Roger non poteva vedere la dolce pioggia di energia a microonde che scendeva da Deimos, ma la percepiva come un piacevole tepore. Quando era vicino, spiegava le ali, assorbendo nuova forza. Quando era fuori dal raggio, ne portava con sé una parte, negli accumulatori. Non aveva motivo di accumularne altra, adesso. Nuova energia scendeva dal cielo ogni volta che Deimos si trovava sopra l’orizzonte. Vi erano solo poche ore al giorno in cui nel cielo non vi erano né il sole né la più lontana delle due lune, e la sua capacità accumulata era più che sufficiente per quei brevi periodi di astinenza.
Dentro le cupole, naturalmente, le antenne di sottilissime lastre metalliche rubavano l’energia prima che giungesse a Roger, e perciò egli limitava il tempo che vi trascorreva insieme a Brad e a Kayman. Non gli dispiaceva affatto. Preferiva così. Ogni giorno, del resto, l’abisso tra loro si allargava. Brad e Kayman sarebbero ritornati al loro pianeta: Roger sarebbe rimasto sul suo. Questo non lo aveva ancora annunciato, ma ormai era deciso. La Terra cominciava a sembrargli un posto simpatico, bizzarro ed estraneo, che un tempo aveva visitato ma che non gli era piaciuto molto. Le sofferenze ed i pericoli dell’umanità terrestre non lo riguardavano più. Neppure quando erano state le sue sofferenze e le sue paure.
Dentro la cupola Brad, che portava indosso un paio di slip e una bombola d’ossigeno, piantava allegramente pianticelle di carote tra i filari di avena siberiana. — Vuoi darmi una mano, Rog? — La voce era alta e acuta nell’atmosfera rarefatta: spesso traeva boccate di ossigeno dal boccaglio appeso vicino al suo mento; e allora, quando espirava, la sua voce era un poco più profonda, ma sempre strana.
— No. Don vuole che gli raccolga altri campioni. Starò fuori tutta la notte.
— Sta bene. — A Brad interessavano di più le sue pianticelle, e Torraway non s’interessava più di Brad. Talvolta ricordava che quell’uomo era stato l’amante di sua moglie, ma per provare una sensazione al riguardo doveva ricordare a se stesso di aver avuto una moglie. Gli pareva che non ne valesse la pena. Erano molto più interessanti l’alta valle concava, al di là della più lontana catena di montagne, e il suo campicello personale. Ormai da settimane portava a Don Kayman esemplari di forme viventi marziane. Non erano abbondanti: magari due o tre insieme, e poi nient’altro per centinaia di metri tutto intorno. Ma non era difficile trovarli… non per lui. Non appena aveva imparato a riconoscere il loro speciale colore — le lunghezze d’onda ultraviolette, riflesse dalle calotte cristalline per permettere la sopravvivenza in quell’aspro ambiente di radiazioni — istintivamente filtrava la propria gamma visiva, per vedere soltanto il colore di quella lunghezza d’onda, e allora spiccavano anche a un chilometro di distanza.
Perciò ne aveva portati una dozzina, e poi un centinaio; sembrava che appartenessero a quattro varietà distinte, e non passò molto tempo prima che Kayman gli dicesse di smetterla. Il prete aveva tutti i campioni che gli occorrevano per studiarli, e un’altra mezza dozzina d’ogni varietà conservata in formalina, per portarli sulla Terra; e la sua anima mite provava rimorso al pensiero di alterare l’ecologia di Marte. Roger cominciò a trapiantare alcuni esemplari nei pressi della cupola. Diceva a se stesso che lo faceva per vedere se l’energia trasmessa dal generatore danneggiava in qualche modo le forme di vita indigene.
Ma in fondo al cuore sapeva bene che in realtà si dedicava al giardinaggio. Era il suo pianeta, e cercava di abbellirlo per se stesso.
Uscì dalla cupola, si stiracchiò beato per un momento nel duplice tepore del sole e delle microonde e controllò le batterie. Sarebbe stato meglio caricarle un po’: con destrezza, innestò i cavi nello zaino e nell’accumulatore ronzante alla base della cupola e, senza guardare in direzione del modulo, disse: — Sto per decollare, Don.
Subito la voce di Kayman rispose via radio. — Mettiti in contatto con noi almeno ogni due ore, Roger. Non voglio essere costretto a venirti a cercare.
— Tu ti preoccupi troppo, — disse Roger, staccando i cavi e riponendoli.
— Sei soltanto sovrumano, — borbottò Kayman. — Non sei Dio. Potresti cadere, romperti qualcosa…
— Non succederà niente. Brad? Arrivederci.
All’interno della triplice cupola, Brad alzò la testa dagli steli di grano che gli arrivavano alle ascelle e agitò le braccia in segno di saluto. Era impossibile scorgere il suo volto attraverso le pellicole delle cupole; la plastica era stata ideata in modo da escludere gran parte delle radiazioni ultraviolette, e confondeva un po’ anche alcune lunghezze d’onda della luce visibile. Ma Roger vide quel saluto. — Sii prudente. Chiamaci prima di sparire dalla linea della visuale, così sapremo quando dovremo cominciare a preoccuparci.
