CAPITOLO QUARTO GRUPPO DEI PROBABILI PORTATORI DELLA BARA

Roger Torraway, Colonnello (in congedo) delle Forze Aeree degli Stati Uniti, diplomato in lettere, dottore in lettere, dottore in scienze (honoris causa). Quando si svegliò, quel mattino, quelli del turno di notte finivano di controllare con una prova al banco i fotoricettori del cyborg. I monitor avevano segnalato una caduta di voltaggio non identificata, quando i fotoricettori erano stati usati l’ultima volta addosso al cyborg, ma dalla prova al banco non risultava niente, e quando li smontarono non scoprirono nulla. I fotoricettori vennero dichiarati in perfetto stato.

Roger aveva dormito male. Era una responsabilità terribile, essere il custode dell’ultima, sparuta speranza di libertà e di onestà per la razza umana. Si svegliava con quel pensiero in mente; c’era una parte di Roger Torraway, che si rivelava abitualmente nei sogni, e che aveva all’incirca nove anni. Accettava alla lettera tutto ciò che aveva detto il presidente, sebbene Roger, che aveva un’esperienza di diplomatico e di capo missione, aveva viaggiato in tutto il mondo e conosceva bene una dozzina di capitali, non fosse veramente convinto dell’esistenza del «Mondo Libero».

Si vestì, impegnato come al solito a risolvere una dicotomia. Presumiamo che il presidente Dash sia sincero, e che occupare Marte significhi salvare l’umanità, pensò. Ce la faremo? Pensò a Willy Hartnett… un bell’uomo (almeno prima di finire preda dei protesiologi). Amabile. Bravissimo a fare un po’ di tutto. Ma anche un po’ leggero, a ben guardare. Il tipo capace di bere un bicchiere di troppo al club, il sabato sera. E se partecipava a una festa, non c’era da fidarsi a lasciarlo in cucina con la moglie di un altro.

Non era un eroe, secondo nessuno dei parametri che Roger riusciva a escogitare. Ma chi era? Riesaminò mentalmente l’elenco delle riserve del cyborg. Il Numero Uno, Vic Freihart, attualmente impegnato in un giro di cerimonie ufficiali in compagnia del vicepresidente e temporaneamente sottratto all’ordine di successione. Il Numero Due, Carl Mazzini, in permesso per malattia, in attesa della guarigione della gamba che si era rotta a Mount Snow. Il Numero Tre: lui.

Nessuno di loro aveva le qualità di un Washington.

Fece colazione senza svegliare Dorrie, tirò fuori la macchina e la lasciò in moto mentre ritirava il giornale del mattino, lo gettava dentro al garage e chiudeva la porta. Il suo vicino, che era diretto verso il garage, lo salutò. — Visto la notizia, stamattina? Dash era in città, ieri sera. Una conferenza ad alto livello.

Roger rispose, automaticamente: — No, stamattina non ho acceso la televisione. — Io ho visto Dash, pensò, e potrei toglierti tutte le arie. Gli dispiaceva non poterlo dire. Le norme di sicurezza erano una maledetta scocciatura. Almeno una buona metà dei suoi recenti guai con Dorrie, ne era sicuro, derivava dal fatto che nelle riunioni mattutine e negli incontri tra le mogli del vicinato, lei poteva dire soltanto che suo marito era un’astronauta non più in attività, passato al lavoro amministrativo. Persino sui suoi viaggi all’estero era necessario mettere la sordina: «è fuori città», «viaggio d’affari»… tutto, tranne: «Beh, mio marito s’incontra con i Capi di Stato Maggiore delle Forze Aeree del Basutoland, questa settimana.» Dorrie aveva resistito. Resisteva ancora, o almeno se ne lagnava con Roger abbastanza spesso. Ma, a quanto ne sapeva lui, non aveva violato le norme di sicurezza. Poiché era noto che almeno tre delle mogli facevano regolarmente rapporto all’ufficiale del servizio di controspionaggio dei Laboratori, indubbiamente lui sarebbe venuto a saperlo.

Mentre saliva in macchina, Roger ricordò che non aveva dato un bacio a Dorrie.

