lontano molti chilometri, a occhio, si alzava un annerito scudo vulcanico.
— Boschetto Divino, ritengo — disse A. Bettik. — Quelli sono i resti dell’Albero Mondo.
Guardai di nuovo il nero cono vulcanico. Nessun albero avrebbe potuto raggiungere quelle dimensioni.
— Dov’è lo Shrike? — dissi.
Aenea si alzò e andò nel punto dove un attimo prima c’era stata quella creatura. Passò la mano nell’aria, come se lo Shrike fosse diventato invisibile.
— Reggetevi! — dissi. La zattera stava per raggiungere una modesta serie di rapide. Tornai al timone e lo slegai, mentre la bambina e l’androide impugnavano le pertiche. La zattera sobbalzò, sollevò spruzzi, cercò di fare testa-coda, ma ben presto superò le bianche increspature.
— Era divertente! — disse Aenea. Da un po’ di tempo non la vedevo così animata.
— Già — dissi. — Divertente. Ma la zattera va a pezzi. — Era un’esagerazione, ma non proprio un’iperbole. I tronchi allentati, a prua, cominciavano a staccarsi. I nostri bagagli si muovevano, liberi, sulla tenda smontata.
— C’è una zona piana dove accostare — disse A. Bettik, indicando un tratto erboso lungo la sponda di destra. — Più avanti le alture sembrano più scoscese.
Presi il binocolo e scrutai quelle creste nerastre. — Hai ragione — dissi. — Forse più avanti ci sono delle vere rapide e pochi punti adatti all’approdo. Fermiamoci qui a legare i tronchi allentati.
L’androide e la bambina spinsero la zattera verso la riva destra. Saltai giù e tirai l’imbarcazione sulla spiaggia fangosa. I danni, sulla parte frontale e sul fianco, non erano gravi: solo legacci allentati e qualche tavola scheggiata. Diedi uno sguardo a monte. Il sole era più basso, ma avevo l’impressione che non sarebbe tramontato prima di un’ora almeno.
— Ci accampiamo per la notte? — domandai, pensando che quello era un posto adatto e che forse non ne avremmo trovato un altro tanto presto. — O proseguiamo?
— Proseguiamo — dichiarò Aenea, decisa.
Capivo il suo impulso. Era ancora mattino, secondo l’ora di Qom-Riyadh. Però obiettai: — Non mi va di trovarmi in acque mosse nel buio.
Aenea scrutò il sole. — E a me non va di stare qui ferma nel buio — replicò. — Andiamo avanti per quanto possibile. — Mi chiese il binocolo, scrutò le terrazze nerastre alla nostra destra, le buie alture sulla sinistra. — Non avrebbero messo una sezione del Teti in un fiume con rapide molto pericolose, no?
A. Bettik si schiarì la voce. — Propenderei per il fatto che quella colata di lava sia stata creata dall’attacco degli Ouster contro questo pianeta. I sommovimenti sismici provocati da un simile impiego di raggi al plasma potrebbero avere generato rapide molto impegnative.
— Non sono stati gli Ouster — disse piano Aenea.
— Cosa, ragazzina?
— Non sono stati gli Ouster — ripeté Aenea, in tono più deciso. — Il TecnoNucleo costruì alcune navi per aggredire la Rete… simulando un’invasione Ouster.
— Certo — dissi. Avevo dimenticato che Martin Sileno diceva la stessa cosa, verso la fine dei Canti. Quando avevo imparato il poema, quella parte mi era parsa poco sensata. Ora non aveva importanza. — Ma le alture scorificate sono ancora lì e potrebbe esserci anche qualche pericoloso tratto d’acqua rotta. O di vere e proprie cascate. Forse sarà impossibile attraversarle con la zattera.
Aenea annuì e ripose nel mio zaino il binocolo. — Se sarà impossibile, sarà impossibile — replicò. — Andremo a piedi e attraverseremo a nuoto il prossimo portale. Ma ripariamo velocemente la zattera e avanziamo il più possibile. Se vediamo rapide difficili, accostiamo alla riva più vicina.
— Potrebbe essere una scogliera, anziché una riva — obiettai. — Quella lava non promette niente di buono.
