CAPITOLO DECIMO GLI SCAMBIETTI DELL’UOMO PIPISTRELLO

Improvvisamente, sorprendentemente, mancavano soltanto nove giorni.

Quando uscì dal condominio dei religiosi, padre Kayman rabbrividì per il freddo, mentre attendeva che Brad passasse a prenderlo per condurlo alla sede del progetto. La scarsità di carburante si era aggravata parecchio nelle ultime due settimane, a causa dei combattimenti in Medio Oriente e dei Combattenti per la Libertà scozzesi che avevano fatto saltare gli oleodotti del Mare del Nord. Il progetto aveva la precedenza per quanto era necessario, anche se alcuni silos missilistici non avevano abbastanza carburante per lanciare i loro razzi; ma tutti i membri del personale erano stati esortati a spegnere le luci, a mettersi d’accordo per andare in ufficio in macchina a gruppi, ad abbassare i termostati nelle rispettive case e a guardare meno la televisione. Una nevicata precoce aveva imbiancato le praterie dell’Oklahoma, e davanti al condominio un seminarista insonnolito spazzava via la neve dai marciapiedi. Non era molta e, pensò Kayman, non era neppure molto bella. Era uno scherzo della sua immaginazione, oppure era veramente grigiastra? Possibile che le ceneri delle foreste in fiamme della California e dell’Oregon avessero contaminato la neve a duemilacinquecento chilometri di distanza?

Brad suonò il claxon, e Kayman sussultò. — Scusami, — disse, salendo a bordo e chiudendo la portiera. — Senti, perché la volta prossima non prendiamo la mia auto? Consuma molto meno carburante della tua macchina.

Brad scrollò le spalle, incupito, e guardò nello specchietto retrovisore. Un altro hovercar, un modello sportivo, leggero, stava girando l’angolo, dietro di loro. — Tanto, guido per due egualmente, — disse il medico. — È lo stesso che mi pedinava martedì. Sono diventati incauti. Oppure vogliono farmi capire bene che mi tengono d’occhio.

Kayman si girò a guardare. L’altra macchina non si preoccupava certo di passare inosservata. — Sai chi è, Brad?

— Perché, hai qualche dubbio?

Kayman non rispose. In effetti, dubbi non ce n’erano. Il presidente aveva detto chiaro a Brad che in nessun caso doveva ronzare intorno alla moglie del mostro: glielo aveva detto nel corso di un colloquio durato mezz’ora e di cui Brad ricordava nitidamente ogni doloroso secondo. Il pedinamento era incominciato subito dopo, per far sì che Brad non lo dimenticasse.

Ma si trattava di un argomento che Kayman preferiva non discutere con Brad. Accese la radio e cercò un notiziario. Ascoltarono per alcuni minuti notizie censurate ma egualmente sconvolgenti di disastri vari, fino a quando Brad, senza dire una parola, allungò la mano e spense l’apparecchio. Poi procedettero in silenzio, sotto il cielo plumbeo, finché raggiunsero il gran cubo bianco del progetto, solo nella prateria desolata.

Là dentro non c’era nulla di grigio; le luci erano forti e brillanti; le facce erano stanche, talvolta preoccupate, ma erano vive. Lì dentro, almeno, pensò Kayman, c’era un’atmosfera di attività e di finalità. Il progetto procedeva secondo la tabella oraria.

E tra nove giorni l’astronave marziana sarebbe stata lanciata, e lui stesso sarebbe stato a bordo.

Kayman non aveva paura. Aveva orientato la propria vita in attesa di quel momento, sin dai primi giorni trascorsi in seminario, quando aveva compreso di poter servire il suo Dio anche senza salire su un pulpito, ed era stato incoraggiato dal padre superiore a coltivare il suo interesse non solo teologico ma anche astrofisico per il cielo. Comunque, era un pensiero opprimente.