Si disse che non aveva importanza: tanto, lei non si sarebbe svegliata e perciò non l’avrebbe saputo; e se per caso si fosse svegliata, avrebbe protestato perché lui l’aveva destata. Ma gli dispiaceva rinunciare a un rito. Tuttavia, mentre ci pensava, innestò automaticamente la marcia e formò il numero in codice del Laboratorio. La macchina si mosse. Roger sospirò, accese il televisore e guardò il Today Show fino a quando arrivò al lavoro.


Padre Donnelly S. Kayman, diplomato in lettere, laureato in lettere, libero docente, gesuita. Mentre egli cominciava a celebrare la messa nella Cappella di Nostra Signora a St. Jude, a tre miglia di distanza, dall’altra parte di Tonka, il cyborg trangugiava avidamente l’unico pasto che avrebbe ricevuto per quel giorno. Masticare era difficile, perché la mancanza di esercizio gli indolenziva le gengive, e la saliva non era più abbondante come un tempo. Ma il cyborg mangiò con entusiasmo, senza neppure pensare ai test in programma per quel giorno, e quando ebbe terminato fissò malinconicamente il piatto vuoto.

Don Kayman aveva trentun anni ed era il più autorevole areologo del mondo (vale a dire specialista del pianeta Marte)… o almeno del mondo libero. (Kayman era disposto ad ammettere che anche il vecchio Parnov dell’Istituto Shklovkii di Novosibirsk qualcosa sapeva.) Era anche un gesuita. Non riteneva di essere prima una cosa e poi l’altra: il suo lavoro era l’areologia, la sua personalità era il sacerdozio. Meticolosamente e con gioia elevò l’Ostia, bevve il vino, recitò la preghiera finale, diede un’occhiata all’orologio e fischiò. Si faceva tardi. Si sbarazzò dei paramenti a tempo di primato. Accennò a dare uno scappellotto amichevole al chierichetto messicano, che sorrise e gli spalancò la porta. Avevano simpatia l’uno per l’altro: Kayman pensava addirittura che un giorno quel ragazzo sarebbe potuto diventare anch’egli prete e scienziato.

Kayman, che adesso indossava un paio di calzoni e una camicia sportiva, balzò a bordo della sua decapotabile. Era una macchinaclassica: aveva le ruote anziché il cuscino d’aria compressa, e sarebbe stata in grado di viaggiare anche fuori dalle autostrade guidate. Ma dove poteva andare, fuori dalle autostrade? Don Kayman fece il numero del laboratorio, accese le batterie principali e aprì il giornale. Senza bisogno che egli le prestasse attenzione, la piccola macchina si inserì sulla strada, trovò un varco nel traffico, balzò ad occuparlo, e lo portò verso il lavoro, alla velocità di centoventi chilometri orari.

Le notizie sul giornale erano pessime, come al solito.

A Parigi il MFP aveva sferrato un altro colpo alla conferenza per la pace di Chandrigar. Israele aveva rifiutato di sgombrare dal Cairo e da Damasco. A New York la legge marziale, ormai in vigore da quindici mesi, non era servita a prevenire l’imboscata tesa a un convoglio della Decima Divisione di Montagna che cercava di passare il ponte Bronx-Whitestone per andare a dare il cambio alla guarnigione dello Shea Stadium: erano morti quindici militari, e il convoglio era ritornato nel Bronx.

Kayman abbandonò il giornale, tristemente. Inclinò lo specchietto retrovisore, alzò i vetri dei finestrini per deflettere un po’ il vento e cominciò a spazzolarsi i capelli che gli arrivavano fino alle spalle. Venticinque colpi da spazzola per parte… per lui era un rito, quasi come la Messa. Avrebbe dovuto spazzolarli di nuovo, quel giorno, perché doveva andare a pranzo con Suor Clotilda. Clotilda era già quasi convinta di voler far domanda per essere dispensata da alcuni dei suoi voti, e Kayman voleva riprendere la discussione con lei al più presto e il più a lungo e il più spesso possibile.

Poiché aveva una distanza più breve da percorrere, Kayman arrivò ai laboratori insieme a Roger Torraway. Scesero insieme, affidarono le rispettive macchine al sistema del parcheggio e salirono nella briefing room con lo stesso ascensore.


