Vern Scanyon parcheggiò la macchina di traverso, sulle righe gialle che delimitavano lo spazio assegnatogli, balzò a terra e premette con il pollice il bottone dell’ascensore. Era sveglio da meno di venti minuti, ma non era affatto insonnolito. Era furibondo e preoccupato. La segretaria agli appuntamenti presidenziali l’aveva svegliato con una telefonata, per annunciargli che il presidente aveva fatto deviare il suo aereo dalla rotta per fermarsi a Tonka: «Per discutere i problemi del sistema percettivo del comandante Torraway». Per. fare sfuriate, più esattamente. Scanyon non aveva saputo nulla dell’improvviso assalto di Roger contro Don Kayman se non quando era salito in macchina per precipitarsi al palazzo del progetto ad attendere il presidente.
— Buongiorno, Vern. — Jonny Freeling, anche lui, era spaventato e furioso. Scanyon gli passò davanti e si infilò nel suo ufficio.
— Avanti, avanti. — latrò. — E adesso, in parole semplici e chiare, cos’è successo?
Freeling ribatté risentito: — Non spetta a me…
— Freeling.
— I sistemi di Roger hanno un po’ esagerato le reazioni. A quanto pare, Kayman si è mosso all’improvviso, e i sistemi di simulazione hanno interpretato il gesto come una minaccia: Roger si è difeso e ha spinto via Kayman.
Scanyon spalancò gli occhi.
— Gli ha fratturato il braccio, — si corresse Freeling. — È stata una frattura semplice, generale. Nessuna complicazione. Guarirà perfettamente… Kayman dovrà arrangiarsi per un po’ con un braccio solo. È un peccato per Don, naturalmente. Non sarà molto comodo…
— Al diavolo Kayman! Perché non sapeva come doveva comportarsi, quand’era vicino a Roger?
— Ecco, lo sapeva. Ma aveva trovato qualcosa che pensava fosse una forma di vita indigena! Entusiasmante. E voleva semplicemente mostrarlo a Roger.
— Una forma di vita? — Gli occhi di Scanyon ebbero un baluginio di speranza.
— Una specie di pianta, pensano loro.
— Non ne sono sicuri?
— Beh, sembra che Roger l’abbia fatta schizzare via dalla mano di Kayman. Dopo Brad è andato a cercarla, ma non l’ha trovata.
— Gesù, — sbuffò Scanyon. — Freeling, mi dica una cosa. Che razza di incompetenti lavorano per noi? — Non era una domanda che potesse trovare un’adeguata risposta, e Scanyon non l’attese. — Tra venti minuti circa, — continuò, — il presidente degli Stati Uniti entrerà da quella porta, e vorrà sapere, parola per parola, che cos’è successo e perché. Non so cosa domanderà, ma in ogni caso c’è una sola risposta che non voglio dargli, ed è «Non lo so». Perciò mi dica, Freeling. Mi racconti daccapo cos’è successo, perché è andata male, perché non avevamo previsto che potesse andar male e come possiamo fare per essere maledettamente sicuri che la cosa non si ripeta. — Ci volle un po’ più di venti minuti, ma ebbero a disposizione il tempo sufficiente. L’aereo presidenziale atterrò in ritardo, e quando Dash arrivò Scanyon era pronto. Pronto persino all’espressione furiosa del presidente.
— Scanyon, — tuonò subito Dash, — l’avevo avvertita, basta con le sorprese. Questa volta è troppo, e credo che me la pagherà cara.
— Non si può mettere un uomo su Marte senza rischi, signor presidente!
Dash lo fissò negli occhi per un momento, poi disse: — Può darsi. Come sta il prete?
— Ha un radio fratturato, ma guarirà. C’è qualcosa di molto più importante. Ritiene di aver trovato vita su Marte, signor presidente!
Dash scosse il capo. — Lo so, una specie di pianta. Ma è riuscito a perderla.
— Per il momento. Kayman sa il fatto suo. Se dice di aver trovato qualcosa d’importante, l’ha trovato veramente. E lo ritroverà.
— Lo spero anch’io, Vern. Ma non cerchi di svicolare. Perché è successo?