Non si sentiva pronto. E sentiva che il mondo non era pronto per quell’impresa. Sembrava tutto così bizzarramente improvvisato, nonostante le eternità di tempo che avevano dedicato a quel lavoro, tutti, compreso lui. Non era ancora stata fatta nemmeno la scelta definitiva dei membri dell’equipaggio. Roger sarebbe andato: era la ragion d’essere del progetto, ovviamente. Sarebbe andato anche Kayman: questo era già stato stabilito. Ma i due piloti erano ancora provvisori. Kayman li aveva conosciuti entrambi e li aveva trovati simpatici. Erano tra i migliori della NASA, e uno aveva partecipato insieme a Roger ad una missione con una navetta spaziale, otto anni prima. Ma c’erano altri quindici che figuravano nell’elenco dei candidati… Kayman non conosceva neppure tutti i nomi: sapeva solo che erano parecchi. Vern Scanyon e il direttore generale della NASA erano andati in volo a discuterne con il presidente in persona, pregandolo di confermare le loro scelte; ma Dash, per motivi che lui solo conosceva, si era riservato il diritto alla decisione finale, e non aveva ancora fatto conoscere le sue intenzioni.

L’unica cosa che sembrava perfettamente pronta all’avventura era proprio l’anello della catena che un tempo era parso più debole: lo stesso Roger.

L’addestramento era andato magnificamente. Roger ormai si muoveva alla perfezione per tutto il palazzo del progetto: andava dalla stanza che considerava ancora «casa sua» alla vasca marziana, agli impianti per le prove, e dovunque volesse. Tutti i membri del progetto si erano abituati a vedere quell’essere alto, dalle ali nere, che procedeva a grandi balzi per i corridoi; gli enormi occhi sfaccettati riconoscevano un viso noto e la voce inespressiva lanciava un gaio saluto. Durante l’ultima settimana, Roger era stato requisito in esclusiva da Kathleen Doughty. Il suo sensorio appariva perfettamente controllato: era venuto il momento di imparare a sfruttare tutte le risorse della muscolatura. Perciò Kathleen aveva fatto venire un cieco, un ballerino classico e un ex paraplegico, e via via che Roger ampliava i propri orizzonti costoro cominciarono a educarlo. Il ballerino classico non era più un divo, ma lo era stato, e da ragazzino aveva studiato con Nureyev e Dolin. Il cieco non era più cieco. Non aveva occhi, ma il suo apparato ottico era stato sostituito da sensori molto simili a quelli di Roger; e insieme i due si scambiavano giudizi sulle sfumature di colore più sottili e sui metodi per manipolare i parametri della loro vista. Il paraplegico, che ora si muoveva grazie ad arti motorizzati antesignani di quelli di Roger, aveva impiegato un anno per imparare ad usarli, e lui e Roger prendevano insieme lezioni di ballo.

Non erano sempre insieme fisicamente. L’ex paraplegico, che si chiamava Alfred, era tuttora molto più umano di Roger Torraway, e tra le varie caratteristiche umane presentava anche l’esigenza di respirare aria. Quando Kayman e Brad entrarono nella sala comandi della vasca marziana, Alfred eseguiva scambietti al di qua della grande vetrata doppia e Roger, entro la vasca quasi completamente priva d’aria, ripeteva gli stessi movimenti. Kathleen Doughty contava le cadenze, e gli altoparlanti trasmettevano il valzer in la maggiore di Les Sylphides. Vern Scanyon stava seduto accanto a una parete, a cavalcioni su una sedia, con le braccia conserte sulla spalliera e il mento appoggiato sulle mani. Brad lo raggiunse subito, e i due cominciarono a parlare sottovoce.

Don Kayman trovò un posto a sedere accanto alla porta. Il paraplegico e il mostro eseguivano salti incredibilmente rapidi, agitando i piedi con movimenti fulminei. Non era la musica adatta per gli scambietti, pensò Kayman, ma nessuno dei due sembrava preoccuparsene. Il ballerino classico li osservava con un’espressione indecifrabile. Probabilmente vorrebbe essere un cyborg, pensò Kayman. Con simili muscoli, potrebbe dominare i palcoscenici di tutto il paese.

Era un’idea abbastanza divertente, ma impiegabilmente Kayman si sentiva a disagio. Poi ricordò: stava seduto esattamente in quel punto, quando Willy Hartnett gli era morto davanti agli occhi.