Il vicedirettore T. Gamble de Bell. Mentre si preparava a parlare al personale nella conferenza mattutina, il cyborg era trenta metri più in là, disteso a faccia in giù e nudo. Su Marte avrebbe mangiato soltanto cibi a basso residuo, e in quantità molto ridotta. Sulla Terra era necessario far funzionare almeno al minimo il suo apparato escretorio, nonostante le difficoltà causate dai cambiamenti della pelle e del metabolismo. Hartnett era contento di mangiare, ma odiava gli enemi.

Il direttore del progetto era un generale. Il dirigente scientifico era un illustre biofisico che aveva lavorato con Wilkins e con Pauling: vent’anni prima aveva smesso di occuparsi di scienza e aveva cominciato a fungere da facciata, perché era in quel modo che poteva ricavare maggiori soddisfazioni. Nessuno dei due aveva molto a che fare con l’attività dei laboratori, ma soltanto con i collegamenti tra coloro che lavoravano al progetto e i personaggi estranei che tenevano i cordoni della borsa.

Per quanto riguardava la parte più banale della routine quotidiana, se ne occupava il vicedirettore. Sebbene fosse ancora molto presto, aveva già ricevuto un fascio di appunti e di rapporti, e li aveva anche letti.

— Metti in codice il video — ordinò dal banco, senza alzare la testa. Sul monitor, sopra di lui, il profilo grottesco di Willy Hartnett si spezzò in un fascio di linee, poi nell’effetto neve, poi si ricostruì. (Si vedeva soltanto la testa. I presenti nella briefing room non potevano vedere l’umiliazione che Willy subiva, sebbene quasi tutti lo sapessero benissimo: figurava sul foglio delle attività quotidiane.) L’immagine non era più a colori. La visione era molto più grossolana, e la figura meno ferma. Ma adesso la trasmissione era completamente sicura (nell’eventualità che qualche spia si fosse inserita sul circuito chiuso): e nel rendere l’aspetto di Hartnett, la qualità dell’immagine, dopotutto, comportava ben poche differenze.

— Sta bene, — disse in tono aspro il vicedirettore, — avete sentito Dash, ieri sera. Non è venuto qui in caccia dei vostri voti: vuole che vi diate da fare. E lo voglio anch’io. Non voglio più altri pasticci come il fotoricettore.

Il vicedirettore girò una pagina. — Rapporto del mattino, — lesse. — Il comandante Hartnett funziona benissimo in tutti i sistemi, con tre eccezioni. Primo: il cuore artificiale non reagisce bene agli sforzi prolungati alle basse temperature. Secondo: il sistema CAV riceve piuttosto male nelle frequenze più alte dell’azzurro medio… e questo mi delude molto, Brad, aggiunse, interrompendosi e alzando lo sguardo verso Alexander Bradley, l’esperto dei sistemi percettivi dell’occhio. — Sai benissimo che siamo bloccati sulla banda dell’ultravioletto. Terzo: i collegamenti delle comunicazioni. Abbiamo dovuto ammetterlo, ieri sera, davanti al presidente. A lui non ha fatto piacere, e non fa piacere neppure a me. Il microfono applicato alla gola non funziona. In pratica, non abbiamo collegamenti a voce, alla pressione marziana normale, e se non troviamo una soluzione può darsi che ci troviamo costretti a tornare ai semplici sistemi visuali. Diciotto mesi di lavoro buttati dalla finestra.

Il vicedirettore si guardò intorno e posò gli occhi sullo specialista del cuore. — Bene. E la circolazione?

— È l’accumulazione del calore, — rispose Fineman in tono difensivo. — Il cuore funziona perfettamente. Vuole che lo progetti per condizioni tanto ridicole? Certo, potrei farlo, ma sarebbe alto due metri e mezzo. Aggiustate l’equilibrio termico. La pelle si chiude alle basse temperature e non trasmette. Naturalmente, il livello d’ossigeno nel sangue scende, e naturalmente il cuore accelera. È appunto quel che deve fare. Cosa pretende? Altrimenti a Hartnett verrà una sincope, e magari l’anossia al cervello. E allora, come ci ritroviamo?

