Mi chiamo Raul Endymion. Sono nato sul pianeta Hyperion, nell’anno 693 del calendario locale, o nell’a.D. 3099 secondo il conteggio pre-Egira, o ancora, come molti di noi calcolano il tempo nell’era della Pax, 247 anni dopo la Caduta.
Si disse di me, quando viaggiavo con Colei Che Insegna, che fui un pastore: ed è vero. Quasi. La mia famiglia si guadagnava da vivere con la pastorizia itinerante nelle brughiere e nelle praterie delle regioni più remote del continente Aquila, dove fui allevato; e talvolta, da bambino, badavo alle pecore. Ricordo con piacere quelle placide notti sotto il cielo stellato di Hyperion. A sedici anni (secondo il calendario locale) scappai di casa e mi arruolai nella Guardia Nazionale controllata dalla Pax. Ricordo che la maggior parte di quei tre anni fu solo una noiosa routine interrotta dalla spiacevole eccezione dei quattro mesi nei quali fui inviato nell’Artiglio di Ghiaccio per combattere gli indigeni durante la rivolta di Ursa. Congedato dalla Guardia Nazionale, lavorai come buttafuori e croupier di blackjack in uno dei peggiori casinò delle Nove Code; per due piovose stagioni pilotai una chiatta lungo il corso superiore del Kans, e poi lavorai come apprendista dell’architetto di giardini Avrol Hume in alcune tenute del Becco. Ma evidentemente per gli storiografi di Colei Che Insegna, quando si trattò di precisare la precedente occupazione del suo più stretto discepolo, il termine "pastore" suonava meglio. "Pastore" ha un simpatico suono biblico.
Non ho obiezioni alla qualifica di pastore. Ma in questa storia sarò visto come pastore di un gregge formato da una sola, infinitamente importante, pecora. E io, più che trovarla, quella pecora l’ho perduta.
Quando la mia vita cambiò per sempre e questa storia ebbe il suo vero inizio, avevo ventisette anni, ero più alto della media locale, possedevo poche caratteristiche degne di nota, a parte i grossi calli alle mani e l’amore per le idee strampalate, e lavoravo come guida di cacciatori nelle paludi sopra la baia Toschahi, un centinaio di chilometri a nord di Port Romance. A quel punto della mia vita avevo già imparato qualcosa sul sesso e molto sulle armi, avevo scoperto di prima mano la forza dell’avidità negli affari umani, avevo imparato a usare per sopravvivere i pugni e quel po’ d’intelligenza avuto in sorte, ero curioso su moltissime cose ed ero convinto che il resto della vita non m’avrebbe riservato grandi sorprese.
Ero un idiota.
Cos’altro ero nell’autunno di quel mio ventottesimo anno si potrebbe descrivere per la maggior parte in termini negativi. Non ero mai uscito da Hyperion e non immaginavo che un giorno avrei lasciato quel pianeta. Ero stato nelle cattedrali della Chiesa, ovviamente: la Pax aveva esteso la sua influenza civilizzatrice anche nelle remote regioni dove la mia famiglia era fuggita dopo il saccheggio della città di Endymion, un secolo fa… ma non avevo accettato né il catechismo né la croce. Ero stato con delle donne, ma non mi ero mai innamorato. A parte la prima educazione ricevuta da mia nonna, mi ero istruito da solo, sui libri. Ero un lettore vorace. A ventisette anni, pensavo di sapere tutto.
Non sapevo niente.
Così, nei primi giorni d’autunno del mio ventottesimo anno, felice nella mia ignoranza e stolto nella convinzione che niente d’importante sarebbe mai cambiato, commisi l’errore che m’avrebbe fruttato una condanna a morte e che avrebbe dato inizio alla mia vera vita.
Le paludi sopra la baia Toschahi sono pericolose e malsane, immutate da molto prima della Caduta; ma centinaia di ricchi cacciatori, parecchi provenienti da altri pianeti, vi si recano ogni anno a caccia d’anatre. Quasi tutti i proto-germani reali, dopo essere stati rigenerati e messi in libertà dalle astronavi coloniali sette secoli fa, morirono in breve tempo, perché incapaci d’adattarsi al clima di Hyperion o perché uccisi dai predatori indigeni; ma alcuni sopravvissero nelle paludi del centronord di Aquila. Così giunsero i cacciatori. E io facevo da guida.