Sembrava fosse accaduto tanto tempo prima. Era trascorsa soltanto una settimana da quando Brenda Hartnett era venuta con i figli a salutare lui e suor Clotilda: ma già era quasi dileguata dalla loro mente. Il mostro chiamato Roger era il divo dello spettacolo, adesso. La morte di un altro mostro in quel luogo, avvenuta così poco tempo prima, apparteneva soltanto alla storia.

Kayman prese il rosario e cominciò a recitare le preghiere. Mentre una parte di lui ripeteva le Ave Maria, un’altra era conscia del contatto piacevole e caldo dei grani d’avorio e del netto contrasto offerto dai grani di cristallo. Aveva deciso di portare con sé su Marte il dono del Santo Padre. Sarebbe stato un peccato se fosse andato perduto… beh, lo sarebbe stato anche se fosse andato perduto lui, pensò. Non poteva calcolare i rischi in quel modo: perciò decise di fare ciò che evidentemente Sua Santità desiderava, e di portare quel dono nel più lungo viaggio che avesse mai compiuto.

Si accorse che qualcuno gli si era fermato accanto. — Buongiorno, padre Kayman.

— Salve, Sulie. — La sbirciò incuriosito. Cos’aveva di strano quella ragazza? Sembrava che i capelli neri avessero le radici dorate, ma la cosa non era molto sorprendente; anche un prete sapeva che le donne scelgono secondo il capriccio il colore della loro chioma. Del resto, lo facevano anche alcuni preti.

— Come va? — domandò Sulie.

— Direi perfettamente. Guardi come saltano! Roger mi sembra proprio a punto e, Deo volente, credo che riusciremo a farcela per la data del lancio.

— L’invidio, — disse l’infermiera, guardando l’interno della vasca marziana. Kayman si girò a fissarla, sbalordito. Nella voce di lei c’era più calore di quanto lo giustificasse un’osservazione casuale. — Dico sul serio, Don, — continuò Sulie. — La ragione principale per cui entrai nel programma spaziale era che volevo andare lassù anch’io. Forse ci sarei riuscita se…

S’interruppe e scrollò le spalle. — Beh, almeno aiuto lei e Roger, — riprese. — Non dicevano, una volta, che le donne servivano appunto a questo? Ad aiutare. Non è poi tanto male, comunque, quando si tratta di collaborare ad un’impresa importante come questa.

— Non mi sembra del tutto convinta, — osservò Kayman.

Sulie sorrise ironicamente e tornò a guardare la vasca.

La musica era cessata. Kathleen Doughty si tolse la sigaretta dalle labbra, ne accese un’altra e disse: — Okay, Roger, Alfred. Prendetevi dieci minuti di riposo. Siete andati benissimo.

Dentro la vasca, Roger sedette a gambe incrociate. Sembrava esattamente il Diavolo accovacciato sulla vetta nel classico cartone animato di Walt Disney, pensò Kayman: Una notte sul Monte Calvo.

— Cosa succede, Roger? — chiese Kathleen Doughty. — Non puoi certo esser stanco.

— Sono stanco di questa storia, — borbottò lui. — Non so perché debba essere costretto a questi balletti. Willy non lo faceva.

— Willy è morto, — scattò Kathleen.

Vi fu un silenzio. Roger volse la testa verso di lei, sbirciando oltre il vetro con i grandi occhi compositi. Poi ringhiò: — Non certo per la mancanza di scambietti.

— E tu come lo sai? Oh, — ammise la dottoressa, burberamente, — suppongo che potresti sopravvivere senza una parte di questo addestramento. Ma ti aiuterà a destreggiarti meglio. Non si tratta semplicemente d’imparare a muoverti. Devi anche imparare a non distruggere il tuo ambiente. Hai un’idea della tua forza attuale?

All’interno della vasca Roger esitò, poi scosse il capo. — Non mi sento particolarmente forte, — disse la voce incolore.

— Sei in grado di sfondare un muro con un pugno, Roger. Domandalo ad Alfred. Che tempo fa lei sul miglio, Alfred?