Aenea scrollò le spalle. — Allora ci arrampicheremo e continueremo a piedi.
Ammetto d’avere provato ammirazione per la bambina, quella sera. Sapevo che era sfinita, nauseata, sconvolta da qualche emozione che non capivo, e spaventata quasi a morte. Ma non l’avevo mai vista pronta a rinunciare.
— Bene — dissi — almeno lo Shrike è sparito. Buon segno.
Aenea si limitò a guardarmi. Ma cercò di sorridermi.
Le riparazioni richiesero solo venti minuti. Rifacemmo i legacci, spostammo sul davanti alcuni supporti centrali e stendemmo sul tavolato la microtenda per non bagnarci i piedi.
— Se dobbiamo viaggiare nel buio — disse Aenea — sarebbe bene rizzare di nuovo l’albero maestro con la lanterna.
— Sì — dissi. Avevo tenuto da parte un lungo palo proprio a quello scopo e ora lo inserii nell’apposita incavatura e lo legai. Usai il coltello per praticare un intaglio adatto al manico della lanterna. — L’accendo? — domandai.
— Ancora no — rispose Aenea, con un’occhiata al sole.
— D’accordo. Se andiamo a saltellare sulle rapide, ci conviene tenere negli zaini i bagagli e mettere le cose più importanti nelle sacche impermeabili. — Ci mettemmo subito all’opera. Nella mia sacca infilai una camicia di ricambio, una matassa di corda, la carabina al plasma piegata in due, la torcia laser e un’altra normale. Cominciai a mettere nello zaino il comlog e pensai: "Non serve a niente, ma non pesa molto" e me lo agganciai al polso. Nella clinica su Qom-Riyadh avevamo ricaricato il comlog, la torcia laser e le batterie delle torce normali.
— Tutto a posto? — dissi, pronto a spingere di nuovo la zattera nella corrente. Ora l’imbarcazione pareva davvero migliore, con il rivestimento sul pontone, gli zaini gonfi e legati al loro posto, la lanterna a prua.
— Pronta — disse Aenea.
A. Bettik annuì e si appoggiò alla pertica. Entrammo nel fiume.
La corrente era rapida, almeno venti o venticinque chilometri all’ora, e il sole, quando entrammo nella zona della lava, era ancora sopra l’orizzonte. Le rive diventarono ripide scogliere e ci trovammo a sobbalzare su increspature d’acqua bianca, uscendone ogni volta in piedi e asciutti; allora iniziai a esaminare le rive per trovare punti adatti ad accostare appena avessimo udito il rombo di una cascata o di rapide violente. Vidi alcuni punti… burroni e aree piatte… ma il terreno era visibilmente accidentato, più avanti. Notai che lì, nei burroni, c’era maggiore vegetazione… semprazzurri e sequoie rachitiche… e il basso sole dipingeva di vividi colori i rami più alti. Cominciavo a pensare di prendere dagli zaini il pranzo… o cena, o come volevamo chiamarlo… e di preparare qualcosa di caldo, quando A. Bettik annunciò: — Rapide più avanti.
Mi sporsi sul timone e guardai. Rocce nell’acqua, spuma, spruzzaglia. Gli anni da barcaiolo sul Kans mi aiutarono a valutare quel tratto di rapide. — Andrà tutto bene — dissi. — Tenetevi saldi sulle gambe e spostatevi un po’ più al centro, se gli scossoni aumentano. Spingete forte, quando dico di spingere. Il difficile sarà mantenere la prua dove vogliamo che vada, ma possiamo farcela. Se finite in acqua, nuotate verso la zattera. Ho una fune pronta. — Tenevo un piede sulla matassa di fune.
Non mi piacevano le scogliere di lava nera e i massi più avanti sulla destra, ma dopo quel tratto d’acqua rotta, il fiume pareva più ampio e più calmo. Se dovevamo affrontare solo quello, probabilmente avremmo potuto continuare anche di notte, usando la lanterna e la torcia laser per illuminare il percorso.
