CAPITOLO NONO DASH IN VISITA A UN PAZIENTE

A Don Kayman la cosa non andava molto a genio, ma non aveva scelta: doveva andare dal sarto. Purtroppo, il suo sarto stava a Merritt Island, in Florida, all’Atlantic Test Center.

Partì in volo, preoccupato, e arrivò preoccupato. Non solo per quanto era accaduto a Roger Torraway. La situazione sembrava sotto controllo, grazie alla Divina Provvidenza, anche se Kayman non poteva fare a meno di pensare che avevano rischiato di perderlo e che qualcuno aveva commesso un errore gravissimo, non preparandolo per quell’ultimo intervento di «semplice chirurgia estetica». Probabilmente, pensò con spirito caritatevole, era accaduto perché Brad stava male. Ma senza dubbio era mancato poco che saltasse l’intero progetto.

L’altra cosa che lo angustiava era l’impossibilità di sottrarsi alla segreta sensazione peccaminosa, la certezza interiore che, in fondo al cuore, egli si era augurato che il progetto saltasse davvero. Aveva trascorso un’ora dolorosa con suor Clotilda quando la probabilità che egli andasse su Marte si era fatta concreta. Dovevano sposarsi prima? No. No. per ragioni pratiche, pragmatiche: sebbene non vi fosse dubbio che entrambi potevano chiedere o ottenere la dispensa da Roma, non vi erano molte speranze che la dispensa arrivasse in meno di sei mesi.

Se avessero fatto domanda prima…

Ma non l’avevano fatto, ed entrambi sapevano di non essere disposti a sposarsi senza la dispensa, e neppure ad andare a letto insieme senza il sacramento. — Almeno, — aveva detto Clotilda, verso la fine del colloquio, — non dovrai temere che io ti tradisca. Se non infrango i voti per te, non credo che lo farei per nessun altro uomo.

— Non ero preoccupato per questo, — aveva detto Kayman: ma adesso, sotto gli azzurri, splendidi cieli della Florida, mentre guardava i balipedi che si levavano fino a raggiungere le soffici nuvole candide, era preoccupato. Il colonnello dell’esercito che si era offerto di fargli da guida si era accorto che qualcosa turbava Kayman, ma non sapeva come diagnosticare quell’inquietudine.

— Non ci sono pericoli, — disse, sondando a casaccio. — Io non mi darei pensiero per l’orbita del rendezvous a bassa iniezione.

Kayman distolse a forza l’attenzione dai suoi pensieri e disse: — Le assicuro che non ero allarmato per questo. Non so neppure che cosa intenda dire.

— Oh. Beh, solo che inseriremo la sua astronave e i due lanci di supporto in un’orbita più bassa del solito: duecentoventi chilometri anziché quattrocento. Per motivi politici, naturalmente. Mi dà un fastidio tremendo quando i burocrati ci dicono quel che dobbiamo fare, ma questa volta in realtà non fa differenza.

Kayman diede un’occhiata all’orologio. Aveva ancora un’ora da far passare prima di tornare per l’ultima prova della tuta spaziale e della tuta marziana, e non ci teneva a trascorrerla angosciandosi. Giudicò esattamente che il colonnello era uno di quegli individui beati che amano parlare soprattutto del loro lavoro, e che dal canto suo non avrebbe dovuto far altro che borbottare qualcosa di tanto in tanto per indurlo a spiegargli tutto ciò che si poteva spiegare. E borbottò.

— Bene, padre Kayman, — disse il colonnello, in tono espansivo, — le daremo una grossa astronave, vede. Troppo grande, anzi, per lanciarla in una volta sola. Perciò mandiamo su tre capsule, e vi incontrerete in orbita… duecentoventi per duecentotrentacinque, ottimale, e immagino che sarà effettivamente così. E poi…

Kayman annuì, ma senza ascoltarlo veramente. Conosceva già a memoria il piano di volo: faceva parte degli ordini che aveva ricevuto. Gli unici quesiti aperti riguardavano l’identità degli altri due occupanti dell’astronave per Marte; ma sarebbe stata questione di pochi giorni, prima che venisse presa una decisione. Uno doveva essere un pilota, che sarebbe rimasto in orbita mentre gli altri tre si stipavano nel modulo marziano e scendevano sulla superficie del pianeta. Il quarto uomo, idealmente, sarebbe dovuto essere qualcuno in grado di fungere come riserva per il pilota, l’areologo e il cyborg: ma naturalmente una persona così non esisteva. Comunque, era tempo di decidere. I tre esseri umani — i tre esseri umani non modificati, si corresse — non avrebbero avuto, come Roger, la capacità di sopravvivere nudi sulla superficie di Marte. Dovevano provare le tute come faceva lui adesso, e poi avrebbero dovuto sottoporsi a un ripasso finale delle procedure, di cui avevano bisogno tutti, persino Roger.

E al lancio mancavano soltanto trentatré giorni.

Il colonnello aveva finito di descrivere le manovre di aggancio e di rimontaggio, e si preparava a delineare, giorno per giorno, il calendario degli eventi di tutti i lunghi mesi del volo verso Marte. Kayman disse: — Aspetti un momento, colonnello. Non avevo capito bene la questione delle considerazioni politiche. Che c’entrano con il modo in cui partiremo?

Il colonnello borbottò risentito. — Accidenti a quei maniaci dell’ecologia, hanno suggestionato tutti. I razzi vettori Texas Twin sono molto grandi. Sviluppano una spinta venti volte superiore a quella di un Saturn. E quindi hanno uno scarico notevole. Più o meno venticinque tonnellate di vapore acqueo al secondo, moltiplicato per tre astronavi… una quantità molto consistente, insomma. E senza dubbio, c’è qualche rischio che… beh, no, siamo giusti, lo sappiamo maledettamente bene… mi scusi, padre… che tutto quel vapore acqueo, alle altitudini normali delle orbite, liquiderebbe gli elettroni liberi in un vasto tratto di cielo. Lo scoprirono parecchio tempo fa, vediamo… mi pare fosse nel ’73 o nel ’74, quando misero in orbita il primo laboratorio spaziale. Liquidarono gli elettroni liberi in un volume di atmosfera che andava dall’Illinois al Labrador, quando venne misurata. E naturalmente sono quelli che impediscono di prendere l’insolazione. Una delle cose, almeno. Contribuiscono a filtrare la radiazione ultravioletta solare. Cancro della pelle, ustioni, distruzione della flora… beh, è tutto vero: potrebbe succedere. Ma non è della nostra gente che si preoccupa Dash! La Nuova Asia Popolare, ecco che cosa lo assilla. Quelli hanno inviato un ultimatum: se il nostro lancio danneggerà i loro cieli, lo considereranno un «atto di ostilità». Un atto di ostilità! E lei come diavolo lo definisce il fatto che loro fanno sfilare cinque sommergibili nucleari al largo di Cape May, New Jersey? Sostengono che si tratta di ricerche oceanografiche, ma non si adoperano i sommergibili anti-incrociatore per l’oceanografia, almeno nella nostra Marina…

«Comunque, — proseguì il colonnello, rivolgendosi all’ospite con un sorriso, — è tutto a posto. Vi metteremo in orbita per il rendez-vous un po’ più in basso, fuori dallo strato di elettroni liberi. Costerà un maggiore quantitativo di carburante. I venti ascensionali causeranno un inquinamento maggiore, secondo me. Ma in questo modo i loro preziosi elettroni liberi resteranno intatti… non che sia probabile che sopravviverebbero al di là dell’Atlantico fino in Africa, tanto meno in Asia…»

— È stato molto interessante parlare con lei, colonnello. disse cerimonioso Kayman, — ma credo che sia ora di tornare indietro.