Dal monitor, lassù in alto, la faccia del cyborg continuava a guardare impassibile. Aveva cambiato posizione (l’enema era terminato, la padella era stata portata via, e adesso Hartnett si era seduto). Roger Torraway, non troppo interessato a quella discussione che non riguardava la sua specializzazione, fissava pensieroso il cyborg. Si chiese cosa pensava il buon vecchio Willy, nel sentire che parlavano in quel modo di lui. Roger si era procurato gli studi psicologici personali su Hartnett spinto dalla curiosità, ma non li aveva trovati molto esaurienti. Roger era certo di sapere il perché. Tutti loro erano stati sottoposti a tanti test che avevano acquisito in misura considerevole la capacità di rispondere alle domande nel modo preferito dagli esaminatori. Ormai quasi tutti, nei laboratori, dovevano essere arrivati a tanto, di proposito o semplicemente per riflesso condizionato. Sarebbero stati meravigliosi giocatori di poker, pensò: sorridendo, ricordò le sue partite a poker con Willy. Ammiccò al cyborg, alzando i pollici in segno d’incoraggiamento. Hartnett non reagì. Era impossibile capire che cosa vedeva, con quegli occhi sfaccettati.

— … non possiamo cambiare di nuovo la pelle, — stava dicendo lo specialista dermatologo. — C’è già il problema del peso. Se aggiungiamo altri attivatori-sensori, quel poveraccio avrà l’impressione di portare sempre addosso uno scafandro.

Sorprendentemente, dal monitor uscì un rombo. Il cyborg parlò: — E cossssa diiavolo credi che mi ssssembri, adesssso?

Un attimo di silenzio, mentre tutti i presenti ricordavano che stavano parlando di un essere umano vivente. Poi il dermatologo insistette. — A maggior ragione. Vorremmo renderla più sottile, semplificarla, ridurre il peso: non complicarla ancora.

Il vicedirettore alzò la mano. — Voi due mettetevi d’accordo, — ordinò ai contestatori. — Non dovete dire a me quello che non potete fare: sono io che dico a voi quello che dovete fare. Adesso a te. Brad. Cos’è questa storia dell’interruzione della vista?

Alex Bradley rispose gaiamente: — Tutto sotto controllo. Posso rimediare. Will, mi dispiace, ma questo significa un altro innesto. Ho capito cos’è che non va. È nel sistema di mediazione della retina: filtra le sequenze di troppo. Il sistema va bene, ma…

— Allora fai in modo che funzioni, — disse il vicedirettore, dando un’occhiata all’orologio. — E per le insufficienze delle comunicazioni?

— Ne parli con gli specialisti della respirazione, — rispose l’addetto agli impianti meccanici. — Se ci danno un po’ più d’aria, Hartnett potrà avere una specie di voce… I sistemi elettronici vanno benissimo, il guaio è che non hanno un mezzo in cui possano operare.

— Impossibile! — esclamò lo specialista dei polmoni. — Ormai ci avete lasciato soltanto cinquecento centimetri cubi di spazio! Hartnett consuma l’aria in dieci minuti. L’ho fatto esercitare un centinaio di volte per insegnargli a conservarla…

— E non è sufficiente che bisbigli? — chiese il vicedirettore. Poi, mentre l’esperto delle comunicazioni cominciava a snocciolare le curve delle reazioni alle frequenze, aggiunse: — Trova un sistema, chiaro? Tutto il resto sembra che vada bene. Ma non dormite sugli allori. — Chiuse gli appunti nella cartelletta di plastica e li consegnò al suo assistente. — Cioè, — riprese, — adesso siamo arrivati alla parte più importante.

Attese che gli altri si mettessero tranquilli. — Il presidente è venuto qui ieri sera perché è stato approvato un lancio. Amici, si avvicina il grande momento.

— Quando? — gridò una voce.

Il vicedirettore continuò: — Al più presto possibile. Dobbiamo completare il nostro lavoro… e voglio dire che dobbiamo completarlo sul serio, amici: mettere Hartnett in grado di dare prestazioni ottimali, in modo che possa vivere effettivamente su Marte, in tempo per la finestra di lancio del mese prossimo. E su Marte non ci sarà la possibilità di rispedirlo nei laboratori, se qualcosa va storto. Il lancio è fissato per le ore zero otto zero zero del dodici novembre. Quindi abbiamo a disposizione quarantatré giorni, ventidue ore e qualche minuto. Non di più.