— Sì, mammina. Era strano, rifletté Roger. Si sentiva veramente affezionato a Brad. La situazione lo interessava come problema astratto. Forse perché era un castrato? Nel suo organismo circolava il testosterone: a questo provvedeva la capsula di steroidi che gli avevano innestato. I suoi sogni erano talvolta sessuali; talvolta sognava Dorrie; ma la disperazione e la rabbia che l’avevano assillato sulla Terra, su Marte si erano attenuate.
Era già a un chilometro dalla cupola, e correva in scioltezza nella luce tepida del sole: ad ogni passo posava il piede esattamente dove avrebbe trovato terreno solido, ogni spinta lo portava esattamente in alto e in avanti, come lui voleva. La vista era regolata sulla sorveglianza a bassa energia, e assorbiva tutto in una forma mobile a goccia: la punta era dov’egli si trovava, e il lobo, del diametro di cinquanta metri, era cento metri più avanti di lui. Roger non era ignaro del resto del paesaggio. Se fosse comparso qualcosa d’insolito, e soprattutto se si fosse mosso qualcosa, l’avrebbe visto immediatamente. Ma ciò non lo distraeva dalle sue riflessioni. Tentò di ricordare le sensazioni che gli aveva dato fare l’amore con Dorrie. Non era difficile rammentare i parametri fisici, oggettivi. Era molto più difficile sentire ciò che aveva provato a letto con lei. Era come cercare di rammentare la gioia sensuale di un cioccolatino quando lui aveva undici anni, o il suo primo «viaggio» con la marijuana quando ne aveva quindici. Era più facile provare qualcosa per Sulie Carpenter, sebbene, a quanto ricordava, non avesse mai toccato altro che le punte delle dita di lei, e soltanto per caso. (Naturalmente, Sulie aveva toccato tutte le parti di lui.) Di tanto in tanto, Roger aveva pensato all’imminente arrivo di Sulie su Marte. All’inizio gli era sembrata una minaccia. Poi era diventato interessante, un cambiamento da attendere con ansia. Adesso… Adesso, pensò Roger, voleva che avvenisse presto, non tra quattro giorni, quando lei sarebbe atterrata, dopo che il suo pilota avesse completato i collaudi in situ con il 3070 e il generatore MHD. Presto. Si erano scambiati qualche parola via radio. Ma la voleva più vicina. Voleva toccarla…
L’immagine di sua moglie si formò davanti a lui: portava lo stesso monotono prendisole. — È meglio che ti metta in contatto radio, tesoro, — disse lei.
Roger si fermò e si guardò intorno, regolando la vista sullo spettro normale terrestre.
Aveva percorso quasi metà della distanza tra la cupola e le montagne: una decina abbondante di chilometri. Il percorso era in salita, e il terreno, di pianeggiante che era, si era fatto ondulato: Roger riusciva appena a scorgere la parte superiore della cupola, e la punta delle antenne del modulo era una minuscola spiga, più oltre. Senza l’intervento della volontà, le ali si spiegarono dietro di lui per rendere più direzionale il suo segnale radio, così come un uomo si farebbe portavoce con le mani intorno alla bocca. — Tutto bene, — disse, e la voce di Don Kayman gli rispose, dentro la sua testa: — Magnifico, Roger. Fra tre ore sarà buio.
— Lo so. — E quando scendeva l’oscurità, la temperatura precipitava: tra sei ore avrebbe potuto raggiungere i centocinquanta gradi sotto zero. Ma Roger era rimasto fuori al buio altre volte, e tutti i suoi sistemi avevano funzionato splendidamente. — Ti richiamerò ancora quando sarò abbastanza in alto su un pendio per mettermi in contatto, — promise. Si voltò e riprese a dirigersi verso le montagne. L’atmosfera era più caliginosa. Roger controllò i suoi ricettori epidermici e si rese conto che s’era levato il vento, e si andava rinforzando. Una tempesta di sabbia? Era sopravvissuto anche a quelle; se fosse diventata minacciosa, si sarebbe raggomitolato come un riccio da qualche parte, in attesa che cessasse. Ma doveva essere una tempesta davvero terribile, perché questo si rendesse necessario. Sogghignò tra sé — non aveva imparato bene a farlo con la sua nuova faccia — e procedette a grandi balzi…
Al tramonto era all’ombra delle montagne, e già abbastanza in alto per vedere chiaramente la cupola, a più di venti chilometri.
La tempesta di sabbia infuriava sotto di lui, ormai, e sembrava si allontanasse. Roger si era fermato due volte per qualche istante e aveva atteso, con le ali ripiegate. Ma era stata soltanto una precauzione; la tempesta non gli aveva mai dato molto fastidio. Spiegò le ali dietro di sé e disse, via radio: — Don Brad? Qui è il vostro vagabondo a rapporto.
La risposta dentro alla sua testa, quando arrivò, era gracchiante e distorta, una sensazione spiacevole, come strofinarsi sui denti un pezzo di carta vetrata. — Il tuo segnale è pessimo, Rog. Va tutto bene?
— Sicuro. — Ma Roger esitò. Le scariche causate dalla tempesta erano abbastanza forti e in un primo momento non avrebbe saputo dire con certezza quale dei due compagni gli avesse parlato. Solo dopo qualche istante aveva identificato la voce di Brad. — Forse adesso tornerò indietro, — annunciò.
L’altra voce, ancora più distorta: — Se lo farai, Roger, renderai felice un vecchio prete. Vuoi che ti veniamo incontro?
— No, diavolo. Posso muovermi più in fretta di voi. Andate a dormire: ci vediamo fra quattro o cinque ore.