— Un eccesso di controllo dei sistemi percettivi. È tutto qui, signor presidente. Non c’è altro. Per mettere Torraway in grado di reagire rapidamente e positivamente, abbiamo dovuto inserire alcuni elementi di simulazione. Perché presti attenzione ai messaggi urgenti, gli mostrano sua moglie che gli parla. Perché reagisca al pericolo, vede qualcosa di spaventoso. In questo modo la sua mente può reggere ai riflessi che abbiamo inserito nel corpo. Altrimenti impazzirebbe.
— E fratturare il braccio del prete non è stato un gesto pazzesco?
— No! È stato un incidente. Quando Kayman è scattato verso di lui, l’ha interpretato come una vera aggressione. E ha reagito. Bene, signor presidente, in questo caso è stato un errore, e ci è costato un braccio rotto. Ma se si fosse trattato di una minaccia vera? Una minaccia di qualunque genere? L’avrebbe sventata. Qualunque cosa fosse. Torraway è invulnerabile, signor presidente. Niente potrà mai coglierlo alla sprovvista.
— Già, — fece il presidente; e dopo un attimo: — Può darsi. — Fissò al di sopra della testa di Scanyon per un momento e aggiunse: — E quell’altra storia?
— Quale storia, signor presidente?
Dash scrollò le spalle, irritato. — A quanto ne so, c’è qualcosa che non va in tutte le nostre proiezioni elaborate dai computer, specialmente nei sondaggi che abbiamo effettuato.
Un campanello d’allarme squillò nella testa di Scanyon. Disse, riluttante: — Signor presidente, sulla mia scrivania ci sono molte carte che non ho ancora finito di esaminare. Come sa, ho viaggiato molto…
— Scanyon, — disse il presidente, — ora vado. Voglio che per prima cosa lei dia un’occhiata alle carte sulla sua scrivania, trovi quella che m’interessa e la legga. Domattina alle otto, la voglio nel mio ufficio, e voglio che lei mi dica cosa sta succedendo: in particolare tre cose. Primo, voglio sentirmi dire che Kayman sta bene. Secondo, voglio che sia stata ritrovata quella cosa vivente. Terzo, voglio sapere la storia delle proiezioni dei computer, e che sia chiara. Arrivederci, Scanyon. Lo so che sono solo le cinque del mattino, ma non torni a letto.
Ormai avremmo potuto rassicurare Scanyon e il presidente, almeno riguardo ad una cosa. L’oggetto che aveva raccolto Kayman era effettivamente una forma di vita. Avevamo ricostruito i dati attraverso gli occhi di Roger, filtrato ed escluso le simulazioni, e avevamo visto ciò che aveva visto lui. Al presidente e ai suoi consiglieri non era ancora venuto in mente che fosse possibile riuscirci: ma gli sarebbe venuto in mente in futuro. Non si potevano distinguere i particolari minuti, dato il numero limitato di bits disponibili, ma l’oggetto aveva la forma di un carciofo, con foglie grossolane tese verso l’alto, e anche un po’ la forma di un fungo: sopra c’era una calotta trasparente di materiale cristallino. Aveva radici e, a meno che fosse un manufatto (zero virgola zero zero una probabilità, al massimo), doveva essere una forma di vita. Noi non la trovavamo molto interessante, a parte naturalmente il fatto che avrebbe rafforzato l’interesse generale per il progetto Marte. In quanto ai dubbi sulle simulazioni eseguite dai computer, il nostro interesse era assai maggiore. Avevamo seguito quello sviluppo già da diverso tempo, fin da quando uno studente laureato, un certo Byrne, aveva scritto un programma per i Sistemi 360, per ricontrollare il precedente ricontrollo effettuato dal suo calcolatore portatile su alcuni risultati dei sondaggi. A noi la cosa stava a cuore non meno che al presidente. Ma la probabilità di qualche conseguenza grave appariva troppo ridotta, soprattutto perché tutto il resto andava bene. Il generatore MHD era quasi pronto per le correzioni di rotta in vista dell’inserimento nella preorbita; avevamo scelto il luogo per installarlo, il cratere Voltaire, sulla luna Deimos. Non molto più indietro veniva il veicolo che trasportava il 3070 e i due membri umani dell’equipaggio, uno dei quali era Sulie Carpenter. E su Marte, avevano già cominciato a costruire installazioni permanenti. Erano un po’ indietro rispetto alla tabella di marcia. L’incidente capitato a Kayman li aveva costretti a rallentare, non solo per il danno causato a lui, ma anche per ciò che Brad aveva insistito per fare a Roger: smontare il computer a zaino e cercare se vi erano difetti o interferenze. Non ce n’erano. Ma Brad impiegò due giorni marziani per accertarsene; e poi, dato che Kayman ci teneva immensamente, persero diverso tempo a trovare la sua creatura vivente. La trovarono, o meglio trovarono dozzine di altri esemplari; e Brad e Roger lasciarono Kayman a bordo del modulo, intento a studiarle, mentre loro cominciavano a costruire le cupole.