Le tute da provare erano pronte. — Basta che s’infili quella, per misurare la grandezza. — Il fisioterapista dell’équipe sogghignò. «Infilarsi» la tuta spaziale richiedeva venti minuti di duro lavoro, anche con l’aiuto dell’intera équipe. Kayman insistette per farlo da solo. A bordo dell’astronave non avrebbe avuto un aiuto, come anche il resto dell’equipaggio, e questo avrebbe avuto da fare: e in caso d’emergenza non poteva contare sull’aiuto di nessuno. Kayman voleva essere pronto per casi del genere. Impiegò un’ora, e poi altri dieci minuti per uscire dalla tuta, dopo che gli specialisti ebbero controllato tutti i parametri ed ebbero sentenziato che tutto andava bene. E c’erano anche tutti gli altri indumenti da provare.

Prima che avesse finito, fuori era buio: una calda notte della Florida. Kayman guardò la fila di indumenti distesi sui banchi da lavoro e sorrise. Indicò la fascia che costituiva l’antenna per le comunicazioni e che pendeva da un polso, la cappa antiradiazioni da usare in caso di eruzioni solari, la calzamaglia da indossare sotto le tute. — Mi avete preparato tutto. Quello è il manipolo, quella è la pianeta, quello il mio camice. Aggiungete qualche altro pezzo, e sarò pronto per dir Messa. — In realtà, aveva incluso una serie completa di paramenti nel carico che gli era permesso portare: e aveva gravemente ridotto lo spazio per i libri, le musicassette e i ritratti di suor Clotilda. Ma non se la sentiva di discuterne con quei profani. Si stiracchiò e sospirò. — C’è un ristorante dove si mangia bene, da queste parti? — chiese. — Una bistecca, o magari un po’ di quella tartaruga rossa di cui parlate tanto… e poi vorrei andare a letto…

L’uomo della Militar Police dell’Aeronautica, che stava lì da due ore a guardare l’orologio, si fece avanti e disse: — Mi dispiace, padre, — disse. — La sua presenza è richiesta altrove, e lei dovrà esserci, vediamo, tra venti minuti circa.

— Dove dovrà essere? Domani mi attende un lungo volo…

— Dolente, signore. Ho l’ordine di accompagnarla al Palazzo dell’Amministrazione alla Base Aerea Patrick. Immagino che là le diranno di che si tratta.

Il prete s’irrigidì. — Caporale, — disse, — non sono sotto la sua giurisdizione. Perciò mi dica cosa vuole.

— No, signore, — riconobbe l’uomo. — Lei non è sotto la mia giurisdizione. Ma ho l’ordine di condurla là, signore, e con tutto il dovuto rispetto, lo farò.

Il fisioterapista sfiorò la spalla di Kayman. — Vada. Don, — disse. — Ho l’impressione che lei sia ormai lanciato nelle alte sfere.

Borbottando, Kayman si lasciò condurre fuori e caricare su una hoverjeep. Il pilota aveva una fretta terribile. Non si prese il disturbo di percorrere le strade, ma puntò diritto verso la risacca, calcolò tempo e distanza e sfrecciò sulla superficie dell’oceano, tra le onde. Poi svoltò verso sud, sparatissimo : in dieci secondi raggiunsero una velocità non inferiore ai centocinquanta chilometri orari. Anche con i compressori al massimo e tre metri d’aria tra loro e l’altezza media dell’acqua, il ritmo brusco delle onde che si accavallavano lì sotto costrinse Kayman a deglutire saliva e a cercare un sacchetto impermeabile, in previsione di doversene servire al più presto. Cercò di convincere il caporale a rallentare. — Dolente, signore. — Era l’espressione favorita dell’MP, a quanto pareva.

Comunque, riuscirono a raggiungere la spiaggia alla Base Patrick prima che padre Kayman vomitasse; e ritornato sulla terraferma, il pilota procedette a velocità ragionevole. Il prete scese vacillando e rimase fermo nella notte umida fino a quando altri due MP, avvertiti via radio del suo arrivo, lo scortarono in un edificio bianco.

Prima che fossero trascorsi dieci minuti, Kayman venne spogliato completamente e perquisito, e comprese a quali alte sfere stava in effetti per accedere.


Il jet presidenziale atterrò a Patrick alle quattro in punto. Kayman aveva sonnecchiato su una sdraio, con una coperta buttata sulle gambe. Venne svegliato con una cortese scrollata e condotto verso la scaletta, mentre le autocisterne rifornivano i serbatoi delle ali in uno strano silenzio. Non c’erano conversazioni, né i tonfi dei tubi di bronzo contro i bocchettoni d’alluminio, solo il rombo delle pompe delle autocisterne.

Qualcuno molto importante dormiva. Kayman si augurò con tutto il cuore di poter dormire anche lui. Venne accompagnato ad una poltroncina con lo schienale reclinabile, legato con la cintura di sicurezza e lasciato lì: e prima ancora che la sua hostess-ausiliaria si allontanasse, il jet si mise in modo sulla pista di decollo.

Kayman cercò di appisolarsi, ma mentre il jet stava ancora salendo verso l’altitudine di crociera, il valletto del presidente arrivò ad annunciargli: — Il presidente vuole vederla subito.

Seduto, le guance rasate di fresco intorno alla barbetta a punta, il presidente Deshatine sembrava il ritratto di se stesso dipinto da Gilbert Stuart. Era seduto tranquillo su una poltrona di cuoio, e con gli occhi sfocati guardava dal finestrino del jet presidenziale, mentre ascoltava in cuffia qualcosa registrato su nastro. Una tazza di caffè fumava accanto al suo gomito, e una tazza vuota attendeva accanto alla caffettiera d’argento. Accanto alla tazza c’era una scatola piatta di pelle purpurea, ornata da una croce argentea.

Dash non fece aspettare Kayman. Girò la testa, sorrise, si tolse la cuffia e disse: — La ringrazio per avermi permesso di rapirla, padre Kayman. Si accomodi, prego. Si serva il caffè, se ne vuole.