Roger chiacchierò ancora per qualche istante, poi sedette e si guardò intorno. Non era stanco. Aveva quasi dimenticato cosa si prova quando si è stanchi; la notte, di solito, dormiva un’ora o due, e di tanto in tanto dormicchiava durante il giorno, più per noia che per stanchezza. La sua parte organica imponeva ancora certe esigenze al suo metabolismo, ma la stanchezza schiacciante dello sforzo prolungato non apparteneva più alla sua esperienza. Si era seduto perché gli piaceva mettersi tranquillo su uno spuntone di roccia e guardare la valle che era casa sua. La lunga ombra delle montagne aveva già superato la cupola, e soltanto i picchi, da quella parte, erano ancora illuminati. Roger poteva vedere il limite della luce: l’atmosfera rarefatta di Marte non diffondeva molto l’ombra. Quasi riusciva a vederlo muoversi.
Il cielo, lassù, era bellissimo e splendente. Era abbastanza facile vedere le stelle più luminose anche durante il giorno, specialmente per Roger: ma di notte erano fantastiche. Riusciva a distinguere chiaramente i diversi colori: Sirio azzurra come l’acciaio, la sanguigna Aldebaran, l’oro affumicato della stella Polare. Espandendo lo spettro visibile nell’infrarosso e nell’ultravioletto, egli poteva vedere nuove fulgide stelle di cui non conosceva i nomi: e forse non avevano neppure nomi comuni, poiché eccettuato lui le avevano viste soltanto gli astronomi, servendosi di lastre speciali. Pensò alla questione dell’assegnazione dei nomi: se era l’unico che poteva vedere quella chiazza luminosa, là nella costellazione di Orione, aveva anche il diritto di battezzarla? Qualcuno avrebbe trovato da ridire se l’avesse chiamata «Stella di Sulie»?
Del resto, egli poteva vedere quello che, per il momento, era la stella di Sulie… o il corpo celeste di Sulie. Deimos non era una stella, naturalmente. Alzò lo sguardo verso la piccola luna, e si divertì a. immaginare il viso di Sulie…
— ROGER, TESORO…
Torraway balzò in piedi, e atterrò un metro più in là. L’urlo, dentro alla sua testa, era stato assordante. Era vero? Non poteva saperlo. Le voci di Brad e di Don Kayman e quella simulata di sua moglie risuonavano egualmente familiari, dentro di lui. Non sapeva neppure con certezza di chi fosse… di Dorrie? Ma lui aveva pensato a Sulie Carpenter, e la voce era così bizzarramente alterata che poteva essere di entrambe, o di nessuna delle due.
Poi non vi furono suoni, eccettuati i ticchettii, i cigolii e gli stridii che salivano dalle rocce, via via che la crosta marziana reagiva al rapido abbassamento della temperatura. Roger non sentiva il freddo come freddo: il suo impianto di riscaldamento interno manteneva a temperatura costante la sua parte sensibile, e avrebbe continuato a farlo senza difficoltà durante tutta la notte. Ma sapeva che adesso erano almeno cinquanta gradi sotto zero.
Un’altra esplosione: — ROG… CREDO CHE DOVRESTI…
Sebbene ora egli fosse sull’avviso, quel grido rauco fu doloroso. Stavolta scorse una rapida, fuggevole visione dell’immagine simulata di Dorrie, librata bizzarramente nel nulla, all’altezza di una dozzina di metri.
L’addestramento ebbe la meglio. Roger si girò verso la cupola lontana, o almeno dove credeva che fosse, spiegò le ali dietro di sé e disse chiaramente: — Don! Brad! C’è qualcosa che non funziona. Ricevo un segnale ma non riesco a leggerlo.
— ROGER!
Era di nuovo Dorrie, dieci volte più grande del naturale: torreggiava sopra di lui, e sul suo volto c’era una smorfia di collera e di paura. Sembrò tendere le braccia verso di lui; poi si piegò stranamente da un lato, come un’immagine televisiva che guizza via dal tubo catodico, e sparì.
Roger provò una strana sofferenza, cercò di scacciarla pensando che fosse paura, la provò di nuovo e si accorse che era freddo. C’era qualcosa che non andava affatto. — Mayday! — gridò. — Don! Sono nei guai… aiutatemi! — Le lontane montagne scure parvero ondeggiare lentamente. Roger alzò gli occhi. Le stelle diventavano liquide e sgocciolavano dal cielo.
Nel sogno di Don Kayman, egli era seduto insieme a suor Clotilda su alcuni cuscini davanti a una cascata, e tutti e due mangiavano spugne. Non finte spugne di zucchero: spugne da cucina, intinte in una specie di fondue. Clotilda lo avvertiva del pericolo. — Ci scacceranno, — diceva, tagliando un quadratino di spugna e infilzandolo su una forchetta d’argento a due punte, — perché tu hai avuto un brutto voto nelle omelie… E intingeva il pezzetto di spugna nel tegamino a fondo di rame sul fornelletto ad alcool. — E devi assolutamente svegliarti…
Don Kayman si svegliò.
Brad era chino su di lui. — Andiamo, Don. Dobbiamo andare.
— Cosa succede? — Kayman si tirò sul petto il sacco a pelo, con la mano illesa.
— Non riesco a ottenere una risposta da Roger. Non risponde. Gli ho trasmesso un segnale d’emergenza. Poi mi è sembrato di sentirlo alla radio, ma molto debole. O è fuori dalla linea di visuale, oppure la sua trasmittente non funziona.