Eravamo quattro guide e avevamo come base una piantagione abbandonata di fibroplastica, situata in una stretta lingua d’argilla scistosa e di fango tra le paludi e un affluente del Kans. Gli altri tre si occupavano di pesca e di caccia grossa, perciò nella stagione delle anatre avevo tutta per me la piantagione e gran parte delle paludi. Queste ultime erano una zona acquitrinosa semitropicale con fitta vegetazione di chalma, foreste di weir e più modesti boschi di giganteschi prometei nelle zone rocciose sopra le piane inondate; ma nel frizzante inizio dell’autunno, i germani reali si fermavano in quella zona durante la migrazione dalle isole meridionali ai laghi delle remote regioni dell’altopiano Punta d’Ala.
Un’ora e mezzo prima dell’alba svegliai i quattro "cacciatori". Per colazione avevo preparato prosciutto, pane tostato e caffè, ma i quattro, uomini d’affari dal fisico sovrappeso, brontolarono e imprecarono mentre la divoravano. Ricordai loro di controllare e pulire le armi: tre avevano fucili da caccia, il quarto era stato tanto sciocco da portarsi un’antica carabina a energia. Mentre loro brontolavano e s’ingozzavano, andai dietro la baracca e mi sedetti accanto a Izzy, una femmina di Labrador da riporto che avevo preso da cucciolo. Izzy aveva capito che saremmo andati a caccia: l’accarezzai sulla testa e sul collo, in modo che si calmasse.
Quando lasciammo la piantagione invasa d’erbacce e ci allontanammo in una barca a fondo piatto, spuntavano ormai le prime luci. Ragnatelidi radianti svolazzavano nei tunnel bui formati dai rami e sugli alberi. I cacciatori — Rolman, Herrig, Rushomin e Poneascu — sedevano sui banchi di prua, mentre io usavo la pertica per spingere la barca. Izzy e io eravamo separati da loro dal gruppo di botti d’appostamento, ripari mimetici galleggianti la cui base arrotondata mostrava ancora la fibra del guscio di fibroplastica. Rolman e Herrig indossavano costosi poncho di stoffa camaleonte, ma attivarono il polimero solo quando fummo ben dentro l’acquitrino. Mentre ci avvicinavamo alle paludi d’acqua dolce dove si sarebbero posati i germani reali, dissi ai cacciatori di smetterla di parlare a voce così alta. Tutt’e quattro mi guardarono storto, ma abbassarono il tono e dopo un poco si zittirono.
La luce bastava quasi per leggere, quando fermai la barca al limitare della palude da caccia e misi in acqua le botti. M’infilai la tuta impermeabile ed entrai nell’acqua che m’arrivava al petto. Izzy, con occhi accesi, si sporse dalla barca, ma con un gesto le ordinai di non saltare giù e lei, tremando d’eccitazione, tornò a sedersi.
— Mi dia il fucile, per favore — dissi a Poneascu, il più vicino. Quegli imbranati già stentavano a tenersi in equilibrio mentre entravano nelle botti: non mi fidavo che reggessero anche il fucile. Avevo detto di non mettere il colpo in canna e d’inserire la sicura; ma quando Poneascu mi passò il fucile, la spia rossa segnalava che la camera di scoppio era piena e la sicura era disinserita. Tolsi la cartuccia, misi la sicura, infilai il fucile nella sacca impermeabile che portavo sulla schiena e tenni ferma la botte, mentre il massiccio Poneascu scavalcava la bassa murata della barca.
— Torno subito — dissi sottovoce agli altri tre e mi diressi a guado tra le fronde di chalma, rimorchiando la botte. Avrei potuto lasciare che ogni cacciatore spingesse con la pertica la propria botte dove preferiva, ma la palude era costellata di sacche di fanghiglia mobile che avrebbero risucchiato la pertica e chi la manovrava, era popolata di acari-dracula grossi come palloni pieni di sangue che assalivano gli oggetti in movimento lasciandosi cadere dai rami decorati di penzolanti serpenti-nastro che per gli inesperti avevano l’identico aspetto delle fronde di chalma, e pullulava di aguglie guerriere in grado di trapassare un dito. Non mancavano altre sorprese, per chi visitava per la prima volta le paludi. Inoltre l’esperienza m’aveva insegnato che quei cacciatori da strapazzo avrebbero finito per sistemare la propria botte d’appostamento in modo da spararsi l’un l’altro al comparire del primo stormo di germani reali. Toccava a me fare in modo che non accadesse.