Per prima cosa, fu necessario trovare un tratto di terreno che avesse caratteristiche geologiche accettabili. La superficie doveva essere il più possibile simile al suolo, ma sotto, a non grande profondità, doveva esserci uno strato di roccia solida. Impiegarono mezza giornata a piantare nel terreno spuntoni esplosivi e ad ascoltare gli echi, prima di essere sicuri di aver trovato il posto adatto.
Poi, laboriosamente, vennero sistemati i generatori solari, e l’acqua contenuta nelle rocce sotto la superficie uscì per ebollizione. Quando la prima, minuscola piuma di vapore apparve sull’imboccatura del tubo, gridarono di gioia. Sarebbe stato facile lasciarsela sfuggire. L’aria marziana, estremamente secca, si impadroniva di ogni molecola, via via che usciva dal condotto. Ma piegandosi accanto alla valvola, si poteva scorgere una vaga nebulosità irregolare che distorceva la visibilità. Era vapore acqueo.
La fase successiva consistette nello stendere tre grandi pellicole monomolecolari: prima la più piccola e in alto la più grande. Quest’ultima venne fissata al terreno tutto intorno all’orlo, in modo che non vi fossero perdite. Poi portarono fuori le pompe, a bordo della jeep dalle ruote a canestro e le misero in moto. L’atmosfera marziana era estremamente rarefatta, ma esisteva; le pompe avrebbero finito per riempire le cupole, in parte con l’anidride carbonica e l’azoto atmosferici compressi, in parte, con il vapore acqueo che veniva estratto per ebollizione dalle rocce. Naturalmente, non c’erano quantitativi apprezzabili d’ossigeno, ma non era necessario che lo trovassero. Lo avrebbero prodotto, esattamente nello stesso modo con cui ha prodotto il suo ossigeno la Terra: grazie all’intercessione della fotosintesi vegetale.
La cupola esterna avrebbe impiegato quattro o cinque giorni per riempirsi, alla pressione preventivata di un quarto di chilogrammo. Allora avrebbero cominciato a riempire la seconda, sin quasi a un chilogrammo: in questo modo, nello spazio sempre più ridotto dell’intercapedine esterna, la pressione sarebbe salita a circa mezzo chilo. Infine, avrebbero riempito la cupola interna alla pressione di due chilogrammi, e avrebbero ottenuto in tal modo un ambiente in cui gli esseri umani potevano vivere senza tute pressurizzate, e persino respirare, non appena le colture vegetali avessero fornito loro qualcosa di respirabile.
Naturalmente, Roger non ne aveva bisogno. Non aveva bisogno di ossigeno; e neppure delle piante per nutrirsi, o almeno non ne avrebbe avuto molto bisogno né per lungo tempo. Poteva continuare, forse in eterno, a vivere dell’immancabile energia solare che provvedeva a fornirgli quasi tutta la sua energia, più quella che gli sarebbe stata trasmessa a mezzo di microonde dal generatore MHD, quando questo fosse stato sistemato al suo posto. Quel po’ che era necessario per la minuscola parte residua di lui ancora animalesca poteva venire facilmente fornito per molto tempo dagli alimenti concentrati portati dall’astronave; e soltanto allora, all’incirca dopo un paio d’anni marziani, Roger avrebbe incominciato a dipendere dai prodotti delle vasche idroponiche e dai semi che già stavano germogliando nelle serre fredde sigillate sotto le cupole.