Vi fu una pausa di un secondo, poi un brusio precipitoso di voci. Persino l’espressione del cyborg cambiò visibilmente, anche se nessuno avrebbe saputo dire se mostrava sgomento o euforia.

Il vicedirettore continuò: — E questo non è tutto. La data è stata fissata, non la si può cambiare, e dobbiamo essere pronti per allora. Adesso devo spiegarvi il perché. Luci, prego.

Le luci si abbassarono nella saletta e il vice del vice, senza aspettare un segnale, proiettò una diapositiva sulla parete di fondo, dove tutti potevano vederla, persino il cyborg nella sua cella lontana. Rappresentava un grafico quadrettato, con una larga linea nera che saliva diagonalmente verso una barra rossa. In alto, a vivaci lettere arancione, c’era la scritta: SEGRETISSIMO — USO ESCLUSIVAMENTE VISIVO.

— Permettetemi di spiegarvi di cosa si tratta, — disse il vicedirettore. — La diagonale nera è la risultante di ventidue indici e tendenze, che vanno dall’equilibrio monetario internazionale all’incidenza dei fastidi causati ai turisti americani dai funzionari governativi stranieri. La risultante dà la misura della probabilità di una guerra. La barra rossa in alto reca l’indicazione S.O., che significa «Scoppio delle Ostilità». Non rappresenta una certezza assoluta. Ma gli specialisti di statistica ci dicono che, quando si raggiunge il limite superiore, vi sono zero virgola nove probabilità di guerra entro sei ore: e come potete vedere, ci stiamo per l’appunto avvicinando.

Tutti i rumori erano cessati. Nella saletta regnava un silenzio di tomba. Finalmente una voce chiese: — Qual è la scala cronologica?

— I dati precedenti coprono trentacinque anni, — disse il vicedirettore. Ci fu qualche segno di sollievo: almeno lo spazio bianco in alto sarebbe stato raggiunto entro qualche mese, non dopo pochi minuti.

Poi Kathleen Doughty domandò: — Il grafico indica contro chi entreremo in guerra?

Il vicedirettore esitò, poi disse, cautamente: — No, questo non è incluso nel grafico, ma penso che ognuno di noi possa trarre le proprie deduzioni. Posso dirvi, ad esempio, quello che penso io. Se leggete i giornali, saprete che i comunisti cinesi hanno fatto un gran parlare delle meraviglie che potrebbero creare in fatto di produzione alimentare applicando le tecniche di coltivazione della provincia del Sinkiang al retroterra australiano. Beh, qualunque cosa sia disposto ad accettare quel branco di quisling di Canberra, sono sicuro che il nostro governo non permetterà che i cinesi invadano l’Australia. Almeno, se ci tiene ad avere ancora il mio voto. — Dopo un momento, aggiunse: — Questa è solo la mia opinione personale, espressa in via ufficiosa: non trascrivetela sulle minute della riunione. Non conosco l’opinione ufficiale, e se anche se la conoscessi non ve la confiderei. Io so soltanto ciò che sapete voi adesso. Le previsioni indicate dalla linea di tendenza sono decisamente brutte. Ora mostrano le probabilità di un’escalation nucleare molto rapida. Abbiamo anche la data. La curva, se continuerà così, porterà a zero virgola nove probabilità entro meno di sette anni.

«Il che significa, — aggiunse, — che se allora non avremo una colonia marziana capace di sopravvivere, forse non l’avremo mai più.»


Alexander Bradley, diplomato in scienze, ingegnere elettrotecnico, dottore in medicina, dottore in scienze, tenente colonnello dell’USMCR (in congedo). Mentre Bradley lasciava la conferenza e cambiava espressione, passando da quella preoccupata che aveva ostentato durante il briefing all’abituale, più naturale giovialità aperta che mostrava sempre al mondo, il cyborg si stava sottoponendo all’abbassamento di pressione per entrare nella vasca marziana. I suoi osservatori erano piuttosto preoccupati. Sebbene non potessero leggere alcuna emozione sulla sua faccia, potevano leggerla nel suo cuore, nella respirazione e nei segnali delle funzioni vitali trasmessi continuamente, e avevano l’impressione che si trovasse in uno stato piuttosto teso. Gli proposero di rimandare il test, ma il cyborg rifiutò irritato. — Non sssapete che c’è quasssi una guerra? — domandò in toni striduli quando ripresero a parlargli. Decisero di continuare i test, ma anche di ricontrollare il suo profilo psicologico non appena li avessero completati.