— Grazie. — Il valletto si precipitò a versare e si ritirò, mettendosi alle spalle di Don Kayman. Il prete non si voltò; sapeva che il valletto avrebbe spiato ogni tremito dei suoi muscoli, perciò evitò i movimenti bruschi.

Il presidente disse: — Nelle ultime quarantotto ore ho girato tanti fusi orari che ho dimenticato com’è veramente il mondo. Monaco, Beirut, Roma. Ho prelevato Vern Scanyon a Roma quando ho sentito delle difficoltà con Roger Torraway. Mi ero spaventato a morte, padre. Per poco non l’avete perduto, vero?

Kayman disse: — Io sono un areologo, signor presidente. Non è stata responsabilità mia.

— Lasci perdere, padre. Non voglio dar la colpa a nessuno: ci sarebbe tanto da dire, volendo. Mi interessa sapere cos’è successo.

— Sono sicuro che il generale Scanyon potrebbe spiegarglielo meglio di me, signor presidente, — disse Kayman, irrigidendosi.

— Se avessi voluto accontentarmi della versione di Vern, — rispose con pazienza il presidente, — non mi sarei fermato per prendere a bordo lei. E lei era presente. Vern non c’era. Era a Roma, alla Conferenza Pacem in Excelsis del Vaticano.

Kayman bevve un sorso di caffè, in fretta. — Beh, è mancato poco. Credo che Torraway non fosse stato informato adeguatamente di quanto stava per accadere, perché c’era un’epidemia di influenza. Eravamo a corto di personale. Brad non c’era.

— Questo era già accaduto, — osservò il presidente.

Kayman si strinse nelle spalle, senza rispondere. — Lo hanno castrato, signor presidente. Quella che i sultani chiamavano castrazione completa, pene e tutto. Torraway non ne ha bisogno, perché nel suo organismo entrano così poche sostanze consumabili che tutto viene escreto analmente, perciò era semplicemente un punto vulnerabile, nient’altro. Non c’è dubbio, l’asportazione era opportuna, signor presidente.

— E la… come la chiamate? Prostatectomia? Anche quello era un punto vulnerabile?

— Dovrebbe chiederlo a uno dei medici, signor presidente, — rispose Kayman. in tono difensivo.

— Lo chiedo a lei. Scanyon ha detto qualcosa a proposito di «mattia dei preti», e lei è un prete.

Don Kayman sogghignò. — È una vecchia espressione, e rìsale ai tempi in cui tutti i preti erano celibi. Ma sì, posso spiegarglielo: ne parlavamo spesso in seminario. La prostata produce fluido… non molto, poche gocce al giorno. Se un uomo non ha eiaculazioni, quasi tutto esce insieme all’orina, ma se è eccitato sessualmente, se ne produce di più, e non tutto esce. Si accumula, e la congestione causa guai.

— Perciò gli hanno asportato la prostata.

— E hanno innestato una capsula di steroidi, signor presidente. Torraway non diventerà effemminato. Fisicamente, ora è un eunuco ben compensato… Oh, volevo dire un’unità ben compensata.

Il presidente annuì. — È quel che chiamano un lapsus freudiano.

Kayman scrollò le spalle.

— E se lei la pensa così, — insistette Deshatine, — cosa diavolo crede che pensi Torraway?

— So che per lui non è facile, signor presidente.

— A quanto ne so, — proseguì Dash, — lei non è soltanto un areologo, Don; è anche consulente matrimoniale. E non va molto bene, vero? Quella sgualdrinella della moglie di Torraway sta facendo soffrire il nostro ragazzo.

— Dorrie ha molti problemi.

— No. Dorrie ha un problema. Lo stesso problema che abbiamo tutti. Sta affossando il nostro progetto marziano, e non possiamo permettere che questo avvenga. Lei può rimetterla in carreggiata?

— No.

— Beh, non pretendo che la renda perfetta. Avanti, Don! Voglio dire, non può metterla un po’ tranquilla, almeno quanto basta perché Torraway non abbia altri traumi? Non so, dargli un bacio e una promessa, mandargli una lettera d’amore per San Valentino quando lui sarà su Marte… Dio sa che Torraway non pretende di più, ormai. Ma a questo ha diritto.

— Posso tentare, — disse Kayman, poco convinto.

— E ho intenzione di parlare anche con Brad, — fece torvo il presidente. — L’ho detto a lei, l’ho detto a tutti, questo progetto deve realizzarsi. Non mi interessa se qualcuno ha il raffreddore di testa o se qualcun’altra ha le mutandine che scottano. Io voglio Torraway su Marte, e voglio che ci vada contento.

L’aereo virò per cambiare rotta, allontanandosi dal traffico intorno a New Orleans, e un baluginio di sole mattutino brillò sulla superficie oleosa del Golfo. Il presidente socchiuse gli occhi, guardandolo irritato. — Padre, mi permetta di dirle quello che penso. Sono convinto che Roger preferirebbe piangere sua moglie morta in un incidente di macchina piuttosto di doversi preoccupare di quello che lei può combinare quando non lo ha intorno. Non mi piace pensare queste cose. Ma ho poche possibilità di scelta, Kayman, e sono costretto a scegliere il male minore. E adesso, — aggiunse, con un sorriso inatteso, — ho qualcosa per lei, da parte di Sua Santità. È un dono: lo guardi.

Stupito, Kayman aprì la scatola purpurea. Conteneva un rosario, annidato sul velluto purpureo nell’astuccio di pelle. I grani delle Avemaria erano d’avorio, intagliati in forma di boccioli di rosa; quelli del Paternoster erano di cristallo intarsiato. — Ha una storia interessante, — spiegò il presidente. — Fu inviato a Ignazio Loyola da una delle sue missioni in Giappone, e poi rimase in Sud America per duecento anni con le… come dite, voi? … le Riduzioni del Paraguay? È un autentico pezzo da museo, ma Sua Santità ha voluto donarlo a lei.

— Non… non so cosa dire, — balbettò Kayman.

— E il papa l’ha benedetto. — Il presidente si appoggiò alla spalliera: sembrava invecchiato di colpo. — Lo usi nelle sue preghiere, padre, — disse. — Io non sono cattolico. Non so cosa pensi lei di queste cose. Ma le chiedo di pregare perché Dorrie Torraway metta la testa a posto quanto basta per tener tranquillo per un po’ suo marito. E se non servirà a niente, allora lei farà meglio a pregare per tutti noi.


Quando ritornò nella cabina principale, Kayman si legò con la cintura di sicurezza al sedile e si impose di dormire per l’ora di volo che ancora restava prima dell’arrivo a Tonka. Lo sfinimento ebbe la meglio sulla preoccupazione, ed egli si assopì. Non era il solo a preoccuparsi. Noi non avevamo valutato esattamente il trauma che Roger Torraway avrebbe subito per l’asportazione dei genitali, e per poco non l’avevamo perduto.