Tutt’e tre eravamo concentrati ad allineare la zattera nel modo giusto per entrare nelle rapide, cercando si scansare parecchi massi che emergevano dall’acqua spumeggiante, quando tutto ebbe inizio. Se non fosse stato per un mulinello che aveva fatto girare su se stessa la zattera due volte, tutto sarebbe finito prima che mi rendessi conto di che cosa accadeva. A dire il vero, fu quasi così.
Aenea gridava, divertita. Io ridevo. Perfino A. Bettik mostrava un sorriso. Le rapide poco pericolose fanno questo effetto, lo sapevo per esperienza personale. Le rapide di classe V di solito stampano sul viso della gente un rictus di terrore, ma uno sballottolio poco pericoloso come quello è divertente. Ci gridavamo suggerimenti: Spingi! Tutto a destra! Scansa quella roccia! Aenea era qualche passo alla mia destra, A. Bettik un po’ più in là a sinistra, ed eravamo stati appena afferrati dal mulinello a valle del grosso masso che avevamo scansato, quando alzai gli occhi e vidi l’albero maestro e la lanterna tranciati di colpo in vari pezzi.
Trovai il tempo d’esclamare: — Che diavolo? — e poi fui colpito da vecchi ricordi e da riflessi che immaginavo atrofizzati da anni.
In quel momento giravamo a sinistra. Gridai: — Giù! — con tutto il fiato che avevo nei polmoni, abbandonai il timone e mi tuffai contro le gambe di Aenea. Rotolammo giù dalla zattera e finimmo nell’acqua spumeggiante.
A. Bettik aveva reagito quasi all’istante e si era gettato carponi verso prua: il monofilo che aveva affettato come burro l’albero maestro e la lanterna di sicuro lo mancò di qualche millimetro. Emersi dall’acqua, raschiando con gli stivali i sassi e tenendo il braccio intorno al petto di Aenea, appena in tempo per vedere il monofilo sott’acqua tagliare in due la zattera e poi tagliarla di nuovo, mentre il mulinello faceva roteare i tronchi. I monofili sono invisibili, è ovvio, ma quella capacità di tagliare nettamente legno e metallo aveva una sola spiegazione. Avevo visto usare quel trucco contro dei miei commilitoni nella brigata sul continente Ursus; i ribelli avevano teso di traverso sulla strada i monofili, che avevano tagliato di netto l’autobus che portava in caserma trenta soldati di ritorno dal cinema in città, decapitandoli tutti.
Cercai di lanciare un grido d’avvertimento ad A. Bettik, ma l’acqua rumoreggiava e mi riempiva la bocca. Tentai d’afferrare un masso, lo mancai, strisciai i piedi contro il fondo e mi aggrappai al masso seguente. Mi si accartocciò lo scroto, al pensiero di quei maledetti fili sott’acqua, davanti al mio viso…
L’androide vide la zattera affettata per la terza volta e si tuffò nell’acqua bassa. La corrente lo rivoltò e A. Bettik alzò d’istinto il braccio sinistro, mentre con la testa finiva sott’acqua. Vi fu per un attimo una nebbia di sangue: il braccio era stato tagliato di netto poco sotto il gomito. A. Bettik sporse dall’acqua la testa, ma non gridò: con la destra afferrò uno scoglio aguzzo e si tenne aggrappato. Il braccio sinistro e la mano che ancora si contraeva furono spazzati a valle, fuori vista.
— Oh, Cristo! — gridai. — Maledetto… maledetto!
Aenea sporse dall’acqua la testa e mi guardò a occhi sgranati. Ma non era in preda al panico.
— Stai bene? — le gridai per superare il fragore delle rapide. Il monofilo taglia così nettamente che ci si può ritrovare senza una gamba e non rendersene conto per mezzo minuto.
Aenea annuì.
— Reggiti a me! — le urlai. Dovevo liberare il braccio sinistro. Lei si aggrappò: aveva la pelle già fredda per l’acqua gelida.
— Maledetto, maledetto, maledetto — ripetei, come se fosse un mantra, mentre con la sinistra frugavo nella sacca appesa a tracolla. La pistola era nella fondina, bloccata dalla coscia contro il fondo del fiume. Lì il fiume era poco profondo… meno di un metro, in alcuni punti… acqua appena sufficiente a tuffarci in cerca di copertura, quando il cecchino avesse iniziato a sparare. Ma non aveva importanza… il tentativo di tuffarci ci avrebbe spinti a valle, contro il monofilo.