Kayman si trascinò fuori dal sacco a pelo e si mise a sedere. In quei momenti, appena si svegliava, il braccio gli faceva più male del solito: anche adesso. Cercò di non pensarci. — Hai la posizione?
— Solo quella di tre ore fa. In quest’ultima trasmissione non ci sono riuscito.
— Non può essere molto lontano. — Kayman stava già infilando le gambe nella tuta pressurizzata. Poi venne la parte più difficile: cercare di inserire delicatamente nella manica l’avambraccio fratturato. Insieme, i due uomini riuscirono ad allargare un po’ la manica, sigillando l’inizio d’una lacerazione. Ma riuscirono a malapena: non sarebbe stato facile neppure nelle condizioni migliori. Adesso, poiché cercavano di affrettarsi, era un’impresa esasperante.
Brad aveva già addosso la tuta e gettava in un sacco strumenti e utensili. — Prevedi di dover eseguire un’operazione di emergenza là fuori? — domandò Kayman.
Brad fece una smorfia e continuò il suo lavoro. — Non so cosa dovrò fare. È notte alta, Don, e Roger è almeno a una quota di cinquecento metri. Fa freddo.
Kayman si azzitti. Quando riuscì a chiudere la tuta, Brad aveva già lasciato il modulo da diversi minuti e aspettava al volante della jeep marziana. Kayman si issò a bordo faticosamente, e il veicolo si mosse prima che egli avesse la possibilità di agganciarsi la cintura di sicurezza. Riuscì a tenersi saldo con i tacchi e il braccio che non poteva piegare, mentre si allacciava con l’altra mano, ma faticò parecchio. — Hai idea di dove si trovi? — domandò.
— Tra le montagne, da qualche parte, — disse la voce di Brad al suo orecchio. Kayman rabbrividì e abbassò il volume della radio.
— Forse a due ore da qui, — disse, calcolando in fretta.
— Se si è già mosso per tornare indietro, può darsi. Se non si può muovere… o se si aggira da quelle parti, e dobbiamo cercare di rintracciarlo con il RDF… — La voce tacque. — Penso che non abbia difficoltà con la temperatura, — riprese Brad dopo un minuto. — Ma non so. Non so cosa sia successo.
Kayman guardava davanti a sé. Oltre il vivido campo luminoso del faro del veicolo, non si vedeva nulla: solo che la distesa lucente delle stelle era interrotta all’orizzonte, come l’orlo frastagliato di una sottocoppa. Là c’era la catena di montagne. Kayman sapeva che Brad la usava come riferimento: mirando sempre al punto più basso sotto il doppio picco al nord e quello altissimo un po’ più a sud. La fulgida Aldebaran in quel momento splendeva al di sopra della vetta più alta: sarebbe stata di per sé un buon punto di riferimento, almeno fino a quando fosse tramontata, di lì a un’ora circa.
Kayman attivò l’antenna del veicolo. — Roger, — disse, alzando la voce, sebbene sapesse che questo non cambiava nulla. — Mi senti? Ti stiamo venendo incontro.
Non ci fu risposta. Kayman si abbandonò sul sedile anatomico, nella speranza di attutire i sussulti del veicolo. Era già abbastanza tremendo correre sulle ruote a canestro sopra la parte più pianeggiante del terreno. Quando incominciarono la scalata, servendosi delle zampe a trampolo della jeep, il prete temette di venire sbalzato fuori, nonostante la cintura di sicurezza, ed ebbe la certezza che come minimo avrebbe vomitato. Davanti a lui, il raggio sobbalzante del faro faceva spiccare una duna, uno spuntone roccioso, talvolta riflettendo una lama di luce da una superficie cristallina. — Brad, — disse, — quella luce non ti fa impazzire? Perché non usi il radar?
Udì un respiro convulso attraverso la radio, come se Brad si fosse trattenuto a stento dall’imprecare contro di lui. Poi il suo compagno tese la mano verso i comandi inseriti sul piantone del volante. Il pannello azzurrognolo situato sotto lo schermo antisabbia si accese, rivelando il terreno davanti a loro: il faro si spense. Adesso era più facile scorgere il contorno nero delle montagne.
Trenta minuti. Al massimo, potevano aver coperto un terzo del percorso.
— Roger, — chiamò di nuovo Kayman. — Mi senti? Stiamo arrivando. Quando saremo abbastanza vicini, ti inquadreremo sul radar. Ma se puoi, rispondi subito…
Non vi fu risposta.
Una lampada all’argon, grande come un chicco di riso, cominciò a lampeggiare rapidamente sul cruscotto. I due uomini si guardarono, attraverso i vetri dei caschi, e poi Kayman si tese e fece scattare la radio sul canale dell’orbita. — Qui Kayman, — disse.
— Padre Kayman? Che succede, laggiù?
Era una voce femminile, il che significava, naturalmente, che si trattava di Sulie Carpenter. Kayman scelse con cautela le parole: — Roger ha qualche difficoltà di trasmissione. Andiamo a controllare.
— Sembra che sia qualcosa di peggio. Ho ascoltato, mentre cercavate di mettervi in comunicazione con lui. — Kayman non rispose, e la voce proseguì: — Noi l’abbiamo localizzato, se volete le coordinate?…
— Sì! — urlò il prete, infuriandosi con se stesso; avrebbe dovuto pensare subito al RDF di Deimos. Sarebbe stato facile, per Sulie o per i due astronauti in orbita, guidarli verso l’obiettivo.