Era una disfunzione critica. Non si poteva correre di nuovo un simile rischio. Avevamo già organizzato un’assistenza psichiatrica per Roger; e a Rochester il computer portatile veniva provveduto di nuovi circuiti, per sorvegliare le tensioni psichiche e per reagire prima che le sinapsi umane di Roger, più lente, potessero causare convulsioni.

La situazione mondiale si evolveva secondo le previsioni. New York City era naturalmente in preda ai disordini, nel Medio Oriente la pressione si accumulava rischiando di saltare, e la Nuova Asia Popolare lanciava furiosi appelli denunciando il massacro dei calamari del Pacifico. Il pianeta si andava avvicinando rapidamente alla massa critica. Secondo le nostre proiezioni, il futuro della razza era in dubbio, sulla Terra, di lì a due anni. Noi non potevamo permetterlo. Lo sbarco su Marte doveva riuscire.


Quando Roger uscì dallo stordimento, dopo la crisi, non si rese conto di essere stato sul punto di morire: si rese conto soltanto di essere stato ferito in tutte le sue parti più sensibili. Era la desolazione: la desolazione più squallida e disperata. Non soltanto aveva perso Dorrie; aveva perduto la sua virilità. La sofferenza era troppo grande per alleviarla con il pianto, anche se egli avesse potuto piangere. Era il tormento di un intervento dentistico senza anestesia, così acuto che non costituiva più un avvertimento, ma solo un fattore ambientale, qualcosa da subire e sopportare.

La porta si aprì, ed entrò un’infermiera nuova. — Salve. Vedo che è sveglio.

Si avvicinò e gli posò le dita tepide sulla fronte. Sono Sulie Carpenter, — disse. — In realtà il mio nome è Susan Lee, ma mi chiamano Sulie. — Ritrasse la mano e sorrise. — Lei pensa che dovrei saperne abbastanza per non cercare di sentire se ha la febbre, vero? So già che figura sui monitor, ma penso di essere una ragazza all’antica.

Torraway la udiva appena: era assorto a guardarla. Era uno scherzo dei circuiti mediatori? Alta, con gli occhi verdi e i capelli scuri: somigliava tanto a Dorrie che egli tentò di cambiare il campo visivo dei grandi occhi d’insetto, zumando sui pori della pelle spruzzata di lentiggini, alterando il valore dei colori, riducendo la sensibilità, in modo che lei sembrasse svanire in un crepuscolo. Tutto inutile. Somigliava egualmente a Dorrie.

Sulie si mosse per controllare i monitor a muro. — Va davvero molto bene, colonnello Torraway, — disse, girando la testa. — Tra poco le porterò il pranzo. Vuole qualcosa, adesso?

Roger si scosse e si rialzò a sedere: — Niente che io possa avere, — disse amaramente.

— Oh, no, colonnello! — Gli occhi della donna erano sgomenti. — Voglio dire… beh, mi scusi. Non ho il diritto di parlarle così. Ma santo Dio, colonnello, se al mondo c’è qualcuno che può avere tutto ciò che desidera, quello è lei!

— Vorrei pensarla così anch’io, — borbottò Roger; ma la osservava attentamente, curiosamente, e sentiva qualcosa… qualcosa che non riusciva a identificare, ma che non era la sofferenza da cui era stato travolto solo pochi istanti prima.

Sulie Carpenter diede un’occhiata al suo orologio, poi accostò una sedia. — Mi sembra giù di corda, colonnello, — disse in tono comprensivo. — Capisco che tutto questo sia difficile da accettare.

Roger distolse lo sguardo verso le grandi ali nere che ondeggiavano lentamente sopra la sua testa. Poi disse: — Ha i suoi lati brutti, mi creda. Ma sapevo che cosa mi aspettava.

Sulie annuì. Poi disse: — lo ho sofferto molto quando il mio… il mio fidanzato morì. Naturalmente, non ha niente a che vedere con ciò che fa lei. Ma in un certo senso, forse, era peggio… vede, era così assurdo. Un giorno stavamo bene, e parlavamo di sposarci. Il giorno dopo, lui tornò dopo essere stato dal medico e risultò che i suoi mali di testa erano… — Sulie trasse un profondo respiro. — Un tumore al cervello. Maligno. Tre mesi dopo era morto, e io non riuscivo a farmene una ragione. Dovevo andarmene da Oakland. Feci domanda di venir trasferita qui. Non avevo mai sperato di riuscirci, ma penso che siano ancora a corto di personale per colpa dell’influenza…

— Mi dispiace, — disse in fretta Roger.

La giovane donna sorrise. — Non importa, — disse. — Ma c’era un posto vuoto, nella mia vita, e sono veramente lieta di avere la possibilità di colmarlo, qui. — Diede un’altra occhiata all’orologio e balzò in piedi. — La capoinfermiera se la prenderà con me, — disse. — Ora senta, davvero, c’è qualcosa che io possa procurarle? Libri? Musica? Ha tutto il mondo ai suoi comandi, sa, me compresa.

— Non voglio nulla, — disse Roger, sinceramente. — Comunque grazie. Come mai ha scelto di venir qui?

La giovane donna lo guardò pensosa e incurvò gli angoli delle labbra in un lieve sorriso. — Beh, — disse, — sapevo qualcosa del programma in fase di realizzazione qui: in California sono stata per dieci anni nella medicina aerospaziale. E sapevo chi era lei, colonnello Torraway. Se lo sapevo? Tenevo il suo ritratto appeso in camera mia, quando lei salvò i russi. Non potrebbe neppure credere la parte che lei aveva in alcune delle mie fantasie, colonnello Torraway.

Sorrise e si avviò, soffermandosi sulla porta. — Mi farebbe un favore?

Roger era sorpreso. — Sicuro. Quale?

— Ecco, vorrei avere una foto più recente. Lei sa come sono, qui, quelli del servizio sicurezza. Se io porto qui dentro una macchina fotografica, posso scattarle un’istantanea? Così avrò qualcosa da mostrare ai miei nipoti, se mai li avrò.

Roger protestò: — Se la scoprono l’ammazzano, Sulie.

Lei strizzò l’occhio. — Correrò il rischio; ne vale la pena. Grazie.

Quando Sulie fu uscita, Roger si sforzò di pensare di nuovo alla castrazione e al tradimento: ma, inspiegabilmente, sembravano meno strazianti. Del resto, non ebbe molto tempo per pensarci. Sulie entrò portandogli un pranzo a basso residuo, un sorriso e la promessa di tornare il mattino dopo. Clara Bly gli praticò un enema, e poi Roger rimase disteso a stupirsi mentre tre uomini identici, dai baffi chiari, entravano e ripassavano ogni centimetro quadrato del pavimento, delle pareti e dei mobili con detector di metalli e rivelatori elettronici. Erano degli sconosciuti: e rimasero nella stanza, piantati su sedie portate apposta, silenziosi e attenti, mentre entrava Brad.