L’ex paraplegico intrecciò le mani sul ventre grasso e sogghignò. Aveva cinquantotto anni e non era mai stato un atleta, neppure prima che la myasthenia gravis distruggesse i suoi arti naturali. — Un minuto e quarantasette, — disse, orgoglioso.

— Da te mi aspetto anche di meglio, Roger, — esclamò Kathleen. — Quindi devi imparare a controllare i muscoli.

Roger emise un ringhio che non era neppure una parola, poi si alzò. — Compensate il vano stagno, — disse. — Voglio uscire.

Il tecnico toccò un interruttore e le grandi pompe cominciarono a riversare l’aria nel vano stagno con un suono simile a quello di un pezzo di linoleum lacerato. — Oh, — gemette Sulie Carpenter, a fianco di Don Kayman. — Non ho messo le lenti a contatto! — E scappò via prima che Roger entrasse nella sala.

Kayman la seguì con lo sguardo. Un enigma era risolto: adesso sapeva perché gli era parso che la ragazza avesse qualcosa di strano. Ma perché mai Sulie portava le lenti a contatto che facevano sembrare verdi i suoi occhi castani?

Scrollò le spalle e non ci pensò più.

Noi sapevamo il perché. Avevamo faticato parecchio per trovare Sulie Carpenter. I fattori critici costituivano un lungo elenco, e le voci meno importanti erano proprio il colore dei capelli e quello degli occhi, perché era facile cambiarli entrambi.


Con l’avvicinarsi della data di partenza, la posizione di Roger cominciò a cambiare. Per due settimane non era stato altro che un pezzo di carne sul banco del macellaio, affettato, rigirato e tagliato, senza la minima partecipazione personale, senza la possibilità di controllare quanto gli accadeva. Poi era stato uno studente, che eseguiva gli ordini degli insegnanti, e imparava a dominare i propri sensi e ad usare i nuovi arti. Era una fase di transizione, da esemplare di laboratorio a semidio, e ormai era quasi arrivato alla meta.

Roger si rendeva conto che stava accadendo questo. Da diversi giorni, ormai, discuteva tutto ciò che gli dicevano di fare, e talvolta rifiutava di obbedire. Kathleen Doughty non era più la sua padrona, capace di ordinargli di alzare cento volte il mento e di fare piroette per un’ora. Era una sua dipendente, e lo aiutava in ciò che lui voleva fare. Brad, che era diventato meno spensieratamente spiritoso e molto più attento, adesso chiedeva favori a Roger: — Prova questi test di discriminazione dei colori, ti dispiace? Farà una bella figura nel saggio che sto preparando su di te. — Spesso Roger li assecondava, ma qualche volta non voleva saperne.

Quella che assecondava più spesso era Sulie Carpenter, perché era sempre presente ed era sempre premurosa con lui. Roger aveva quasi dimenticato che somigliava tanto a Dorrie. Si accorgeva solo che lei era molto bella.

Sulie si adeguava ai suoi guizzi d’umore. Se Roger era nervoso, lei era gaiamente serena. Se lui voleva parlare, parlava. Spesso giocavano: Sulie era un’esperta giocatrice di Scarabeo. Una volta, a tarda notte, quando Roger cercava di stabilire per quanto tempo riusciva a rimanere sveglio, Sulie aveva portato una chitarra. Aveva cantato, e la piacevole, discreta voce di contralto della ragazza aveva abbellito il bisbiglio di lui, incolore e quasi afono. Il volto di lei era cambiato, mentre Roger lo guardava: ma aveva imparato come doveva fare. I circuiti d’interpretazione del suo sensorio riflettevano i suoi sentimenti quando egli lo permetteva; e talvolta Sulie Carpenter somigliava a Dorrie più di Dorrie stessa.

Quando egli ebbe finito le prove di quel giorno nella vasca marziana, Sulie fece a gara con lui nel tornare di corsa alla sua stanza: una ragazza ridente contro un pesante mostro, lungo gli ampi corridoi del laboratorio: vinse lui senza difficoltà, naturalmente. Chiacchierarono un po’, e poi Roger la mandò via.