Quando Alexander Bradley aveva dieci anni aveva perduto il padre e l’occhio sinistro. La domenica dopo la Festa del Ringraziamento la famiglia stava tornando in macchina dalla chiesa. La temperatura era scesa. La rugiada mattutina si era gelata trasformandosi in una pellicola impalpabilmente sottile e viscida sulla strada. Il padre di Brad guidava con prudenza, ma c’erano altre macchine dietro, e macchine sull’altra corsia che venivano dalla direzione opposta; era costretto a mantenere una certa velocità, e rispondeva molto concisamente quando i familiari gli dicevano qualcosa. Era attento, ma forse non abbastanza. Quando avvenne l’incidente non poté fare nulla per evitarlo. A Brad, che sedeva davanti accanto al padre, parve che una station wagon avviata verso di loro a un centinaio di metri di distanza girasse, lentamente e con calma, come se svoltasse a sinistra. Ma lì non c’era una strada in cui poteva svoltare. Il padre di Brad premette il freno e lo tenne schiacciato. La loro macchina rallentò e slittò. E per qualche secondo, il ragazzo vide l’altra macchina slittare di traverso, venire verso di loro. Era un movimento lento e solenne e inevitabile. Nessuno disse nulla: né Brad, né suo padre, né sua madre che stava seduta dietro. Nessuno fece nulla: mantennero le loro pose, irrigiditi, come fossero attori in un quadro vivente della Commissione Nazionale del Traffico. Il padre stava muto e immoto al volante, a fissare l’altra macchina. Il guidatore dell’altra macchina teneva girata la testa verso di loro e li fissava ad occhi sbarrati, con aria interrogativa. Nessuno si mosse, prima dello scontro. Sebbene ci fosse il ghiaccio, l’attrito li faceva rallentare, e non potevano muoversi ad una velocità cumulativa superiore ai quaranta chilometri orari. Ma bastò. I due guidatori rimasero uccisi sul colpo: il padre di Brad trapassato dal piantone del volante, l’altro decapitato. Brad e sua madre, sebbene avessero le cinture di sicurezza, subirono fratture, ematomi e tagli e lesioni interne. La madre perse la mobilità del polso sinistro, il figlio perse un occhio.

Ventitré anni dopo, Brad sognava ancora quell’incidente, come se fosse appena accaduto. Nel sonno gli incuteva un tale panico da fargli perdere la ragione, ed egli si svegliava sudato, piangente, ansimante.

Non c’erano state, però, soltanto le perdite. Brad aveva scoperto che al prezzo di un occhio si potevano acquisire vantaggi considerevoli. C’era l’assicurazione sulla vita di suo padre e per i danni a terzi. Inoltre, la mutilazione gli aveva risparmiato di venire arruolato nell’esercito e gli aveva permesso di entrare nel Corpo dei Marine con un incarico essenzialmente civile, quando aveva voluto acquisire esperienza sul campo nella sua specialità. Inoltre, gli aveva dato un pretesto accettabile per evitare i rischi più stupidi e gli obblighi più noiosi dell’adolescenza. Non era mai stato costretto a dar prova del suo coraggio negli sport violenti ed era sempre stato esentato dalle attività ginniche che più detestava.

E soprattutto, ci aveva guadagnato la possibilità di studiare. L’Assistenza Ragazzi Handicappati del sistema previdenziale del suo Stato gli aveva pagato gli studi, alle superiori, all’università e ai corsi per studenti laureati. L’incidente gli aveva dato quattro lauree e aveva fatto di lui uno dei massimi esperti mondiali dei sistemi percettivi dell’occhio. Nel complesso, si trattava di una transazione favorevole. Ne era valsa la pena, anche mettendo in conto il fattore negativo di una madre che aveva passato gli ultimi anni di vita tra qualche dolore e una estrema irritabilità.