Sistemai Poneascu in un cespuglio che l’avrebbe tenuto nascosto pur consentendo una buona visuale del banco fangoso meridionale del più ampio tratto d’acqua aperta, gli indicai dove avrei sistemato le altre botti, gli dissi di guardare dalla feritoia della copertura di tela e di non mettersi a sparare prima che gli altri fossero al loro posto. Sistemai Rushomin a circa venti metri alla destra di Poneascu, trovai per Rolman un buon posto nei pressi della foce dell’immissario e tornai a prendere l’idiota che si era portato la carabina a energia. Il signor Herrig.
Mancava una decina di minuti al sorgere del sole.
— Era ora che si ricordasse di me, crocesanta! — sbottò il grassone, mentre m’avvicinavo a guado. Era già entrato nella botte e si era bagnato i calzoni di stoffa camaleonte. Bolle di metano fra la barca e la foce dell’immissario indicavano la presenza di una grossa sacca di fanghiglia mobile, per cui, quando andavo e tornavo, dovevo tenermi vicino al banco di fango.
— Non la paghiamo per sprecare così il suo tempo, crocesanta! — ringhiò ancora, senza togliersi di bocca il grosso sigaro.
Annuii, gli tolsi di bocca il sigaro acceso e lo tirai lontano dalla sacca di fanghiglia mobile: per nostra fortuna, le bolle di metano non avevano preso fuoco. — Le anatre sentono l’odore del fumo — dissi, senza badare al fatto che era rimasto a bocca aperta e che diventava sempre più rosso.
M’infilai nella cinghia di traino e rimorchiai la botte in piena palude, aprendomi col petto un varco fra le alghe rosse e arancione che dal mio ultimo passaggio avevano già ricoperto la superficie dell’acqua.
Accarezzando la costosa e inutile carabina a energia, Herrig mi lanciò un’occhiata velenosa. — Ragazzo — mi apostrofò — stai attento a come parli o t’insegno io, crocesanta! — Il suo poncho e il giubbotto di stoffa camaleonte non erano ben chiusi, lasciavano scorgere intorno al collo lo scintillio di una doppia croce d’oro della Pax e sul petto il rosso gonfiore del vero e proprio crucimorfo. Herrig era un cristiano rinato.
Rimasi in silenzio e sistemai nel modo dovuto la sua botte, a sinistra dell’immissario. Ora quei quattro esperti potevano sparare verso il centro della palude senza colpirsi l’un l’altro. — Tiri giù il telo e guardi dalla feritoia — dissi, staccando la cinghia di traino e legandola a una radice di chalma.
Herrig emise un borbottio, ma lasciò il telo mimetico arrotolato alle sbarre della cupola.
— Prima di sparare, aspetti che abbia sistemato le anatre da richiamo — soggiunsi. Indicai la posizione degli altri cacciatori. — E non spari verso la foce dell’immissario. Là ci sarò io, sulla barca.
Herrig non rispose.
Scrollai le spalle e tornai alla barca. Izzy era rimasta seduta dove le avevo ordinato di stare, ma dai muscoli tesi e dallo scintillio degli occhi capivo che in spirito saltellava avanti e indietro come un cucciolo. Le accarezzai il collo, senza salire sulla barca. — Ancora qualche minuto, bella — mormorai. Liberata dall’ordine di stare ferma, Izzy corse a prua e io cominciai a rimorchiare la barca verso la foce dell’immissario.
I luminosi ragnatelidi erano scomparsi e in alto svanivano le scie delle piogge di meteoriti, mentre la luce che precede l’alba s’addensava in un lucore latteo. La sinfonia d’insetti e il gracidio delle bande d’anfibi lungo i banchi di fango lasciavano posto ai richiami mattutini degli uccelli e di tanto in tanto al grugnito di un’aguglia che gonfiava la vescica in segno di sfida. A est il cielo cominciava a scurirsi nel color lapislazzuli del pieno giorno.
Tirai la barca al riparo delle fronde, con un gesto ordinai a Izzy di restare a prua e da sotto i banchi tolsi quattro anatre da richiamo. Lungo la riva c’era un sottilissimo strato di ghiaccio, ma il centro della palude era libero; cominciai a sistemare le anatre da richiamo, mettendole in funzione una alla volta. L’acqua m’arrivava sempre al petto.
