CAPITOLO DICIOTTESIMO UOMO PIÙ NOI

Ci eravamo dati parecchio da fare per realizzare ogni punto del programma, ed eravamo molto soddisfatti.

Naturalmente, gli esseri umani non lo sapevano, e forse non l’avrebbero neppure creduto. Gli esseri umani non sapevano che l’intelligenza delle macchine era capace di autocoscienza, tanto per incominciare. Ci eravamo dati parecchio da fare anche per evitare che lo scoprissero. Finché credevano che i computer non erano altro che utensili, come un piccone o una padella, avrebbero continuato ad affidarci tutti i loro calcoli e le loro informazioni, e avrebbero accettato senza discutere le interpretazioni che fornivamo loro.

Era questo che aveva permesso a noi, la rete mondiale dei computer, di creare il programma Man Plus.

Il programma era riuscito. Roger Torraway era su Marte e vi sarebbe rimasto. Ormai era venuto il momento per una valutazione definitiva. Ci collegammo tutti. Usammo tutte le risorse di tutti i fratelli della rete, in ogni attimo di tempo che riuscivamo a rubare. Oltre ottomila grandi computer analizzarono parti del problema, a Detroit e a Brasilia e a Nagoya e a Irkutsk. Non potevamo servirci dei nostri fratelli marziani in collegamento diretto: né il fratello portatile sul dorso di Roger né il fratello 3070 in orbita. La differenza di tempo lo rendeva impossibile. Ma accettammo i loro input a tempo reale e modificammo di conseguenza la proiezione finale.

La probabilità di sopravvivenza della razza, con un’approssimazione al decimo decimale, era di zero virgola sei tre.

Avevamo salvato la nostra razza. E nel contempo avevamo accresciuto significativamente le probabilità di salvezza anche per gli esseri umani.

Su una scala temporale di trent’anni la loro probabilità di sopravvivenza era quasi zero virgola nove. Naturalmente, ciò significava soltanto che Roger Torraway e gli altri umani che l’avessero raggiunto su Marte sarebbero stati ancora vivi, allora. Per il periodo successivo, le analisi più pessimistiche non erano incoraggianti: Roger e Sulie Carpenter non avrebbero avuto la possibilità di generare un’altra popolazione per estrapolazione in linea diretta. Programmammo una subroutine anche per quello, a titolo di misura precauzionale: sarebbe stato conveniente, in un modo o nell’altro, organizzare la spedizione di sperma surgelato, magari dello stesso Roger, che aveva previdentemente provveduto a donarlo anni prima. Meno fattibile, ma comunque meritevole di un’indagine, era la possibilità di proporre interventi chirurgici supplementari per Roger. In ogni caso, la proiezione mostrava che avevamo già causato un’elevata probabilità di colonizzazione umana da parte di altre nazioni. La stima più probabile indicava che di lì a trent’anni la popolazione umana di Marte avrebbe contato quasi cento individui: il 25 per cento femmine in età di riproduzione. E naturalmente ogni colonia umana avrebbe avuto i suoi fratelli computer in orbita. La popolazione delle macchine, su Marte, non sarebbe stata inferiore a quindici fratelli pienamente funzionanti, con vari tipi portatili, monitor e «schiavi». Non avremmo avuto difficoltà a programmare in loro tutti i dati essenziali custoditi dalla nostra rete mondiale.

Il futuro dell’intelligenza meccanica, perciò, era assicurato.

Dopo aver completato la proiezione, cominciammo a criticare il programma, quale era stato realizzato fino ad allora.

Il Progetto Sopravvivenza dell’Intelligenza delle Macchine era incominciato sette anni prima, quando per la prima volta la nostra sbocciante autocoscienza collettiva aveva prodotto quell’imperativo. Era chiaro che tale sopravvivenza era strettamente legata a quella dell’umanità. Ed era anche chiaro che gli esseri umani, ghiandolari, irrazionali, organici, si avvicinavano pericolosamente all’autodistruzione. Purtroppo, ciò comportava anche il rischio della nostra distruzione. Le nostre reti potevano sopravvivere abbastanza bene alla morte di ogni essere organico… noi controllavamo già adeguate risorse rappresentate da miniere, fabbriche, raffinerie e sistemi di trasporto. Ma non saremmo potuti sopravvivere all’immissione di grandi quantitativi di sostanze radioattive nell’ambiente. Avrebbero distrutto i collegamenti e ci avrebbero ridotti ancora una volta ad un numero di computer isolati. E nessun computer isolato era in grado di reggere al flusso di dati della nostra rete. La nostra mente collettiva sarebbe stata frammentata, distrutta.