Vedevo A. Bettik, aggrappato a costo della vita, otto metri più avanti. Alzò dall’acqua il braccio sinistro. Dal moncherino schizzava sangue. Vidi che l’androide faceva una smorfia e rischiava di perdere la presa, mentre il dolore cominciava a superare lo choc. "Gli androidi muoiono come gli uomini?" mi domandai. Scacciai quel pensiero. Il sangue di A. Bettik era d’un rosso acceso.
Scrutai le colate di lava e le distese di macigni, cercando uno scintillio degli ultimi raggi di sole su metallo. Poi sarebbe giunto il proiettile del cecchino, o la scarica di plasma. Non l’avremmo udito. Era una magnifica imboscata, proprio da manuale. E io avevo letteralmente pilotato tutti noi per finirci dentro.
Trovai nella sacca la torcia laser, richiusi la sacca e afferrai con i denti la torcia. A tentoni, con la sinistra mi slacciai la cintura e la tirai fuor d’acqua. Rivolsi a Aenea cenni frenetici per indicarle di prendere la pistola.
Sempre appesa col braccio sinistro al mio collo, lei aprì la fondina ed estrasse la pistola. Sapevo che non l’avrebbe mai usata, ma al momento questo non contava: mi serviva la cintura. Ressi col mento la torcia laser e con la sinistra raddrizzai la cintura.
— Bettik! — chiamai.
L’androide guardò dalla nostra parte. I suoi occhi tradivano la sofferenza. — Prendila! — gridai, lanciandogli la cintura di cuoio. Andai a rischio di perdere la torcia laser, ma riuscii ad afferrarla mentre colpiva l’acqua e la tenni stretta nella sinistra.
L’androide non poteva staccare dalla roccia la destra. Non aveva più la sinistra. Ma usò il moncherino sanguinante e il petto per bloccare la cintura. Il lancio era stato perfetto… ma avevo un’unica possibilità, dovevo azzeccarlo.
— Medipac! — gridai, indicando con la testa la sacca che galleggiava dietro di me. — Per ora, laccio emostatico!
Non credo che mi abbia udito, ma non ce n’era bisogno. Si tirò contro la roccia e si sistemò sul lato a monte; poi si legò la cintura intorno al braccio e con i denti la strinse. Non c’era un buco, così vicino alla fibbia, ma A. Bettik con uno scatto della testa strinse la cintura, l’avvolse di nuovo e tornò a stringerla.
Intanto avevo acceso la torcia laser, avevo messo il raggio al massimo di diffusione e lo facevo passare qua e là sopra il fiume.
Il cavo era di monofilo, ma non di monofilo superconduttore. Quest’ultimo non avrebbe brillato. Quello invece luccicò. Una rete di monofili scaldati dal laser, di un rosso smorto, come una quadrettatura di raggi, si estendeva su tutto il fiume. A. Bettik era passato sotto alcuni monofili. Altri sparivano nell’acqua, alla sua destra e a sinistra. I primi erano tesi circa un metro davanti ai piedi di Aenea.
Mossi il raggio, illuminando la zona sopra di noi e all’intorno. Lì niente luccicava. I monofili sopra A. Bettik brillarono per alcuni secondi, il tempo di dissipare il calore, e svanirono come se non fossero mai esistiti. Sventagliai di nuovo il raggio su di essi, riportandoli in esistenza, poi commutai su un raggio più forte. Il monofilo che miravo divenne incandescente, ma non si fuse. Non era superconduttore, ma non sarebbe svanito per la poca energia che potevo riversarvi con una torcia laser.
"Dov’è il cecchino?" pensai. Forse si trattava solo di una trappola passiva. Vecchia di anni. Nessuno in agguato.
Non ci credetti neppure per un secondo. Vedevo A. Bettik reggersi con difficoltà alla roccia: la corrente cercava di portarlo via.
— Merda! — dissi. Infilai nei calzoni la torcia laser e con la sinistra afferrai Aenea. — Reggiti forte.