Brad aveva l’aria non solo sofferente, ma anche molto preoccupata. — Ciao, Roger, — disse. — Gesù, che spavento ci hai fatto prendere. È colpa mia; avrei dovuto avvertirti, ma questa maledetta influenza…

— Sono sopravvissuto, — disse Roger, studiando la faccia piuttosto normale di Brad e chiedendosi perché non provava sdegno e risentimento.

— Per un po’ ti daremo parecchio da fare, — cominciò Brad, accostando una sedia. — Abbiamo escluso alcuni dei tuoi circuiti mediatori, per il momento. Quando funzioneranno di nuovo a pieno ritmo dovremo limitare i tuoi input sensoriali… dovrai abituarti ad affrontare un ambiente totale un po’ alla volta. E Kathleen non vede l’ora di cominciare a riaddestrarti… sai, imparare ad usare i muscoli e tutto il resto. — Si voltò a lanciare un’occhiata ai tre astanti silenziosi. La sua espressione, pensò Roger, era improvvisamente piena di paura.

— Credo di essere pronto, — disse Roger.

— Oh, sicuro, lo so, — disse Brad, sorpreso. — Non ti hanno riferito i dati più aggiornati delle tue letture? Funzioni come un orologio a diciassette rubini, Roger. Tutti gli interventi chirurgici sono finiti. Hai tutto ciò che ti serve. — Si rilassò un po’ sulla sedia, scrutandolo. — Se posso dirlo, — proseguì, con un sorriso, — tu sei un’opera d’arte e io sono l’artista, Roger. Vorrei tanto poterti vedere su Marte: quello è il tuo posto, ragazzo mio.

Uno dei tre si schiarì la gola. — È quasi arrivato il momento, dottor Bradley.

L’espressione preoccupata riapparve sulla faccia di Brad. — Vado subito. Stammi bene, Rog. Torno a trovarti più tardi.

Brad uscì, e i tre agenti del governo lo seguirono, mentre Clara Bly entrava per riordinare la stanza.

Il mistero si schiarì all’improvviso. — Dash viene a trovarmi, — indovinò Roger.

— Bene! — fece un po’ stizzita Clara. — Bene, penso sia giusto che tu lo sappia. Ma non pensavano che fosse giusto che lo sapessi io. Credono che sia un segreto. Ma che razza di segreto è, quando mettono sottosopra l’intero ospedale? Hanno piazzato quei tipi dappertutto, prima che io prendessi servizio.

— Quando arriverà? — chiese Roger.

— Questo è l’unico vero segreto. Per me, almeno.

Ma il segreto non durò a lungo; dopo un’ora, al suono di un «Saluto alla bandiera» che non si udiva ma che tutti sentivano fortemente, il presidente degli Stati Uniti entrò nella stanza. Con lui c’era il valletto che l’aveva servito a bordo dell’aereo presidenziale: ma questa volta era chiaro che non si trattava di un valletto, bensì di una guardia del corpo.

— È meraviglioso rivederla, — disse il presidente, tendendo la mano. Non aveva mai visto la versione riveduta e corretta dell’astronauta, e certamente la pelle lucida, i grandi occhi sfaccettati e le ali fluttuanti dovevano apparirgli strani: ma la faccia ben disciplinata del presidente esprimeva soltanto amicizia e piacere. — Ho fatto una sosta, poco fa, per salutare la sua cara moglie, Dorrie. Spero mi abbia perdonato di averle fatto rovinare lo smalto delle unghie il mese scorso: ho dimenticato di chiederlo. Ma lei come si sente?

Roger si sentiva stupito, ancora una volta, del fatto che il presidente fosse al corrente di tutto, ma disse soltanto: — Molto bene, signor presidente.

Dash inclinò la testa verso la guardia del corpo, senza guardarla. — John, hai il pacchetto per il colonnello Torraway? È un regalo che Dorrie mi ha pregato di consegnarle: potrà aprirlo quando ce ne saremo andati. — La guardia del corpo depose sul comodino un pacco avvolto nella carta bianca e, quasi nello stesso istante, spinse avanti una sedia per il presidente, proprio mentre questi accennava a sedersi. — Roger, — disse Deshatine, assestandosi le pieghe dei calzoncini Bermuda, — so di poter essere sincero con lei. Lei è tutto ciò di cui disponiamo, adesso, e ci è indispensabile. Gli indici peggiorano di giorno in giorno. Gli asiatici vanno in cerca di guai, e non so per quanto tempo potrò evitare di accontentarli. Dobbiamo farla arrivare su Marte, e quando sarà là, lei dovrà funzionare perfettamente. Non so dirle fino a che punto questo è importante.

Roger disse: — Credo di capirlo, signore.

— Beh, in un certo senso, immagino lo capisca. Ma lo capisce con tutto il suo. essere? Sente davvero, fin nel profondo delle sue viscere, di essere l’uomo che ad ogni generazione diventa tanto importante per la razza umana che persino nella sua mente ciò che gli accade non ha altrettanta importanza? Ebbene, quell’uomo è lei, Roger. Io so, — proseguì il presidente, in tono addolorato, — che si sono prese terribili libertà con la sua persona. Non le hanno dato la possibilità di dire sì, no o forse. Non l’hanno neppure avvertita. È un modo schifoso di trattare un essere umano qualsiasi, peggio ancora qualcuno che conta quanto lei, e quanto lei meritevole. Ho detto il fatto loro a parecchi, qui dentro, proprio per questo. E sarei felice di continuare. Se lei lo vuole, me lo dica. In qualunque momento. È meglio che provveda io… non vorrei, con quei muscoli d’acciaio che le hanno dato, che lei cominciasse a prendere a calci un po’ tutti, magari rovinando ì graziosi sederini delle infermiere. Le dispiace se fumo?

— Cosa? Oh, diavolo, no certo, signor presidente.

— Grazie. — Il valletto porse con una mano un portasigarette aperto e con l’altro l’accendino già splendente, non appena il presidente fece un cenno. Poi questi trasse una profonda boccata e si appoggiò alla spalliera della sedia. — Roger, — disse, — mi consenta di confidarle una mia fantasia su ciò che forse lei sta pensando. Lei pensa: «Ecco qui il vecchio Dash, politicante fino alle ossa, che sciorina retorica e promesse, e cerca di convincermi a tirargli fuori le castagne dal fuoco. Sarebbe disposto a dire qualunque cosa, a promettere qualunque cosa. Vuole solo tutto ciò che può ottenere da me.» Ci sono andato abbastanza vicino, finora?

— Ma… no, signor presidente! Beh… un po’.