Brad era finito nel Progetto Man Plus perché era il meglio che il governo potesse procurarsi. Aveva deciso di lavorare per il Corpo dei Marines perché soggetti sperimentali (preparati dai mortai, dalle grosse spade e dai bolo) migliori di quelli che si trovavano negli ospedali da campo della Tanzania, del Borneo e di Ceylon era impossibile scovarli. Il suo lavoro era stato notato dalle alte gerarchie militari. Non avevano semplicemente accettato Brad: lo avevano requisito.

In realtà, non era assolutamente certo che il Progetto Man Plus fosse proprio il meglio che lui poteva ottenere. Altre reclute erano state attratte nel programma spaziale grazie all’entusiasmo o agli appelli al dovere. Non appena Brad aveva capito dove intendeva arrivare l’incaricato di Washington, aveva visto schiudersi davanti a sé nuove, grandi possibilità, e anche nuove implicazioni. Era un settore nuovo: sarebbe stato necessario abbandonare certi piani e procrastinarne altri. Tuttavia si rendeva conto di dove poteva arrivare: tre anni trascorsi a creare e perfezionare i sistemi ottici del cyborg. Avrebbe acquisito una fama mondiale. E poi avrebbe abbandonato il programma e sarebbe entrato nei lussureggianti pascoli sconfinati della professione privata. Cento e otto americani su centomila presentavano una perdita praticamente totale delle funzioni di un occhio o di entrambi. In complesso, c’erano più di trecentomila possibili pazienti, ognuno dei quali avrebbe aspirato a farsi curare dal miglior specialista del campo.

Il fatto di lavorare nel programma Man Plus lo avrebbe immediatamente qualificato come lo specialista migliore. Avrebbe potuto avere una clinica tutta sua prima di arrivare ai quarant’anni. Non molto grande: solo quanto bastava per poterla controllare personalmente in tutti i particolari; e a farla andare avanti avrebbe pensato un gruppo di medici istruiti da lui, che avrebbero lavorato sotto la sua direzione. Avrebbe curato, oh, forse cinque o seicento pazienti l’anno… una frazione dell’uno per cento dei pazienti teorici. Quale frazione di quell’uno per cento avrebbe potuto accettare? Almeno per metà dovevano appartenere alla categoria dei più solvibili e dei meglio disposti a pagare. E poi, naturalmente, i casi curati per carità. Almeno cento all’anno: tutto gratis, persino il telefono accanto al letto. E quelli che potevano pagare avrebbero pagato parecchio. La Clinica Bradley (gli sembrava già famosa e ben solida come la «Menninger») sarebbe stata un modello per i servizi medici di tutto il mondo, e gli avrebbe reso un patrimonio.

Non era stata colpa di Bradley, se quei tre anni erano diventati più di cinque. Non era neppure la sua parte del programma che aveva causato i ritardi… almeno, ne aveva causata una minima parte. Comunque, era ancora giovane. Avrebbe lasciato il programma con davanti a sé ancora trent’anni buoni di attività professionale… a meno che decidesse di ritirarsi prima, magari conservando una consulenza e un bel mucchietto di azioni della Clinica Bradley. E poi, lavorare nel programma spaziale dava altri vantaggi: molti suoi colleghi avevano sposato donne bellissime. Bradley non ci teneva a sposarsi, ma gli piaceva occuparsi delle mogli altrui.

Ritornato nel laboratorio di sette stanze dove regnava sovrano, Brad maltrattò a dovere i suoi subordinati per assicurarsi che il nuovo collegamento di mediazione per la retina fosse pronto per il trapianto entro la settimana, e poi diede un’occhiata all’orologio. Non erano ancora le undici. Chiamò Roger Torraway all’intercom e dopo qualche istante riuscì a mettersi in contatto con lui. — Pranziamo insieme, Rog? Vorrei parlare con te di questo nuovo innesto.

— Oh, è un peccato, Brad. Vorrei tanto poterlo fare. Ma sarò nella vasca con Will Hartnett almeno per tre ore. Magari domani.

— Allora grazie, — disse allegramente Brad, e riattaccò. Non era sorpreso: aveva già controllato gli orari di Torraway. Ma era soddisfatto. Disse alla segretaria che usciva per una conferenza e che avrebbe pranzato fuori; sarebbe tornato dopo le due. Poi si fece portare la macchina. E compose le coordinate dell’angolo dell’isolato dove abitava Roger Torraway. Dove abitava Dorrie Torraway.

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