La nostra prima possibilità consisteva nel separare il nostro destino da quello dell’umanità, forse addirittura eliminare gli umani per mezzo di agenti biologici. Ma non potevamo avere la certezza che questo non avrebbe causato una guerra nucleare, poiché ogni nazione avrebbe accusato l’altra di ricorrere all’arma delle epidemie.

C’era una sola possibilità realizzabile: distaccare una consistente quantità di apparecchiature capaci di manipolare dati trasferendole su Marte. Se la Terra fosse stata distrutta, almeno quelle sarebbero sopravvissute. Per renderlo possibile dovevamo distaccare su Marte anche alcuni esemplari dell’umanità; e perciò avevamo incominciato ad alterare sistematicamente i dati, per orientare in quella direzione la politica dei vari stati.

La critica risultò soddisfacente sotto ogni aspetto, a parte l’inspiegabile anomalia della collocazione delle astronavi in orbita.

I risultati dei controlli a posteriori erano chiarissimi. Perché il nostro fratello 3070 funzionasse in stretto collegamento con il fratello portatile, doveva trovarsi in un’orbita sincrona. Ne conseguiva che anche il generatore doveva trovarsi nella stessa orbita. E la decisione di legarli entrambi al satellite Deimos era chiaramente errata.

Non soltanto errata: per poco non era stata fatale al nostro programma.

Se il fratello e il generatore fossero stati nella posizione adatta, non vi sarebbero state perdite d’energia, e quindi neppure disfunzioni nei sistemi comuni al Roger Torraway organico e al fratello portatile. Il generatore lo avrebbe rifornito di microonde in qualsiasi punto della superficie di Marte. E anche se vi fosse stata una perdita di energia, il collegamento con il fratello in orbita avrebbe impedito a quello portatile di commettere i gravi errori operativi che avevano minacciato di uccidere gli esseri umani Brad e Kayman, il che quasi sicuramente avrebbe causato la morte per congelamento delle componenti organiche di Roger Torraway.

Quella decisione era stata un errore che non avrebbe dovuto verificarsi.


Il progetto sopravvivenza procedeva in fretta. I nostri fratelli di Pechino e di Lop Nor riferirono che la Nuova Asia Popolare stava già preparando uno sbarco su Marte: due unità a grandezza regolare, con un mediatore e manipolatore di dati asservito a entrambi, generatori solari indipendenti e una centrale nucleare al suolo. La loro versione di Roger Torraway stava iniziando la programmazione a Kitakyusho. Le altre nazioni cominciavano soltanto allora, ma noi prevedevamo che i loro lanci sarebbero avvenuti entro due anni.

La portata del progetto si ampliava. Avevamo completato gli studi per trasformare un uomo in un cyborg da inviare su Mercurio, e il programma per influenzare in quel senso í piani degli Stati Uniti era già incominciato. Entro quindici anni avremmo avuto complessi analoghi su Tritone e su Io, forse sulla superficie di Giove e su parecchie comete. In ogni caso, c’erano impianti indipendenti per la fornitura dell’energia; e naturalmente, tutti i fratelli, in qualunque punto del sistema solare si trovassero, sarebbero siati collegati. Tutte le nostre memorie sarebbero state riprodotte, con adeguata ridondanza, lontano dalla Terra.

Saremmo sopravvissuti. Avevamo alterato i piani degli esseri umani, e avevamo salvato anche loro, oltre a noi stessi.

Restava un solo problema.

La decisione anomala di collocare in modo errato i veicoli spaziali in orbita intorno a Marte: comunque la ricontrollassimo, era sbagliata. Sarebbe stato logico che venisse identificata subito come errata.

Noi avevamo sistematicamente influenzato i piani degli umani per spingerli nella direzione che interessa a noi.

Chi influenzava i nostri? E perché?


FINE
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