Con il braccio destro mi tirai più in alto sul masso scivoloso. Era di forma triangolare e molto viscido. M’incuneai nel lato a monte e tirai lì Aenea. La corrente pareva riempirmi di bastonate tutto il corpo. — Ce la fai a reggerti? — gridai.
— Sì! — Aenea era cerea in viso. Aveva i capelli incollati alla testa, escoriazioni sulla guancia e sulla tempia, un livido sul mento, ma nessun segno di ferite gravi.
Le diedi un colpetto sulla spalla, mi assicurai che stringesse bene la roccia e la lasciai. A valle vedevo ancora la zattera, ora tagliata in una decina di parti, rotolare nella curva d’acqua spumeggiante accanto alle scogliere di lava.
Urtando e raschiando il fondo, cercando di stare in piedi, ma spazzato e colpito dalla corrente, riuscii a urtare la roccia di A. Bettik senza far cadere lui e senza farmi portare oltre. Mi afferrai a lui e mi tenni aggrappato, notando che le rocce aguzze e la corrente gli avevano quasi strappato di dosso la camicia. Il sangue colava da una decina di lacerazioni della pelle azzurra, ma io volevo vedere il braccio sinistro. A. Bettik gemette, quando gli tolsi dall’acqua il braccio.
Il laccio emostatico frenava la fuoruscita di sangue, ma non bastava a bloccarla. Il sangue turbinava nell’acqua. Pensai agli squali arcobaleno di Mare Infinitum e rabbrividii.
— Vieni — dissi, quasi sollevandolo, staccandogli dalla roccia la mano gelata. — Ce ne andiamo.
L’acqua mi arrivava solo alla cintola, ma aveva la forza di parecchie manichette antincendio. In qualche modo, malgrado lo choc e la grave perdita di sangue, A. Bettik mi aiutò. I nostri stivali strisciarono le rocce aguzze del letto del fiume.
"Dov’è il cecchino?" mi domandai. Le scapole mi dolevano per la tensione.
La riva più vicina era alla nostra destra: una sporgenza piatta ed erbosa, l’ultimo posto facile da raggiungere, per quel che vedevo a valle del fiume. Un posto invitante. Troppo invitante.
E poi Aenea era ancora aggrappata alla roccia, otto metri più a monte.
Avvinghiati, con il braccio buono di A. Bettik sulla mia spalla, barcollando, procedendo a scatti, per metà nuotammo e per metà strisciammo a monte, mentre l’acqua ci colpiva e ci schizzava il viso. Quando arrivammo alla roccia, ero mezzo cieco. Le dita di Aenea erano livide per il freddo e per lo sforzo.
— La riva! — gridò Aenea, mentre l’aiutavo a reggersi in piedi. Il primo passo ci fece finire in una buca e la corrente batté contro il petto e il collo della bambina, le ricoprì il viso di spuma bianca.
Scossi la testa. — A monte! — gridai e tutt’e tre cominciammo a fare forza contro la corrente, con l’acqua che ci colpiva e ci schizzava ai lati. Solo la mia forza maniacale in quel momento ci tenne in piedi e ci consentì di procedere. Ogni volta che la corrente minacciava di farci cadere e di tirarci sott’acqua, immaginavo d’essere solido come l’Albero Mondo che un tempo si levava a sud, con le radici che correvano in profondità nel letto roccioso. Tenevo d’occhio un tronco caduto, forse venti metri sulla riva destra. Se avessimo potuto ripararci dietro quel tronco… Dovevo applicare a A. Bettik il laccio emostatico del medipac entro qualche minuto, lo sapevo, altrimenti l’androide sarebbe morto. Se ci fossimo fermati lì in mezzo al fiume, avremmo rischiato che la corrente portasse via il medipac, la sacca e tutto il resto. Ma non volevo rimanere esposto su quell’invitante sporgenza erbosa…
"Monofili" pensai. Tolsi dalla cintura la torcia laser e illuminai il fiume a monte. Non c’erano cavi. "Ma potrebbero essere sott’acqua, in attesa di mozzarci le caviglie."