Tornato alla barca, m’acquattai accanto a Izzy, nascosto dalle fronde. Allora giunsero le anatre vere. Izzy le sentì per prima: s’irrigidì e alzò il naso, come se le fiutasse nel vento. L’attimo dopo si udì il fruscio d’ali. Mi sporsi a scrutare dal fogliame in continuo movimento.
Nel centro della palude le anatre da richiamo nuotavano e col becco si lisciavano le penne. Una inarcò il collo e lanciò il richiamo, proprio mentre i veri germani reali comparivano sopra la linea d’alberi a sud. Tre germani si staccarono dallo stormo, protesero le ali per frenare e scivolarono lungo rotaie invisibili verso la palude.
Provai il brivido che sento sempre in un momento del genere: la gola mi si serra e il cuore accelera i battiti, pare fermarsi per un istante e mi duole realmente. Ho trascorso gran parte della vita in regioni remote, osservando la natura; ma il confronto con una simile bellezza tocca sempre nel mio intimo qualcosa che non ho parole per definire. Accanto a me, Izzy era rigida e immobile come statua d’ebano.
Allora iniziarono gli spari. I tre con la doppietta aprirono subito il fuoco e continuarono con la rapidità con cui riuscivano a espellere le cartucce. La carabina a energia tagliò l’aria sopra la palude, col suo sottile raggio di luce viola chiaramente visibile nella bruma mattutina.
Il primo germano reale fu colpito di sicuro da due o tre rose di pallini: si disintegrò in un’esplosione di penne e d’interiora. Il secondo ripiegò le ali e cadde a piombo, ormai privo d’ogni grazia e bellezza. Il terzo scivolò sulla destra, riprese l’assetto appena prima di toccare l’acqua, batté le ali per risalire. Il raggio d’energia lo seguì, tranciando foglie e rami, simile a una falce silenziosa. Gli spari risuonarono di nuovo, ma il germano parve anticiparli: si tuffò verso la palude, virò a destra, puntò dritto sulla foce dell’immissario.
Dritto su Izzy e su di me.
Volava a non più di due metri dall’acqua. Batteva con forza le ali, deciso a sfuggire ai cacciatori. Capii che voleva passare sotto gli alberi e seguire il corso d’acqua. L’insolito schema di volo aveva portato il germano reale fra le posizioni d’appostamento, ma i quattro cacciatori sparavano ancora.
Con la gamba destra spinsi la barca fuori del nascondiglio tra le fronde. — Cessate il fuoco! — gridai, col tono di comando che avevo acquisito nella breve carriera come sergente della Guardia Nazionale. Due smisero di sparare. Un fucile e la carabina a energia continuarono. Senza la minima esitazione il germano reale oltrepassò la barca, un metro alla nostra sinistra.
Izzy tremò in tutto il corpo e spalancò la bocca, come sorpresa che il germano ci sfiorasse a bassa quota. Il fucile non sparò, ma il raggio viola parve fare una panoramica su di noi nella foschia che cominciava a schiarirsi. Lanciai un grido e spinsi Izzy sul fondo della barca, fra i banchi.
Il germano reale lasciò il tunnel di rami di chalma alle nostre spalle e batté le ali per prendere quota. All’improvviso ci fu puzza d’ozono e una linea di fiamma perfettamente retta frustò la poppa della barca. Mi appiattii sul fondo, afferrai per il collare Izzy e la tirai vicino a me.
Il raggio viola mancò d’un millimetro le mie dita chiuse sul collare. Notai un breve lampo di stupore negli occhi di Izzy; poi il Labrador cercò d’appoggiarmi sul petto la testa, come faceva da cucciolo quando aveva qualcosa da farsi perdonare. Nel movimento, la testa e una parte del collo si staccarono dal resto del corpo e caddero con un lieve tonfo. Stringevo ancora il collare; il corpo di Izzy premeva contro il mio, le sue zampe anteriori tremavano ancora contro il mio petto. Poi il sangue m’inondò, sgorgando a fiotti dalle arterie recise di netto; rotolai da parte, scostando il corpo del cane decapitato e scosso dagli spasmi. Il sangue era caldo e sapeva di rame.
Il raggio d’energia frustò di nuovo l’aria, tagliò un grosso ramo di chalma a un metro dalla barca, svanì come se non fosse mai esistito.
Mi alzai a sedere e guardai il signor Herrig. Il grassone si accendeva un sigaro e teneva di traverso sulle ginocchia la carabina a energia. Il fumo del sigaro si mescolava ai riccioli di nebbia che s’alzavano ancora dalla palude.