— Coordinate tre poppa uno sette, due due zebra quattro zero. Ma si muove. Orientamento circa otto nove, velocità circa dodici chilometri orari.
Brad controllò la loro rotta e disse: — Stiamo andando diritti verso di lui. È reciproco: Roger viene verso di noi.
— Ma perché tanto lentamente? — domandò Kayman.
Dopo un secondo, giunse la voce della ragazza: — È quel che voglio sapere. È ferito?
Kayman ribatté irritato: — Non lo sappiamo. Hai tentato a metterti in contatto radio?
— Parecchie volte… un momento. — Una pausa, e poi di nuovo la voce: — Dinty mi dice di riferirvi che ve lo terrà localizzato finché potrà, ma stiamo arrivando a una posizione sfavorevole. Perciò non farei conto sulle nostre posizioni dopo… come? Forse altri quarantacinque minuti. E dopo altri venti minuti saremo completamente al di sotto dell’orizzonte.
Brad disse: — Fate tutto il possibile. Don. Tienti forte. Voglio vedere che velocità può raggiungere questo catorcio.
Gli scossoni del veicolo triplicarono, quando Brad accelerò. Kayman riuscì a non vomitare dentro il casco, e si tese in avanti per studiare il tachimetro. La registrazione del percorso sulla mappa a striscia, accanto allo schermo radar, diceva il resto: anche se fossero riusciti a mantenere quella velocità, Deimos sarebbe tramontato prima che potessero raggiungere Roger Torraway.
Kayman attivò di nuovo l’antenna direzionale. — Roger, — chiamò. — Mi senti? Rispondi!
Trenta chilometri più oltre, Roger era prigioniero entro il proprio corpo.
Secondo le sue percezioni, correva veloce verso casa, con una strana andatura rapidissima. Sapeva che le sue percezioni erano errate. Non sapeva quanto; non sapeva come; ma sapeva che il fratello sulle sue spalle aveva alterato il suo senso del tempo e le interpretazioni degli input sensoriali; e ciò che sapeva con maggiore certezza era che non era più in grado di controllare quanto gli accadeva. L’andatura, ne era intellettualmente certo, era un passo lento e faticoso. Ma aveva la sensazione di correre. Il paesaggio fluiva rapidamente intorno a lui, secondo le sue percezioni, come se egli stesse correndo. Ma la velocità massima si raggiungeva con grandi balzi, e invece i suoi piedi non si staccavano mai contemporaneamente dal suolo. Conclusione: lui camminava, ma il computer a zaino aveva rallentato il suo senso del tempo, probabilmente per farlo restare ragionevolmente tranquillo.
Ma se era così, non era riuscito nell’intento.
Quando il fratello portatile aveva assunto il comando era stato terrificante. Prima Roger si era alzato in piedi, bloccato; non poteva muoversi, non poteva neppure parlare. Tutto intorno a lui il cielo nero era increspato dai guizzi dell’aurora boreale, il suolo ondulava incerto come le ondate di calore che salgono da un deserto; immagini fantasma apparivano e scomparivano alla sua vista. Roger non poteva credere a ciò che gli dicevano i suoi sensi, e non poteva piegare neppure un dito. Poi sentì le proprie mani tendersi dietro di lui, palpare e seguire le giunture, dove le ali si saldavano alle scapole, cercare i cavi che portavano alle batterie. Un’altra pausa pietrificata. Poi ancora, le sue dita che tastavano intorno ai terminali del computer. Ne sapeva abbastanza per capire che il computer controllava se stesso: ma non sapeva cosa scoprisse, né cosa potesse fare, una volta individuato il guasto. Un’altra pausa. Poi Roger sentì le proprie dita frugare le prese dove egli inseriva i cavi per la ricarica…
Un dolore violento lo colpì, come il mal di testa più orrendo, come una mazzata. Durò solo un momento, e poi spari, lasciando solo un immenso, lontano lampo di folgore. Roger non aveva mai provato nulla di simile. Sapeva che le sue dita raschiavano delicatamente e abilmente i terminali. Vi fu un’altra fitta di dolore quando, apparentemente, le sue dita crearono un corto circuito momentaneo.
Poi sentì se stesso chiudere lo sportello, e si accorse che aveva dimenticato di farlo quando si era ricaricato, alla cupola.
E poi, dopo un’altra pausa di immobilità, aveva incominciato a muoversi lentamente, prudentemente, giù per il pendio, in direzione della cupola.
Non sapeva da quanto tempo era in cammino. Ad un certo punto la sua percezione del tempo era rallentata, ma non era neppure in grado di dire quando fosse accaduto. Tutte le sue percezioni erano controllate e censurate. Questo lo sapeva, perché quel tratto di terreno che percorreva era lievemente illuminato e a colori, mentre tutto il resto, intorno, era quasi di un nero informe. Ma non poteva cambiare nulla. Non poteva mutare neppure la direzione dello sguardo che, con la regolarità di un metronomo, si spostava da una parte o dall’altra, meno frequentemente scrutava il cielo o si voltava a guardare indietro; ma per il resto del tempo era fisso sul tratto che andava percorrendo e poteva vedere solo perifericamente il resto del paesaggio notturno.