Tutto questo lavoro richiese parecchi giorni, poiché Kayman non poteva essere di grande aiuto. Infilare e sfilare la tuta a pressione per lui era una tortura, perciò lo lasciavano quasi sempre a bordo del modulo. Quando venne il momento di portare alla cupola i serbatoi del liquame scrupolosamente prelevato dalla loro toeletta, Kayman diede una mano agli altri due. — Esattamente una mano, — osservò, mentre cercava di maneggiare il rastrello dal manico di magnesio, agganciandolo con il braccio illeso.
— Te la cavi benissimo, — lo incoraggiò Brad. Ormai nella cupola interna la pressione bastava a sollevare l’involucro fin sopra le loro teste, ma non permetteva di togliersi le tute. Ma forse era un bene, pensò Brad: in quel modo non avrebbero sentito il puzzo del liquame che stendevano con i rastrelli nel suolo sterile.
Quando la cupola raggiunse l’estensione massima, la pressione era salita a cento millibar. Equivale alla pressione dell’atmosfera terrestre a circa sedici chilometri sul livello del mare. Non è un ambiente in cui un uomo indifeso possa sopravvivere e lavorare molto a lungo: tuttavia, in un ambiente del genere, egli morirà soltanto se qualcosa lo uccide. Metà di tale pressione gli sarebbe letale immediatamente: la temperatura corporea sarebbe sufficiente a far evaporare i liquidi del suo organismo.
Ma quando la pressione interna raggiunse i cento millibar, tutti e tre passarono attraverso le tre camere stagne successive, e Brad e Don Kayman si tolsero cerimoniosamente le tute pressurizzate. Brad e Don si misero maschere simili ai boccagli dei respiratori subacquei; nell’interno della cupola non c’era ancora abbastanza ossigeno. Comunque, respiravano l’ossigeno puro delle bombole che portavano legate sul dorso: e per la prima volta erano liberi quasi come Roger, all’interno di un pezzetto di Terra trapiantato, che aveva un diametro di cento metri ed era alto quanto un palazzo di dieci piani.
E in quell’ambiente, in file ben ordinate, i semi che avevano piantato cominciavano già a germogliare.
Intanto…
Il veicolo con il generatore magnetoidrodinamico raggiunse l’orbita marziana, e con l’aiuto del generale Hesburgh, abbinò la propria orbita a quella di Deimos e si annidò nel cratere. Fu un accoppiamento perfetto. Il veicolo estromise i trampoli per toccare la roccia della piccola luna, li piantò nel suolo e si fermò. Un breve getto del sistema di manovra ne controllò la stabilità: orinai era divenuto parte di Deimos. Il sistema energetico cominciò la sequenza per entrare in piena attività. Una fiamma a fusione svegliò i fuochi del plasma. Il radar si protese per trovare l’obiettivo sul modulo, e poi si bloccò sulla cupola. Cominciò a fluire l’energia. La densità del campo era così bassa che Brad e Kayman potevano aggirarvisi senza neppure accorgersene, e per Roger era simile al delizioso tepore del sole: ma le strisce di stagnola disposte sulla cupola esterna raccoglievano l’energia trasmessa dalle microonde e la convogliavano verso le pompe e le batterie. Il combustibile per la fusione aveva una vita di cinquant’anni. Almeno per tutto quel tempo vi sarebbe stata energia sufficiente per Roger e per il suo computer portatile, su Marte, qualunque cosa accadesse sulla Terra.
E intanto…
C’erano altri accoppiamenti.
Nella lunga spirale dalla Terra a Marte. Sulie Carpenter e il suo pilota, Dinty Meighan, avevano avuto anche troppo tempo libero, e avevano trovato il modo di utilizzarlo.