Scavalcai la bassa fiancata della barca ed entrai in acqua. Il sangue di Izzy turbinava intorno a me, mentre avanzavo a guado verso il signor Herrig.
Vedendomi arrivare, Herrig alzò la carabina e la tenne contro il petto, nella posizione di portat’arm. — Bene — disse, senza togliersi di bocca il sigaro — si decide a recuperare le anatre che ho colpito oppure ha deciso di lasciarle qui a galleggiare finché non marci…
Con la sinistra afferrai il poncho camaleonte e tirai verso di me il grassone. Herrig cercò d’alzare la carabina, ma con la destra gliela strappai e la gettai lontano nella palude. Allora lui lasciò cadere il sigaro e mi gridò qualcosa; lo tirai via dal sedile, facendolo finire in acqua. Riemerse, sputacchiando alghe. Lo colpii una volta, con forza, in piena bocca. Sentii che le nocche mi si scorticavano: gli avevo spezzato parecchi denti. Herrig ricadde all’indietro; con un tonfo sordo batté la nuca contro l’intelaiatura della botte e finì di nuovo sott’acqua.
Aspettai che sporgesse di nuovo il viso, slavato e grassoccio come il ventre d’un pesce morto; appena lo vidi riemergere, lo spinsi sotto e rimasi a guardare le bolle d’aria che gorgogliavano in superficie, mentre lui agitava le braccia e con i pugni mi colpiva inutilmente i polsi. Nel loro appostamento, gli altri tre cacciatori cominciarono a gridare. Non me ne curai.
Quando le braccia di Herrig ricaddero e il flusso di bolle si ridusse a un debole rivolo, lasciai quell’idiota e arretrai d’un passo. Per un istante pensai che non sarebbe più riemerso, ma poi il grassone schizzò a galla e si aggrappò al bordo della botte. Vomitò acqua e alghe. Gli girai le spalle e andai dagli altri tre.
— Per oggi basta — dissi. — Datemi i fucili. Torniamo indietro.
Tutt’e tre aprirono bocca per protestare, videro il mio sguardo e il viso sporco di sangue, mi diedero i fucili.
— Recuperi il suo amico — dissi all’ultimo, Poneascu. Riportai sulla barca i fucili, li scaricai, li chiusi a chiave nel compartimento impermeabile di prua e portai a poppa le scatole di cartucce. Notai, mentre lo calavo dalla fiancata, che il corpo di Izzy cominciava a irrigidirsi. Il fondo della barca era inzuppato di sangue. Tornai a poppa, misi via le cartucce e aspettai, appoggiato alla pertica.
Alla fine i tre cacciatori arrivarono, movendo goffamente la pagaia per spingere le botti e rimorchiando quella dov’era scompostamente seduto Herrig. Il grassone, livido in viso, era ancora piegato in due contro il bordo. Gli altri tre salirono sulla barca e cercarono di tirare a bordo le botti.
— No, legatele a quella radice di chalma — dissi. — Più tardi verrò a prenderle.
Legarono le botti e cercarono di tirare a bordo Herrig come se fosse un grasso pesce. Gli unici rumori erano il cinguettio e il ronzio che segnavano il risveglio degli uccelli e degli insetti, oltre ai continui conati di vomito di Herrig. Quando anche lui fu a bordo, mentre gli altri borbottavano, seduti, spinsi con la pertica la barca fino alla piantagione; intanto il sole eliminò gli ultimi vapori del mattino che si alzavano dalle acque scure.
E la storia sarebbe dovuta finire lì. Ma, naturalmente, non finì lì.
Preparavo la colazione nella vecchia cucina, quando Herrig uscì dalla baracca dormitorio, impugnando una tozza pistola a dardi dell’esercito. Su Hyperion quell’arma era illegale: la Pax ne vietava l’uso a tutti, esclusa la Guardia Nazionale. Scorgevo il viso livido e cereo degli altri tre che dalla porta del dormitorio guardavano Herrig, annebbiato dai fumi del whisky, avanzare a passo malfermo nella cucina.
Il grassone non seppe resistere all’impulso di pronunciare un breve e melodrammatico discorso, prima di uccidermi. — Tu, crocesanto figlio di puttana… — iniziò. Ma non rimasi a sentire il resto. Mentre lui sparava dal fianco, mi gettai a tuffo.