Il presidente annuì. — Sarebbe pazzo, se non la pensasse così, — disse apertamente. — È tutto vero, sa. Fino a un certo punto. È vero che sarei disposto a prometterle qualunque cosa, a dirle tutte le bugie che mi venissero in mente, pur di mandarla su Marte. Ma è vera anche un’altra cosa: lei ci tiene tutti in pugno, Roger. Abbiamo bisogno di lei. Scoppierà presto una guerra se non facciamo qualcosa per impedirlo: ed è assurdo, ma le proiezioni delle tendenze dimostrano che l’unica cosa per impedirlo è mandare lei su Marte. Non mi domandi perché. Io mi baso su ciò che mi dicono i tecnici, e costoro affermano che i risultati elaborati dai computer sono questi.

Le ali di Roger si agitavano inquiete, ma gli occhi erano fissi sul presidente.

— Quindi, vede, — disse pesantemente Deshatine, — io mi autonomino suo dipendente, Roger. Mi dica cosa vuole. E io farò in modo che lei lo abbia. Può alzare quel ricevitore in qualunque momento, giorno o notte: la metteranno in comunicazione con me. Se dormo, può svegliarmi, se crede. Se si tratta di qualcosa che può attendere, mi lasci un messaggio. Qui dentro nessuno le farà più scherzi, e se mai avesse il sospetto che questo succeda, me lo dica e io interverrò. Cristo, — disse, sorridendo ampiamente e alzandosi, — sa cosa diranno di me i libri di storia? «Fitz-James Deshatine, 1943-2026, quarantaduesimo presidente degli Stati Uniti. Durante la sua amministrazione la razza umana fondò la prima colonia autosufficiente su un altro pianeta.» È tutto quello che otterrò, Roger, ammesso che ci riesca… e lei è l’unico che può darmelo.

«Bene, — prosegui, avviandosi verso la porta, — mi aspettano alla conferenza dei governatori a Palm Spring. Mi aspettano da sei ore, ma ho pensato che lei fosse molto più importante. Dia un bacio a Dorrie per me. E mi telefoni. Se non ha nulla di cui lamentarsi, mi chiami per salutarmi. Quando vuole.»

E se ne andò, seguito dallo sguardo stupefatto dell’astronauta.

Prendila come vuoi, rifletté Roger, è stata veramente una scena spettacolosa. Si sentiva sgomento e compiaciuto. Anche tenendo conto che il 99 per cento era retorica, quel che restava era estremamente gratificante.

La porta si aprì ed entrò Sulie Carpenter, un po’ spaventata. Aveva in mano una foto incorniciata. — Non sapevo che avesse simili amicizie, — disse. — Questa la vuole?

Era una foto del presidente, con la dedica: «A Roger, dal suo ammiratore Dash.»

— Credo di sì, — disse Roger. — Può appenderla da qualche parte?

— È sempre possibile, quando si tratta di una foto di Dash, — rispose la donna. — Ha un marchingegno autoadesivo. Va bene qui? — Premette il ritratto contro la parete, vicino alla porta, e fece un passo indietro per ammirarla. Poi si girò, strizzò l’occhio e tirò fuori dal camice una macchina fotografica, nera e piatta, grande quanto un pacchetto di sigarette. — Guardi l’uccellino, — disse, e scattò. — Non mi farà la spia? Okay. Adesso devo andare… non sono in servizio, adesso, ma volevo venire a darle un’occhiata.

Roger si abbandonò sui cuscini e intrecciò le mani sul petto. Gli sviluppi della situazione erano piuttosto interessanti. Non aveva dimenticato la sofferenza interiore causata dalla scoperta della castrazione, e non aveva scacciato Dorrie dalla propria mente. Ma né l’una cosa né l’altra veniva più percepita come sofferenza. C’erano troppi pensieri nuovi e più piacevoli.

Pensare a Dorrie gli fece ricordare il dono che lei gli aveva inviato. Aprì il pacco. Conteneva una coppa di ceramica dai colori del grano, ornata da una cornucopia di frutti. Il biglietto diceva: «Questo è un modo per dirti che ti amo». Era firmato Dorrie.


Tutti i dati relativi a Torraway adesso erano stabili, e noi ci stavamo preparando a mettere in fase i circuiti mediatori.

Questa volta Roger venne debitamente informato. Brad era sempre con lui… dopo essersi preso una parte delle sfuriate del presidente, era tutto serietà e diligenza. Incaricammo una squadra di sovrintendere alla mesa in fase dei circuiti mediatori, e un’altra di occuparsi dello scambio di dati tra il 3070 di Tonka e il nuovo computer portatile che si trovava a Rochester, nello Stato di New York. Il Texas e l’Oklahoma, proprio allora, stavano attraversando uno dei loro brownouts periodici, il che complicava tutte le manipolazioni dei dati; e gli esseri umani dello staff erano ancora afflitti dai postumi dell’influenza. Eravamo decisamente a corto di effettivi.

E poi, ci occorreva ben altro. Il computer portatile era classificato attendibile al 99,999999999 per cento in ogni suo componente, ma aveva qualcosa come 108 componenti. C’erano rinforzi adeguati, e una intera panoplia di circuiti a cross-input: e anche se tre o quattro subsistemi principali avessero fatto cilecca, sarebbe rimasta comunque un’efficienza adeguata per permettere a Roger di tirare avanti. Ma non bastava. Le analisi indicavano che c’era una possibilità su dieci di un guasto critico entro un mezzo anno marziano.

Perciò venne presa la decisione di costruire, lanciare e mettere in orbita intorno a Marte un 3070 di grandezza regolare, riproducendo in triplicato tutte le funzioni del computer portatile. Non sarebbe stato utile quanto il portatile. Se questi si fosse guastato totalmente, Roger avrebbe avuto l’uso dell’orbiter solo per il cinquanta per cento del tempo… quando l’orbita lo portava al di sopra dell’orizzonte e gli permetteva di collegarsi con lui via radio. Nella peggiore delle ipotesi vi sarebbe stato un ritardo di un centesimo di secondo, ed era tollerabile. Inoltre, Roger avrebbe dovuto rimanere all’aperto, oppure mantenere il collegamento per mezzo di un’antenna esterna.