L’atto dell’accoppiamento in caduta libera presenta certi problemi. Per prima cosa, Sulie dovette legarsi con una cintura di sicurezza alla vita, poi Dinty la strinse con le braccia, e lei lo avvinghiò con le gambe. I loro movimenti erano lenti, come quelli dei subacquei. Sulie impiegò un lungo, dolce tempo sognante per arrivare all’orgasmo, e Dinty fu ancora più lento. Quando finirono, quasi non ansimavano neppure. Sulie si stiracchiò e sbadigliò, inarcando il ventre contro la cintura di sicurezza. — Bello, — disse con voce assonnata. — Me lo ricorderò.
— Lo ricorderemo tutti e due, tesoro, — disse Dinty, fraintendendola. — Credo che sia il modo migliore di far l’amore. La prossima volta…
Sulie scosse il capo per interromperlo. — Non ci sarà una prossima volta, Dinty caro. Basta così.
L’uomo trasse indietro la testa per guardarla. — Cosa?
Lei sorrise. Il suo occhio destro era ancora a pochi centimetri dall’occhio sinistro di lui, e ognuno di loro vedeva l’altro bizzarramente, di scorcio. Sulie si protese e strofinò dolcemente la guancia contro la guancia ispida del suo compagno.
Dinty fece una smorfia e si ritrasse: all’improvviso, si sentiva ancora più nudo. Riprese i calzoncini dalla maniglia dove li aveva infilati, e se li mise.
— Sulie, che ti prende?
— Niente. Siamo quasi pronti per entrare in orbita, ecco tutto.
L’uomo si spinse all’indietro, nello spazio limitato, per guardarla meglio. Sulie era uno spettacolo che meritava. I suoi capelli erano ridiventati biondoscuri e gli occhi erano castani, senza le lenti a contatto; e anche se da quasi duecento giorni non era mai a più di dieci metri da lui, a Dinty Meighan appariva ancora bellissima. — Non pensavo che potessi riservarmi ancora qualche sorpresa, — esclamò, meravigliato.
— Non si può mai dire, con una donna.
— Suvvia, Sulie! Cos’è questa storia? Parli come se avessi intenzione di… Ehi! — Un pensiero improvviso lo colpì. — Tu ti sei offerta volontaria per questa missione… non per andare su Marte, ma per raggiungere qualcuno! Giusto? Uno di quelli che ci hanno preceduti?
— Sei molto svelto, Dinty. — Poi aggiunse, affettuosamente: — Non quando preferisco che tu non lo sia, comunque.
— Chi è? Brad? Hesburgh? Non sarà il prete? … Oh, aspetta un momento! — E annuì. — Ma sicuro! Quello con cui stavi sempre sulla Terra. Il cyborg!
— Il colonnello Roger Torraway è un essere umano, — lo corresse Sulie. — È umano come te, a parte qualche miglioria.
Dinty rise, più per risentimento che per allegria. — Tante migliorie, e niente palle.
Sulie si slegò. — Dinty, — disse dolcemente, — far l’amore con te mi è piaciuto: ti rispetto, e sei stato la compagnia più simpatica che un essere umano potesse avere in questo stramaledetto viaggio interminabile. Ma certe cose non devi dirle. Hai ragione. Roger non ha i testicoli, in questo preciso momento. Ma è un essere umano che io posso rispettare ed amare, ed è l’unico del genere che io abbia trovato ultimamente. E credimi, avevo cercato parecchio.
— Grazie!
— Oh, non fare così, caro Dinty. Sai benissimo di non essere veramente geloso. Tu hai già moglie.
— La riavrò l’anno prossimo! E manca parecchio! — Sulie alzò le spalle, sorridendo maliziosamente. — Ah, ma Sulie! Non puoi imbrogliarmi, in certe cose. Ti piace far l’amore!
— Mi piace il contatto fisico, l’intimità, — lo corresse lei. — E mi piace arrivare all’orgasmo. Ma preferisco farlo con qualcuno che amo, Dinty. Senza offesa.
L’uomo fece una smorfia. — Dovrai aspettare un pezzo, carina.
— Forse no.
— Col cavolo. Io non vedrò Irene per sette mesi. Ma tu… tu non tornerai prima di me; e la storia comincerà solo allora. Dovranno rimettertelo insieme pezzo per pezzo. Presumendo che possano riuscirci. Mi sembra che dovrà passare parecchio tempo, prima della prossima sbattuta.