Nove giorni alla partenza.

In realtà, si trattava di un periodo ancora più breve. Roger sarebbe stato condotto in aereo a Merritt Island tre giorni prima del lancio, e durante il suo ultimo giorno di permanenza a Tonka avrebbero provveduto ad adattargli il computer a zaino e a risintonizzare alcune parti del suo sistema sensoriale sulle tipiche condizioni marziane. Quindi gli restavano sei giorni… no, cinque.

E non vedeva Dorrie da intere settimane.

Si guardò nello specchio che aveva fatto installare: occhi d’insetto, ali di pipistrello, epidermide lucida. Si divertì a lasciar fluire le sue interpretazioni visive: pipistrello, mosca gigante, demonio… se stesso, così come si ricordava, con una faccia simpatica, giovanile.

Se almeno Dorrie avesse avuto a disposizione un computer per mediare la propria vista! Se avesse potuto vederlo così come era un tempo! Giurò a se stesso che non l’avrebbe chiamata; non poteva costringerla a vedere quella macchina da fumetti che era diventato suo marito.

E appena ebbe giurato, prese il telefono e fece il numero di Dorrie.

Fu un impulso irresistibile. Attese. Il suo senso del tempo, estensibile come una fisarmonica, prolungò l’attesa, e trascorse un’eternità prima che lo schermo cominciasse a lampeggiare e il cicalino dell’altoparlante trasmettesse il primo squillo.

Poi il tempo lo tradì di nuovo. Gli parve che trascorressero secoli, prima che giungesse il secondo squillo. Poi risuonò, e durò un’eternità, e cessò.

Dorrie non rispondeva.

Roger era il tipo che faceva caso a queste cose, e sapeva che molte persone non rispondono prima del terzo squillo. Dorrie, però, era sempre curiosa di conoscere chi mai era colui o colei che il telefono portava nella sua vita. Sia che fosse profondamente addormentata, sia che si trovasse nella vasca da bagno, ben di rado lasciava squillare l’apparecchio più di due volte.

Finalmente giunse il terzo squillo, e anche stavolta non ci fu risposta.

Roger cominciò a soffrire.

Si dominò meglio che poteva, perché non voleva far suonare l’allarme nei monitor telemetrici. Ma non riuscì a dominarsi completamente. Dorrie era uscita, pensò. Suo marito era diventato un mostro, e lei non era in casa a soffrire o a preoccuparsi: era uscita a far spese, o trovare un’amica, o a vedere un film.

Oppure era con un uomo.

Che uomo? Brad, pensò Roger. Non sarebbe stato impossibile; aveva lasciato Brad giù, davanti alla vasca, venticinque minuti prima, secondo l’orologio. Avevano avuto tutto il tempo per incontrarsi da qualche parte. Anzi, Brad aveva avuto addirittura il tempo di arrivare a casa Torraway. Forse Dorrie non era uscita. Forse…

Il quarto squillo…

Forse erano là, tutti e due, nudi, e si accoppiavano sul pavimento, davanti al telefono. Dorrie avrebbe detto: — Vai nell’altra stanza, tesoro, voglio vedere chi è. — E Brad avrebbe detto, ridendo: — No, rispondiamo così. — E lei avrebbe detto…

Quinto squillo… e lo schermo fiorì dei colori del viso di Dorrie. La sua voce disse: — Pronto?

Rapido come il suono, il pugno di Roger scattò e coprì la lente. — Dorrie, — disse. La sua voce gli sembrava aspra e inespressiva. — Come stai?

— Roger! — esclamò lei. La gioia di quel tono sembrava autentica. — Oh, tesoro, sono così felice di sentirti! Come va?

La voce di Roger rispose, automaticamente: — Benissimo. — Poi prosegui, senza bisogno di collaborazione da parte della sua mente conscia, a correggere l’affermazione, a raccontare ciò che gli accadeva, catalogando i test e gli esercizi. E nello stesso tempo scrutava lo schermo, con tutti i sensi acuiti al massimo.