E i suoi piedi si muovevano, uno dopo l’altro, uno dopo l’altro… a quale velocità? Cento passi al minuto? Non era in grado di dirlo. Roger pensò di farsi un’idea del tempo osservando le stelle che si staccavano dall’orizzonte, ma sebbene non fosse difficile contare i passi, e tentare di calcolare quando le stelle più basse erano salite di quattro o cinque gradi, quindi circa dieci minuti… gli era impossibile tenere tutto in mente per il tempo necessario a ottenere un risultato significativo. E il suo sguardo continuava a staccarsi senza preavviso dall’orizzonte.
Roger Torraway era completamente prigioniero del fratello portatile, soggetto alla sua volontà, ingannato dalle sue interpretazioni: ed era terribilmente preoccupato.
Che cos’era accaduto? Perché aveva freddo, se in lui c’era così poco che poteva percepire una realtà sensoriale? Eppure desiderava che sorgesse il sole, sognava con nostalgia di crogiolarsi nella radiazione delle microonde trasmesse da Deimos. Faticosamente, Roger sentiva di ragionare in base alla realtà che gli si offriva. Sentiva freddo. Aveva bisogno di immissioni di energia: questa era l’interpretazione. Ma perché aveva bisogno di altra energia, se aveva ricaricato da poco le batterie? Accantonò quel quesito perché non poteva trovare una risposta, ma l’ipotesi gli sembrava credibile. Spiegava la lentezza del suo movimento: camminare era un modo di muoversi assai più lento della solita corsa a grandi balzi, ma in termini di rapporto tra i chilowattore e i chilometri era più conveniente. Forse l’ipotesi spiegava anche i difetti dei suoi sistemi percettivi. Se il fratello portatile avesse scoperto prima che vi era energia insufficiente per le esigenze prevedibili, sicuramente avrebbe razionato la preziosa scorta per quei bisogni essenziali. O per quelli che esso percepiva come essenziali: viaggiare; impedire che le parti organiche di Roger gelassero; procedere con le abituali procedure di manipolazione dei dati e di controllo. E di questo, purtroppo, Roger non era a conoscenza.
Almeno, rifletté, la missione primaria del computer portatile era proteggere se stesso, il che significava tenere in vita la parte organica di Roger Torraway. Il computer poteva rubare energia dalla parte che lo avrebbe mantenuto sano di mente: poteva privarlo delle comunicazioni, interferire con le sue percezioni. Ma Roger era sicuro che sarebbe ritornato vivo fino al modulo.
Magari pazzo.
Aveva già coperto più di metà del percorso, di questo era quasi sicuro. Ed era ancora sano di mente. Il solo modo per restarlo era evitare di preoccuparsi. Il modo per non preoccuparsi era pensare ad altre cose. Immaginò la presenza vivace di Sulie Carpenter, che sarebbe arrivata di lì a pochi giorni; chissà se parlava sul serio quando diceva di voler restare su Marte. Chissà se anche lui voleva restare. Ricordò le grandiose mangiate che aveva fatto un tempo, la pasta verde agli spinaci con la béchamelle a Sirmione, davanti alle acque luminose e trasparenti del lago di Garda; il bue alla Kobe a Nagoya; il bruciante chili di Matamoras. Pensò alla sua chitarra e decise di portarla fuori e di suonarla. C’era troppo vapore acqueo nell’atmosfera delle cupole, e a Roger non piaceva stare a bordo del modulo; e all’aperto, naturalmente, ì suoni dello strumento erano strani, perché gli giungevano solo attraverso le ossa. Comunque… Ripassò mentalmente i movimenti delle dita per gli accordi, modulando tra i diesis e le settime e le minori. Immaginò le proprie dita che modulavano il mi minore, il re, il do e il si settima dell’inizio di «Greensleeves», e canterellò mentalmente il motivo. A Sulie avrebbe fatto piacere cantare accompagnata dalla chitarra, pensò. E le fredde notti marziane sarebbero trascorse più rapidamente…
Si riscosse, vigile.
Quella notte marziana non trascorreva più tanto rapidamente.
Da un punto di vista soggettivo, sembrava che la sua andatura fosse rallentata, dalla corsa a un passo lungo e costante: ma egli sapeva che non era cambiata; la sua percezione del tempo era ritornata normale, forse ancora un po’ più lenta del normale: gli pareva di camminare con metodica lentezza.
Perché?
C’era qualcosa, più avanti. Almeno a un chilometro di distanza. E molto luminoso.
Roger non riusciva a distinguerlo.
Un drago?
Sembrava avanzare verso di lui a grandi balzi, alitando una lingua di luce, come una fiamma.
Il suo corpo smise di camminare. Cadde in ginocchio e cominciò a strisciare, molto adagio, tenendosi basso.
Era pazzesco, si disse Roger. Su Marte non ci sono draghi. Che cosa sto facendo? Ma non riuscì a fermarsi. Il suo corpo avanzava strisciando, ginocchio destro e mano sinistra, mano destra e ginocchio sinistro, al riparo di una collinetta di sabbia. Meticolosamente e rapidamente cominciò a rimuovere il fine terriccio marziano, per inserirsi nella cavità, per tirarsi addosso un po’ di quel terriccio. Dentro alla sua testa barbugliavano voci esilissime, ma egli non poteva capire ciò che dicevano: erano troppo fievoli, troppo ingarbugliate.