— Oh, Dinty. Non credi che ci abbia pensato? — Sulie gli diede una pacca affettuosa, mentre si avviava verso il suo armadietto. — Il sesso non è soltanto il coito. Vi sono altri modi per arrivare all’orgasmo, non solo con un pene nella mia vagina. E il sesso non è soltanto orgasmo. Per non parlare poi dell’amore. Roger, — continuò, infilandosi nella tuta, non tanto per pudore quanto per la comodità delle tasche, — è una persona affettuosa e ricca di risorse, e anch’io lo sono. Troveremo il sistema… almeno, fino a che arriverà il resto dei coloni.
— Il resto? — fece Dinty, sbalordito. — Il resto dei coloni?
— Non hai ancora capito? Non tornerò con tutti voi, Dinty, e non credo che anche Roger tornerà. Resteremo marziani!
Intanto, nella Sala Ovale della Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti stava di fronte a Vern Scanyon e a un giovanotto color caffelatte, con gli occhiali scuri e la taglia da giocatore di football. — Dunque è lei, — disse Dash, squadrandolo. — Lei è convinto che noi non sappiamo eseguire uno studio con i computer.
— No, signor presidente, — disse con fermezza il giovanotto. — Non penso che il problema sia questo.
Scanyon tossì. — Byrne, qui, — disse, — è uno studente laureato del M.I.T., e sta compiendo uno studio di lavoro. La sua tesi è sulla metodologia della campionatura, e noi lo abbiamo autorizzato a consultare parte del… ehm, del materiale riservato. Specialmente gli studi sulla posizione dell’opinione pubblica nei confronti del progetto.
— Ma non mi avete permesso di accedere a un computer, — disse Byrne.
— Non a uno di quelli grandi, — lo corresse Scanyon. — Lei aveva il suo dataplex portatile.
Il presidente disse, in tono blando: — Continui, Scanyon.
— Bene, i suoi risultati sono stati diversi. Secondo le sue interpretazioni, l’opinione pubblica nei confronti della colonizzazione di Marte era, ecco, apatica. Ricorda, signor presidente, che a suo tempo vi fu qualche dubbio sui risultati? Quelli grezzi non erano per nulla incoraggianti. Ma quando li facemmo analizzare apparvero positivi a… come si dice? A due sigma. Non ho mai capito perché.
— E avete controllato?
— Certo, signor presidente! Io no, — si affrettò ad aggiungere Scanyon. — Non era compito mio. Ma so che gli studi vennero confermati.
Byrne s’intromise: — Tre volte, con tre programmi diversi. C’erano variazioni di poco conto, naturalmente. Ma tutti i risultati furono significativi e attendibili. Però, quando ho ripetuto l’analisi con il mio calcolatore portatile, non lo erano più. Ed ecco come stanno le cose, signor presidente. Se lei elabora le cifre con un grande computer della rete, uno qualunque, ottiene un risultato. Se le elabora con un piccolo apparecchio isolato, ne ottiene un altro.
Il presidente tamburellò con le nocche delle dita sul piano della scrivania. — Quali sono le sue conclusioni?
Byrne alzò le spalle. Aveva ventitré anni, e si sentiva intimidito dall’ambiente. Guardò Scanyon per invocare aiuto e non l’ottenne. Disse: — Questo dovrà chiederlo a qualcun altro, signor presidente. Io posso soltanto riferirle la mia congettura. Qualcuno sta manomettendo la nostra rete di computer.
Il presidente si passò un dito sul naso, con aria meditabonda, e annuì lentamente. Guardò Byrne per un momento e poi disse, senza alzare la voce: — Carousso, venga qui. Mr. Byrne, ciò che lei vede e sente in questa stanza è top secret. Quando se ne andrà, Mr. Carousso l’informerà dettagliatamente di ciò che significa: in sostanza, non dovrà parlarne con nessuno. Mai.
La porta dell’anticamera presidenziale si aprì ed entrò un uomo alto e solido che cercava di darsi un aspetto scialbo. Byrne lo fissò stupito: Charles Carousso, il capo della CIA. — Cosa mi dice di tutto questo, Chuck? — chiese il presidente. — E di lui?