Seimila fléchettes d’acciaio fecero a pezzi il fornello, la casseruola di stufato ancora sul fuoco, il lavello, la finestra sopra il lavello, gli scaffali e il vasellame sugli scaffali. Cibo, plastica, porcellana e vetro mi piovvero sulle gambe, mentre strisciavo sotto il bancone aperto per afferrare le gambe di Herrig che intanto si sporgeva sul ripiano per innaffiarmi con un’altra scarica di fléchettes.
Afferrai per le caviglie il grassone e tirai. Herrig cadde di schiena, con un tonfo che sollevò dal pavimento di legno tanta di quella polvere da bastare per dieci anni. Gli montai sulle gambe, rifilandogli intanto una ginocchiata all’inguine, e gli afferrai il polso, con l’intenzione di strappargli la pistola. Aveva una salda presa sul calcio e il dito sul grilletto. Il caricatore emise un lieve sibilo e un’altra cartuccia di fléchettes entrò nella camera di scoppio. Sentii sul viso l’alito puzzolente di whisky e di sigaro, mentre Herrig, con una smorfia di trionfo, forzava verso di me la bocca dell’arma. Con un unico movimento urtai col braccio il polso di Herrig e la pesante pistola, spingendola a incastrarsi sotto la sua serie di menti. Per un attimo incrociammo lo sguardo, mentre i suoi sforzi per liberarsi gli facevano completare la pressione sul grilletto.
Spiegai a uno degli altri tre cacciatori come usare la radio tenuta nella stanza comune e nel giro di un’ora sul prato erboso si posò uno skimmer della polizia della Pax. Sul continente c’era solo una decina di skimmer in buone condizioni, per cui la vista del nero velivolo della Pax come minimo faceva rinsavire.
Mi legarono i polsi, mi piantarono alla tempia un persuasore corticale e mi sbatterono nella cella nel retro del velivolo. Rimasi lì, gocciolando sudore per il caldo, mentre gli specialisti di medicina legale, addestrati dalla Pax, usavano una sottile pinzetta nel tentativo di recuperare dal pavimento e dalla parete, tutti bucherellati, ogni frammento del cranio sbriciolato e dei tessuti cerebrali spappolati di Herrig. Poi, interrogati gli altri cacciatori e ritrovato di Herrig quant’era possibile ritrovare, gli agenti caricarono sullo skimmer il cadavere impacchettato, mentre li osservavo dal finestrino di perspex. Le pale di sollevamento gemettero e i ventilatori mi regalarono un soffio d’aria fresca proprio quando pensavo di non riuscire più a respirare; lo skimmer si alzò in volo, girò una volta intorno alla piantagione e puntò a sud, verso Port Romance.
Sei giorni dopo, si tenne il processo. I signori Rolman, Rushomin e Poneascu testimoniarono che durante il viaggio alla palude avevo insultato il signor Herrig e poi l’avevo assalito. Dissero che il mio cane da caccia era rimasto ucciso nella zuffa iniziata da me. Affermarono che, tornati alla piantagione, avevo brandito l’illegale pistola a fléchettes e minacciato di ucciderli tutti. Herrig aveva tentato di strapparmi l’arma. Io gli avevo sparato a bruciapelo, sbriciolandogli letteralmente la testa.
Il signor Herrig fu l’ultimo a testimoniare. Ancora scosso e pallido dopo i tre giorni per la risurrezione, vestito in completo scuro e cappa, confermò con voce incerta la testimonianza degli altri tre e descrisse subito il brutale assalto. Il mio difensore d’ufficio si astenne dal controinterrogarlo. In quanto cristiani rinati in buoni rapporti con la Pax, non fu possibile obbligare gli altri a testimoniare sotto l’influenza della veritina o di altri prodotti chimici o mezzi elettronici di verifica. Mi dichiarai disposto a sottopormi alla veritina o alla scansione totale, ma il pubblico ministero obiettò che quei sistemi erano non pertinenti e il giudice approvato dalla Pax accettò l’obiezione. Il mio avvocato non protestò.
Non c’era giuria. Il giudice impiegò meno di venti minuti per emettere il verdetto. Colpevole, condannato a morte mediante neuroverga.
Mi alzai e chiesi che la sentenza fosse rimandata finché non avessi avvertito mia zia e i miei parenti nel nord Aquila e li avessi visti per l’ultima volta. La richiesta fu respinta. L’esecuzione fu stabilita per il giorno seguente, all’alba.