Dorrie appariva… cosa? Stanca? Quella stanchezza confermava le paure di Roger. Lei se la spassava con Brad ogni notte, senza pensare al marito sofferente e umiliato. Riposata e gaia? Anche l’aria riposata e gaia era una conferma. Significava che lei si divertiva… senza preoccuparsi dei tormenti del marito.

Non c’era nulla che non andasse nel cervello di Torraway, poiché era abituato da sempre all’analisi e alla logica. Si rendeva perfettamente conto che il gioco che giocava con se stesso si chiamava «Tu perdi comunque». Tutto costituiva una prova della colpa di Dorrie. Eppure, sebbene egli scrutasse meticolosamente l’immagine di lei con quei suoi sensi potenziati, Dorrie non appariva ostile né affettatamente affettuosa. Era Dorrie e basta.

Quando pensò questo, Roger provò uno slancio di tenerezza che gli spezzò la voce. — Mi sei mancata tanto, tesoro, — disse, senza espressione. L’unica cosa che tradiva i suoi sentimenti fu il distacco d’una frazione di secondo prima dell’ultima sillaba: — Teso… ro.

— Mi sei mancato anche tu. Ho cercato di fare qualcosa, per tenermi occupata, caro, — cinguettò Dorrie. — Ho cominciato a ridipingere la tua stanza. È una sorpresa, ma naturalmente passerà tanto tempo prima che tu la veda… Beh, è color pesca. Con i pannelli di legno in color ranuncolo… e magari dipingerò il soffitto in celeste chiaro. Ti piace? Avevo pensato di farla tutta ocra e bruno, sai, i colori dell’autunno, i colori di Marte, per commemorare. Ma poi mi sono detta che quando ritornerai sarai stufo dei colori marziani! — Poi in fretta, senza pause: — Quando ti vedrò? — Il cambiamento di tono colse Roger di sorpresa.

— Beh, sono abbastanza orribile, — disse lui.

— Lo so come sei. Buon Dio, Roger, credi che Midge, Brenda e Callie ed io non ne abbiamo parlato in questi ultimi due anni? Fin dall’inizio del programma. Abbiamo visto i disegni. Abbiamo visto le foto dei modelli. E anche le foto di Willy.

— Non sono più come Willy. Hanno cambiato molte cose…

— E so anche questo, Roger. Brad mi ha raccontato tutto. Vorrei vederti.

In quel momento il viso di sua moglie divenne, senza preavviso, la faccia d’una strega. L’uncinetto che aveva in mano divenne una pesante scopa di saggina. — Vedi spesso Brad?

Vi fu una pausa d’un microsecondo, prima che lei rispondesse? — Penso che non avrebbe dovuto dirmelo, — fece, — per via della sicurezza e tutto il resto. Ma io ho voluto che me lo dicesse egualmente. Non è un gran male, tesoro. Non sono una bambina. Posso sopportarlo.

Per un attimo, Roger provò l’impulso di togliere la mano dalla lente e di farsi vedere, ma si sentiva strano, confuso. Non sapeva interpretare ciò che provava. Era vertigine? Una disfunzione della metà di lui che era una macchina? Sapeva che di lì a pochi istanti Sulie o Don Kayman o qualcun altro si sarebbe precipitato nella stanza, messo sull’avviso dagli apparecchi telemetrici. Si sforzò di dominarsi.

— Forse più tardi, — disse, senza convinzione. — Credo… credo che adesso farei bene a riattaccare, Dorrie.

Dietro di lei, anche il soggiorno di casa loro stava cambiando. La profondità del campo della lente non era delle migliori: persino per i suoi sensi meccanici il resto della stanza era confuso. C’era un uomo in piedi nell’ombra? Portava la camicia da ufficiale dei Marines? Era Brad?

— Adesso devo riattaccare, — disse: e lo fece.

Entrò Clara Bly, agitata, e cominciò a fare domande. Roger scosse il capo senza dir nulla.

Nei suoi occhi nuovi non c’erano ghiandole lacrimali, perciò naturalmente non poteva piangere. Gli era negato persino quel conforto.

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