Il drago rallentò e si fermò a poche decine di metri, con la lingua di fiamma immobile protesa verso le montagne. La vista di Roger si annebbiò e cambiò; la fiamma si era attenuata, e la mole della cosa spiccava in una luminescenza spettrale. Due esseri più piccoli si lasciarono cadere dal dorso del drago: erano brutti animali scimmieschi, che avanzavano pesantemente e trasudavano minacce ad ogni gesto.
Non c’erano draghi, su Marte, e neppure gorilla.
Roger fece appello a tutte le sue energie. — Don! — urlò. — Brad!
Non riuscì a farsi udire!
Sapeva che il fratello portatile continuava a negare energia alla trasmittente. Sapeva che le sue percezioni si erano ingannate, che il drago non era il drago e i gorilla non erano gorilla. Sapeva che se non fosse riuscito a sopraffare il fratello portatile sarebbe accaduto probabilmente qualcosa di terribile, perché sapeva che le sue dita si andavano chiudendo delicatamente, lentamente, intorno a un pezzo di limonite grosso come una palla da baseball.
E sapeva che mai, come in quel momento, era stato così vicino a perdere la ragione.
Roger compì uno sforzo immenso per riconquistare la lucidità.
Il drago non era un drago. Era la jeep marziana.
Gli scimmioni non erano scimmioni. Erano Brad e Don Kayman.
Non lo minacciavano. Avevano percorso tutta quella strada nella gelida notte marziana per ritrovarlo e aiutarlo.
Si ripeté quella verità, più e più volte, come una litania: ma qualunque cosa pensasse, non poté impedire ciò che fecero le sue braccia e il suo corpo. Le mani afferrarono il pezzo di roccia; il corpo si alzò; le braccia scagliarono la pietra, con precisione esatta, contro il faro della jeep.
La lunghissima lingua di fiamma immobile si spense.
La luce irradiata dal milione di stelle brillanti bastava ai sensi di Roger, ma sarebbe stata di ben scarso aiuto per Brad e Don Kayman. Roger poteva vederli (ancora gorilloidi, ancora minacciosi), mentre incespicavano incerti; e sentiva ciò che stava facendo il suo corpo.
Strisciava verso di loro.
— Don! — urlò. — Attento! — Ma la voce non uscì mai dal suo cranio.
E una pazzia, si disse. Devo fermarmi!
Non poteva fermarsi.
Io so che non sono nemici! Non voglio far loro del male…
E continuava ad avanzare.
Era quasi sicuro di poter udire le loro voci, ormai. Così vicine, le loro trasmittenti sarebbero sembrate assordanti in condizioni normali, senza l’intervento del regolatore automatico di volume. Sebbene egli fosse isolato, c’era qualche infiltrazione.
— … qui intorno, da qualche parte…
Sì! Riusciva addirittura a distinguere le parole; e la voce, ne era sicuro, era di Brad.
Gridò con tutta la forza di cui poteva disporre: — Brad! Sono io, Roger! Temo che cercherò di ucciderti!
Implacabile, il suo corpo continuò a strisciare. Lo avevano udito? Gridò ancora; e questa volta li vide fermarsi entrambi, come se ascoltassero un grido debolissimo e lontano.
Il filo sottile della voce di Don Kayman mormorò: — Questa volta sono sicuro di averlo sentito, Brad.
— Sì! — ululò Roger, cercando di approfittare di quel vantaggio. — Attenti! Il computer mi domina. Sto cercando di sopraffarlo, ma… Don! — Adesso era in grado di distinguerli, perché il prete teneva il braccio proteso, rigidamente, nella tuta pressurizzata. — Andatevene! Cercherò di uccidervi!
Non riuscì a comprendere le parole; erano più forti, ma i due uomini gridavano contemporaneamente e il risultato era un caos. Il suo corpo non ne fu affatto influenzato: continuò la sua avanzata mortale, furtiva.
— Non riesco a vederti, Roger.
— Sono a dieci metri da voi… a sud? Sì, a sud! Sto strisciando. Sul terreno.
Il vetro del visore del prete scintillò nella luce delle stelle girandosi verso di lui; poi Kayman si voltò e si lanciò a corsa.
Il corpo di Roger si rialzò, si accinse a balzare all’inseguimento del prete. — Più forte! — urlò Roger. — Oh, Cristo! Non riuscirai a fuggire… — Anche illeso, anche alla luce del giorno, anche senza l’impedimento della tuta, Kayman non avrebbe avuto possibilità di sfuggire ai meccanismi perfettamente funzionanti del corpo di Roger. In una situazione simile, fuggire era tempo sprecato. Roger senti i propri muscoli tendersi per un balzo, sentì le proprie mani avventarsi per afferrare e distruggere…
L’universo turbinò intorno a lui.
Qualcosa l’aveva colpito alle spalle. Crollò in avanti, bocconi: ma i suoi riflessi fulminei gli fecero compiere un mezzo giro su se stesso mentre cadeva, per artigliare la cosa che gli era balzata sulla schiena. Brad! E poté sentire che Brad lottava freneticamente con qualcosa, con una parte del…
E la sofferenza più grande lo colpì; e perse conoscenza, come se si fosse spento un interruttore.
Non c’erano suoni. Non c’era luce. Non c’erano i sensi del tatto, dell’odorato e del gusto. Roger impiegò molto tempo per rendersi conto di essere conscio.