C’era un’altra ragione che giustificava l’orbiter di appoggio: era l’alto rischio di interferenze. Tanto il 3070 in orbita che il portatile erano pesantemente schermati. Tuttavia, al lancio, dovevano attraversare le fasce di Van Allen, e per tutto il volo sarebbero stati investiti dal vento solare. Quando fossero giunti nelle vicinanze di Marte, il vento solare si sarebbe ridotto a un livello abbastanza basso da venir considerato sopportabile… tranne nel caso di eruzioni. Le particelle cariche di un’eruzione solare potevano facilmente scombinare un numero sufficiente di dati, in uno dei due computer, da danneggiarne le funzioni in modo critico. Il portatile a zaino non sarebbe stato in grado di difendersi. Il 3070, d’altra parte, aveva una capacità di riserva sufficiente per continuare la sorveglianza e le riparazioni interne. Nei momenti d’ozio — e ve ne sarebbero stati molti, per il 90 per cento delle sue funzioni, anche quando lo avrebbe usato Roger — avrebbe comparato i dati in ciascuna delle sue triplici organizzazioni. Se un dato differiva dal dato corrispondente dell’altra organizzazione, controllava la compatibilità rispetto agli altri dati: se tutti i dati erano compatibili, esaminava tutte e tre le organizzazioni e faceva in modo che il bit aberrante si conformasse agli altri due. Se gli aberranti erano due, controllava con il computer portatile, se era possibile.

Era tutta la ridondanza che potevamo permetterci: ma era già tanto. In complesso, eravamo molto soddisfatti.

Certo, il 3070 orbitante avrebbe richiesto parecchia energia. Calcolammo il probabile assorbimento massimo in confronto al peggior caso probabile di rifornimento, garantito da ogni possibile serie ragionevole di pannelli solari, e concludemmo che il margine era troppo scarso. Perciò Raytheon ricevette l’ordinazione urgente per uno dei suoi generatori MHD, e delle squadre si misero al lavoro per modificarlo e metterlo in grado di sopportare il lancio e di funzionare automaticamente in orbita intorno a Marte. Quando il 3070 e il generatore MHD fossero arrivati in orbita, si sarebbero collegati tra loro. Il generatore avrebbe fornito tutta l’energia necessaria al computer, pur serbandone una quantità sufficiente per trasmettere a mezzo di microonde il surplus utile a Roger, sulla superficie di Marte: ed egli avrebbe potuto servirsene sia per alimentare nel modo più opportuno le proprie parti meccaniche, sia per tutto l’equipaggiamento a energia che intendesse installare.

Non appena completammo tutti i piani, non riuscimmo a capire come avevamo potuto pensare di farne a meno, all’inizio. Quelli furono giorni felici. Noi chiedevamo, e ricevevamo tutto il necessario, tutti i rinforzi che ci occorrevano. Tulsa rimase senza illuminazione, per due notti la settimana, perché noi potessimo disporre delle riserve d’energia indispensabili, e i Jet Propulsion Laboratories furono costretti a cedere al nostro progetto l’intero staff di specialisti di medicina spaziale.

La trasmissione dei dati procedeva. Parecchie interferenze si inseguivano allegramente nei due nuovi computer, il portatile di Rochester e il 3070 duplicato che era stato spedito in tutta fretta a Merrit Island. Ma noi le identificammo, le isolammo, le correggemmo, e senza sgarrare dalla tabella di marcia.

Fuori, naturalmente, il mondo non era altrettanto idilliaco.

Servendosi di una bomba al plutonio fabbricata artigianalmente con il materiale rubato al reattore autofertilizzante di Carmarthen, i nazionalisti gallesi avevano fatto saltare la caserma di Hyde Park e quasi tutto Knightsbridge. In California, le Cascade Mountains erano divorate da fiamme incontrollabili: gli elicotteri del servizio antincendio non potevano alzarsi in volo per mancanza di carburante. Una terribile epidemia di vaiolo aveva spopolato Poona e a Bombay era già sfuggita ai tentativi di arginarla; altri casi vennero segnalati da Madras a Delhi, via via che quanti erano in buone condizioni fuggivano per sottrarsi all’epidemia. Gli australiani avevano ordinato la mobilitazione generale, la Nuova Asia Popolare aveva chiesto una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e Città del Capo era in stato d’assedio.

Tutto andava come avevano predetto i grafici. Noi ne eravamo al corrente; e continuavamo il nostro lavoro. Quando una infermiera o un tecnico trovava il tempo di preoccuparsi, veniva rassicurato dagli ordini presidenziali. Su tutti i tabelloni dei giornali murali e in quasi tutti gli uffici e i laboratori, faceva bella mostra di sé una frase di Dash:


Voi pensate a Roger Torraway, e al resto del mondo penserò io.

Fitz-James Deshatine


Noi non avevamo bisogno di venire rassicurati: sapevamo quanto fosse importante quel lavoro. La sopravvivenza della nostra razza dipendeva dalla sua riuscita. Di fronte a questo, nient’altro aveva importanza.


Roger si svegliò nell’oscurità assoluta.

Aveva sognato, e per un momento il sogno e la realtà si mescolarono bizzarramente. Aveva sognato qualcosa che era avvenuto molto tempo prima, quando lui e Dorrie e Brad erano andati in macchina fino al lago Texoma, insieme ad alcuni amici proprie tari di una barca a vela: e la sera avevano cantato, accompagnati dalla chitarra di Brad, mentre una luna enorme sorgeva sull’acqua. Gli pareva di udire ancora la voce di Brad… ma ascoltò più attentamente, mentre il suo cervello si liberava dalle nebbie del sonno, e non udì nulla.

Non c’era nulla. Questo era strano. Nessun suono, neppure il ronzio ed i ticchettii dei monitor telemetrici lungo la parete, neppure un brusio dal corridoio. Per quanto si sforzasse, con tutta la sensibilità potenziata delle orec.chie nuove, non captò il minimo suono. E non c’era neppure luce. Di nessun colore, in nessun luogo, a parte alcuni riflessi rossi, molto fiochi, irradiati dal suo stesso corpo, e un bagliore altrettanto smorzato che proveniva dallo zoccolo della stanza.

Si mosse, irrequieto, e scoprì di essere legato al letto.

Per un momento, il terrore gli dilagò nella mente: prigioniero, indifeso, solo. Lo avevano spento? Avevano disattivato di proposito i suoi sensi? Che cosa era accaduto?

Un filo di voce, vicino al suo orecchio: — Roger? Sono Brad. Gli indicatori mostrano che sei sveglio.

Il sollievo fu soverchiante. — Sì, — riuscì a dire. — Cosa succede?

— Ti abbiamo creato un ambiente a privazione sensoriale. A parte la mia voce, riesci a udire qualcosa?

— Neppure un suono, — rispose Roger. — Niente di niente.

— E la luce?

Roger riferì che riusciva a scorgere solo la fioca luminosità del calore. — È tutto.

— Benissimo, — disse Brad. — Dunque ecco di che si tratta, Roger. Ti faremo lavorare con il tuo nuovo sensorio, un po’ per volta. Suoni semplici. Semplici disegni. Abbiamo sistemato un proiettore di diapositive attraverso la parete, sopra la testata del tuo letto, e uno schermo accanto alla porta: tu non lo puoi vedere, naturalmente, ma c’è. Ora… aspetta un momento. Kathleeen ti vuol parlare.