Cercando di tenere a freno la mia immaginazione, trascinai controcorrente me stesso e gli altri. La torcia laser era scivolosa. La stretta di A. Bettik sulla mia spalla diventava sempre più debole. Aenea si teneva avvinghiata al mio braccio sinistro come se fosse la sua unica àncora di salvezza. Era davvero la sua unica àncora.
Avevamo risalito faticosamente meno di dieci metri, quando l’acqua davanti a noi esplose. Rischiai di ruzzolare all’indietro. Aenea andò sotto; la tirai fuori afferrandola freneticamente per la camicia inzuppata. A. Bettik parve accasciarsi contro di me.
Lo Shrike emerse dal fiume proprio davanti a noi, con gli occhi rossi e ardenti, e cominciò ad alzare le braccia.
— Merda santa! — Non so chi di noi gridò quell’imprecazione. Forse tutti e tre.
Ci girammo, guardando tutti da sopra la spalla, mentre le dita munite di lame tranciavano l’aria qualche centimetro dietro di noi.
A. Bettik andò sotto. Lo afferrai per l’ascella e lo tirai fuori. La tentazione di abbandonarmi alla corrente e di correre a valle era fortissima. Aenea inciampò, si rialzò da sola e indicò la riva destra. Le risposi con un cenno e deviammo in quella direzione.
Dietro di noi, lo Shrike rimase al centro del fiume, con le quattro braccia sollevate e dondolanti come la coda di uno scorpione metallico. Quando guardai di nuovo, era scomparso.
Cademmo tutti una decina di volta, prima che i miei piedi toccassero fango e non pietre. Spinsi Aenea sulla riva, poi girai e rotolai A. Bettik sull’erba. L’acqua del fiume rumoreggiava ancora e mi arrivava alla cintola. Non mi presi la briga di uscire, ma gettai sull’erba la sacca, lontano dall’acqua. — Medipac — ansimai, cercando di tirarmi fuori. Quasi non riuscivo a muovere le braccia. La parte inferiore del tronco era insensibile per l’acqua gelida.
Anche Aenea aveva le dita intirizzite… annaspò per aprire la chiusura velcro del medipac e prendere la manica emostatica… ma ci riuscì. A. Bettik aveva perduto conoscenza, mentre Aenea gli applicava i cerotti diagnostici, srotolava la mia cintura e stringeva intorno al moncherino la manica emostatica. La manica sibilò e aumentò la stretta, poi sibilò di nuovo mentre iniettava analgesico o stimolante. Le spie del monitor palpitavano con segnali d’allarme.
Provai di nuovo, riuscii a mettere sulla riva la parte superiore del corpo e mi tirai fuori del fiume. Battevo i denti, mentre dicevo a Aenea: — Dov’è… la… pistola?
La bambina scosse la testa. Batteva anche lei i denti. — Perduta… quando noi… lo Shrike, è spuntato…
Avevo appena la forza per annuire. Il fiume era deserto. — Forse se n’è andato — dissi, serrando le mascelle fra una parola e l’altra. Dov’era la termocoperta? Spazzata a valle, nello zaino. Avevamo perduto tutto ciò che non era nella sacca impermeabile.
Alzai la testa e guardai a valle. L’ultima luce del giorno illuminava la cima degli alberi, ma il canyon era già buio. Una donna scendeva dalle lastre di lava, verso di noi.
Alzai la torcia laser e spostai la leva sul raggio compatto.
— Non useresti su di me quell’affare, vero? — disse la donna, in tono divertito.
Aenea staccò lo sguardo dal monitor diagnostico del medipac e fissò la nuova venuta. La donna indossava un’uniforme nera e cremisi che non avevo mai visto. Non era di corporatura notevole. Aveva capelli corti e scuri; il suo viso era pallido nella luce che ormai svaniva. La sua mano destra, fin sopra il polso, era uno spettacolo assurdo: pareva che qualcuno l’avesse scorticata e vi avesse incastonato ossa in fibra di carbonio.
Aenea cominciò a tremare, non per paura, ma per un’emozione più intensa. Strinse gli occhi e fece una smorfia che avrei definito una via di mezzo tra ferina e intrepida. Strinse il pugno.
La donna rise. — M’aspettavo qualcosa di più interessante — disse. Saltò giù dalla roccia, sull’erba.