Una volta, quando non si era ancora laureato e partecipava a un seminario di psicologia, si era offerto volontario per trascorrere un’ora in una vasca a privazione sensoriale. Gli era parsa un’eternità: nessuna sensazione giungeva fino a lui, nient’altro che i suoni sommessi del suo corpo funzionante: il tonfo sommesso del polso, un fruscio nei polmoni. E adesso non c’era neppure quello.
Per molto tempo. Roger non sapeva immaginare per quanto continuasse così.
Poi percepì un vago fremito nel suo spazio personale interiore. Era una sensazione strana, difficile da identificare: come se fegato e polmoni si scambiassero posto, delicatamente. Continuò così per un po’ di tempo, e Roger comprese che gli stavano facendo qualcosa: cosa, non era in grado di intuirlo.
E poi una voce: — … si doveva far atterrare subito il generatore sulla superficie. — Kayman?
E una risposta: — No. In quel modo poteva operare solo in linea di visuale, cinquanta chilometri al massimo. — Quella era sicuramente Sulie Carpenter!
— E allora dovevano esserci dei satelliti relay.
— Non credo. Sarebbe costato troppo. E avrebbe richiesto troppo tempo, comunque… anche se finirà proprio così, quando la Nuova Asia Popolare e i russi e i brasiliani porteranno tutti qui i loro teams.
— Beh, è stata una sciocchezza.
Sulie rise. — Comunque, adesso tutto andrà per il meglio. Titus e Dinty hanno staccato tutta la baracca da Deimos e la stanno mettendo in un’orbita sincrona. Resterà sempre sulla verticale, al massimo con una deviazione non eccessiva. E Titus e Dinty terranno il raggio bloccato su Roger… come?
Adesso, era la voce di Brad. — Ho detto, smettila di chiacchierare per un momento. Voglio accertare se adesso Roger può udirci. — Di nuovo quel fremito interno e poi: — Roger? Se mi senti, muovi le dita.
Roger tentò, e si accorse che se le sentiva di nuovo.
— Magnifico! Okay, Roger. Sei a posto. Ho dovuto farti un po’ a pezzi, ma adesso è tutto sistemato.
— Può sentirmi? — Era la voce di Sulie; Roger agitò le dita, entusiasticamente.
— Ah. Vedo che puoi sentirmi. Comunque sono qui, Rog. Sei rimasto privo di sensi per circa nove giorni. Avresti dovuto vederti. C’erano pezzi tuoi un po’ dappertutto. Ma Brad è convinto di averti rimesso insieme.
Roger tentò di parlare, senza riuscirvi.
La voce di Brad: — Ti restituirò la vista tra un minuto. Vuoi sapere cos’era successo? — Roger agitò le dita. — Non ti eri allacciato i pantaloni… più o meno. Avevi lasciato scoperti i terminali di ricarica, e un po’ di quella sabbia, che è quasi tutta ossido di ferro, deve essere entrata provocando un corto circuito parziale. Perciò sei rimasto con poca energia. … che succede?
Roger agitava le dita, freneticamente. — Non so cosa vuoi dire, ma fra poco potrai parlare di nuovo. Cosa?
La voce di Don Kayman: — Penso che forse vuol sentire parlare Sulie. — Roger smise subito di muovere le dita.
La risata di Sulie, e poi: — Mi sentirai anche troppo spesso, Roger. Io resto. E di tanto in tanto avremo compagnia, perché tutti hanno intenzione di creare una colonia quassù.
Don: — A proposito, ti ringrazio di avermi avvertito. Sei dotato di una forza spaventosa, Roger. Non avremmo avuto una sola possibilità di salvarci se tu non ci avessi detto quel che succedeva. E se Brad non fosse riuscito a bloccare tutto e subito. — Il prete ridacchiò. — Sei un gran figlio d’un cane, sai? Ti ho tenuto sulle ginocchia per tutto il tragitto di ritorno, a cento chilometri orari, cercando di stare aggrappato con una mano e di impedire che tu schizzassi via, per pura forza di volontà…
— Un momento, — l’interruppe Brad. Roger sentì di nuovo il fremito interiore, e all’improvviso ci fu la luce. Vide sopra di lui la faccia del suo amico Brad, che subito volle sapere: — Come ti senti?
Roger buttò le gambe giù dal bordo del tavolo e si raddrizzò a sedere. Provò a parlare: — Benissimo, mi pare.
Guardò oltre le spalle di Brad e vide ciò che aveva cercato. Era Sulie Carpenter. Non somigliava più tanto a… a Dorrie? Per un momento Roger stentò a ricordare il nome. Gli occhi erano di un colore diverso, e anche i capelli. Indossava una maglietta a maniche corte, macchiata di grasso, e un paio di calzoni scozzesi: aveva l’aria stanca, ma felice, ed era bellissima.
Roger domandò: — Davvero intendi restare?
— Uh-uh. — Sulie si avvicinò, lo toccò. — Fino all’arrivo della prossima astronave. O finché rimarrai qui tu. Puoi scegliere. Credo, — aggiunse ironicamente, — che ci attendano momenti complicati, caro Rog. Queste relazioni miste sono sempre difficili. Ma troveremo la soluzione… ed è quello che voglio. Penso sia questo, che ho sempre voluto fin dall’inizio.
Ed era stato effettivamente così, come avevamo sempre saputo. Fin dall’inizio. Ci eravamo dati parecchio da fare per trovare Sulie Carpenter.