— Abbiamo controllato Mr. Byrne, naturalmente, — disse l’uomo della CIA. Le sue parole erano meticolose, senza inflessioni. — Non c’è nulla di negativo sul suo conto… suppongo che le farà piacere saperlo, Mr. Byrne. E quello che dice è esatto. E non si tratta solo dei sondaggi della pubblica opinione. Le proiezioni del rischio d’una guerra, gli studi sul rapporto costi-efficienza… analizzati con la rete danno un risultato, analizzati con macchine calcolatrici indipendenti ne danno un altro. Sono d’accordo con Mr. Byrne. La nostra rete di computer è stata manomessa.
Il presidente strinse le labbra, come se volesse trattenere ciò che stava per dire. Si limitò a mormorare: — Voglio che lei scopra com’è successo, Chuck. Ma il problema più importante, adesso, è: chi è stato? Gli asiatici?
— No, signore! Questo lo abbiamo controllato. È impossibile.
— Col cacchio, è impossibile! — ruggì il presidente. — Sappiamo che avevano già intercettato le nostre linee una volta, con la simulazione dei sistemi di Roger Torraway!
— Signor presidente, quello è un caso completamente diverso. Abbiamo trovato la derivazione, e l’abbiamo neutralizzata. Era in un cavo a terra, in un collegamento non sensibile. I circuiti di comunicazione dei nostri grandi computer sono assolutamente impenetrabili. — Carousso lanciò un’occhiata a Byrne. — Lei ha un rapporto sulle tecniche relative, signor presidente: sarò lieto di aiutarla ad esaminarlo quando vorrà.
— Oh, non si preoccupi per me, — disse Byrne, sorridendo per la prima volta. — Tutti sanno che i collegamenti sono a protezione multipla. Se ha fatto fare indagini sul mio conto, certamente avrà scoperto che molti di noi studenti laureati cercano di inserirsi: e nessuno c’è mai riuscito.
L’uomo della CIA annuì. — In effetti, signor presidente, noi li lasciamo fare; è un buon collaudo pratico per la nostra sicurezza. Se persone come Mr. Byrne non riescono a trovare un modo di superare i blocchi, non credo che possano farlo gli asiatici. I blocchi sono impenetrabili. Devono esserlo. Controllano circuiti che vanno dalla Macchina di Guerra a Butte, all’Ufficio Censimenti, all’UNESCO…
— Un momento! — gridò il presidente. — Vuol dire che i nostri calcolatori sono collegati tanto con l’UNESCO, che usano anche gli asiatici, e con la Macchina di Guerra.
— Non vi sono assolutamente possibilità di fughe.
— Una fuga c’è stata, Carousso!
— Ma non a favore degli asiatici, signor presidente.
— Ha appena finito di dirmi che c’è un cavo che esce dai nostri computer e arriva alla Macchina da Guerra, e un altro che va diritto diritto dagli asiatici, passando attraverso l’UNESCO.
— Comunque, signor presidente, le garantisco che non si tratta degli asiatici. Lo sapremmo, altrimenti. Tutti i computer principali sono in una certa misura collegati tra loro. E come dire che c’è una strada che va da un posto qualunque a qualunque altro posto. Certo, c’è. Ma ci sono anche i posti di blocco. È assolutamente impossibile che la Nuova Asia Popolare possa accedere alla Macchina da Guerra, o a quasi tutti quegli studi. E comunque, se fosse così, lo avremmo saputo dai nostri informatori. Gli asiatici non l’hanno fatto. E in ogni caso, signor presidente, — continuò Carousso, — lei sa trovare un motivo per cui la Nuova Asia Popolare altererebbe i risultati per indurci a colonizzare Marte?
Il presidente tamburellò con i pollici, guardandosi intorno. — Sono disposto a seguire la sua logica, Chuck. Ma se non sono stati gli asiatici a manomettere i nostri computer, allora chi è stato?
Il capo della CIA rimase chiuso in un cupo silenzio.
— E in nome di Cristo, — ringhiò Dash, — perché?