Lievi suoni d’attrito, fruscii, e poi la voce di Kathleen Doughty. — Roger, questa testa di cavolo di Brad ha dimenticato una cosa importante. La privazione sensoriale è pericolosa, lo sai.

— L’ho sentito dire, — ammise Roger.

— Secondo gli esperti, la cosa peggiore è il sentirsi impotenti di farla cessare. Perciò, appena cominci a sentirti fuori posto, non hai che da parlare: qui ci sarà sempre uno di noi, e risponderemo. Ci sarà Brad, o Sulie Carpenter, o Clara, oppure ci sarò io.

— Adesso ci siete tutti?

— Cristo, sì… più Don Kayman e il generale Scanyon e, cribbio, metà dello staff. Non ti mancherà certo la compagnia, Roger, questo te lo assicuro. E adesso dimmi, la mia voce ti dà fastidio?

Roger rifletté. — No, direi. Quando parli, sembri una porta che cigola, — rispose.

— Molto male.

— Non credo. Parli quasi sempre allo stesso modo, Kathleen.

La Doughty ridacchiò. — Beh, tanto fra un attimo smetterò di parlare. E la voce di Brad?

— Non ho notato niente. O almeno, non ne sono sicuro. Stavo sognando, e per un momento mi è parso che cantasse Aura Lee, accompagnandosi con la chitarra.

Brad intervenne. — Questo è interessante, Roger! E adesso?

— No, adesso parli normalmente.

— Bene, le indicazioni sono positive. Tutto bene. Ne riparleremo dopo. Ora, ti daremo puri e semplici input visuali. Come ti ha detto Kathleen, tu puoi parlare con chiunque di noi quando vorrai, e noi ti risponderemo. Ma per un po’ noi non parleremo molto. Lascia che i circuiti visivi si adattino, prima che creiamo una confusione con vista e udito simultanei, chiaro?

— Fate pure, — rispose Roger.

Non vi fu risposta, ma dopo un momento un pallido punto luminoso apparve sulla parete di fondo.

Non era brillante. Con i suoi occhi naturali, immaginò Roger, non sarebbe stato neppure in grado di vederlo; ma adesso poteva distinguerlo chiaramente, e persino nell’aria filtrata e purificata della stanza d’ospedale, riusciva a scorgere il fioco raggio di luce che andava dal proiettore alla parete, al di sopra della sua testa.

Per molto tempo non accadde altro.

Roger attese, con tutta la pazienza di cui era capace.

Trascorse altro tempo.

Finalmente disse: — Bene, lo vedo. È un punto. È da parecchio che lo osservo, ed è sempre un punto. Ho notato, — disse, girando la testa, — che riflette abbastanza luce da permettermi di vedere un po’ il resto della stanza, ma questo è tutto.

La voce di Brad echeggiò come un tuono. — Okay, Roger, aspetta e ti daremo qualcosa d’altro.

— Ehi! — esclamò Roger. — Non così forte, okay?

— Non parlavo più forte di prima, — obiettò Brad. E infatti la sua voce si era ridotta a proporzioni normali.

— Okay, okay, — borbottò Roger. Cominciava ad annoiarsi. Dopo un momento apparve un altro punto luminoso, a pochi centimetri dal primo. Rimasero così a lungo, e poi una linea luminosa apparve di colpo tra l’uno e l’altro.

— È molto noioso, — protestò Roger.

— Deve esserlo. — Questa volta era la voce di Clara Bly.

— Salve, — la salutò Roger. — Senti. Adesso vedo bene, con tutta la luce che mi date. Cosa sono tutti i fili che mi avete appiccicato addosso?

Intervenne Brad: — I tuoi sistemi telemetrici, Roger. È per questo che abbiamo dovuto legarti, perché non ti girassi e non imbrogliassi i fili. È tutto su telecomando, adesso, sai. Abbiamo dovuto portar via quasi tutto dalla tua stanza.

— Me ne sono accorto. Va bene, continuate pure.

Ma era tedioso, e tedioso rimase. Non era quel tipo di cose ideate per tener sveglia la mente. Potevano essere importanti, ma erano anche noiose. Dopo una successione interminabile di semplici figure geometriche luminose, a intensità ridotta perché vi fossero meno riflessi per illuminare il resto della stanza, cominciarono a trasmettergli dei suoni: ticchettii, i bip di un oscillatore, una campanella, un sibilo.

Nell’altra stanza, i turni si succedevano. Si fermavano soltanto quando la telemetria indicava che Roger aveva bisogno di sonno, di cibo o della padella. Non erano esigenze frequenti. Roger cominciò a capire chi era di turno, grazie a segni piccolissimi: la sfumatura lievemente beffarda che si sentiva nella voce di Brad solo quando era presente Kathleen Doughty, il trillo più lento, quasi affettuoso dei nastri sonori quando era Sulie Carpenter a controllare le reazioni. Roger scoprì che il suo senso del tempo non era identico a quello degli altri, o a quello della «realtà», qualunque cosa fosse la «realtà». — Era prevedibile, Rog, — disse la voce stanca di Brad, quando glielo disse. — Se ti impegni, scoprirai che puoi controllarlo con la volontà. Puoi scandire i secondi come un metronomo, se vuoi. Oppure muoverti più rapidamente o più rapidamente, a seconda delle necessità.

— E come posso fare? — domandò Roger.

— Diavolo! — insorse Brad. — Il corpo è tuo, impara a servirtene. — Poi, in tono di scusa: — Come hai imparato a bloccare il senso della vista. Prova a sperimentare, fino a quando trovi il sistema. E adesso fai attenzione: sto per trasmetterti una partita di Bach.

In un modo o nell’altro, il tempo passò.

Ma non passò facilmente né rapidamente. Vi erano lunghi periodi in cui il senso alterato del tempo trascinava all’infinito la noia anziché abbreviarla, e momenti in cui, contro la sua volontà, Roger si accorgeva di pensare ancora a Dorrie. L’euforia che gli aveva comunicato la visita di Dash, le premure e l’affetto di Sulie Carpenter… erano cose bellissime; ma non duravano in eterno. Dorrie era una realtà nelle sue fantasticherie, e quando la sua mente era abbastanza vuota per vagabondare, ritornava a Dorrie. Dorrie e i loro primi anni spensierati. Dorrie, e la terribile certezza di non essere più un uomo, di non poter soddisfare le sue esigenze sessuali. Dorrie e Brad…

La voce di Kathleen Doughty scattò: — Non so cosa diavolo tu stia combinando, Roger, ma manda a catafascio tutti i tuoi indici vitali. Piantala.

— Sta bene, — borbottò lui. Scacciò Dorrie dalla sua mente. Pensò alla voce di Kathleen, piena di rancore e d’affetto, a ciò che aveva detto il presidente, a Sulie Carpenter. Si mise tranquillo.

Per ricompensarlo gli mostrarono la diapositiva di un mazzo di violette, a colori.

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