CAPITOLO DODICESIMO DUE SIMULAZIONI E UNA REALTÀ

Roger dalle dita di rame aveva fatto saltare più di una valvola. Aveva mandato in corto un’intera scatola di interruttori di circuiti. Ci vollero venti minuti perché tornasse la luce.

Per fortuna il 3070 aveva energia di riserva per la sua memoria, perciò i nuclei magnetizzati non furono cancellati. I calcoli che erano in corso risultarono compromessi. Sarebbe stato necessario rifarli di nuovo. La sorveglianza automatica rimase fuori uso per molto tempo, dopo che Roger se ne fu andato.

Una delle prime persone che vennero a sapere cos’era successo fu Sulie Carpenter, che sonnecchiava nell’ufficio accanto alla sala computer e attendeva che finisse la simulazione riguardante Roger. La simulazione non finì. I campanelli d’allarme che indicavano l’interruzione dell’elaborazione delle informazioni la svegliarono. Le fulgide lampade fluorescenti erano spente, e soltanto quelle rosse a incandescenza irradiavano un chiarore fioco e deprimente.

Il primo pensiero di Sulie fu per la sua preziosa simulazione. Passò venti minuti con i programmatori, a studiare i risultati in chiaro parziali, augurandosi che tutto andasse bene, poi vi rinunciò e si precipitò nell’ufficio di Vern Scanyon. E allora scoprì che Roger era scappato.

Intanto la corrente era ritornata: era tornata mentre lei faceva a due per volta i gradini della scala di sicurezza. Scanyon era già al telefono, e chiamava ad una riunione d’emergenza le persone che considerava colpevoli. Fu Clara Bly a riferire a Sulie quel che aveva fatto Roger; uno ad uno, via via che entravano gli altri, vennero messi al corrente. Don Kayman era l’unico personaggio di rilievo che si trovasse fuori dal progetto: lo rintracciarono mentre guardava la televisione nel condominio dei religiosi. Kathleen Doughty salì dalla stanza di fisioterapia, trascinando con sé Brad, tutto umido e con la pelle arrossata: aveva cercato di sostituire con un’ora di sauna una notte di sonno. Freeling era a Merritt Island, ma non c’era molto bisogno di lui; altri cinque o sei entrarono e si lasciarono cadere, depressi o preoccupati, sulle sedie di pelle intorno al tavolo delle conferenze.

Scanyon aveva già ordinato di far decollare l’elicottero da ricerche delle Forze Aeree, per cercare tutto intorno al progetto. Le telecamere dell’apparecchio frugarono la superstrada, le strade d’accesso, i parcheggi, i campi e la prateria, e mostravano ciò che inquadravano sul televisore a muro in fondo alla stanza. La polizia di Tonka era stata messa in allarme, con l’ordine di cercare uno strano essere che sembrava un diavolo e che correva a settanta chilometri orari: e questo aveva messo nei guai il sergente di turno di Tonka. Il sergente commise un grave errore. Chiese all’ufficiale del servizio di sicurezza del progetto se aveva bevuto troppo. Dieci secondi dopo, con la testa piena delle visioni di se stesso mandato a dirigere il traffico a Kiska, il sergente stava impartendo ordini via radio a tutti i veicoli e ai poliziotti a piedi. Gli ordini erano di non arrestare Roger, di non avvicinarlo neppure: si doveva solo trovarlo.

Scanyon voleva un capro espiatorio. — La ritengo responsabile, dottor Ramez! — abbaiò allo psichiatra dello staff. — Lei e il maggiore Carpenter. Come avete potuto permettere che Torraway combinasse una cosa simile senza preavvertirci?

Ramez rispose, accattivante: — Generale, le avevo detto che Roger era instabile, per quanto riguardava la moglie. Ecco perché avevo chiesto qualcuno come Sulie. Roger aveva bisogno di un altro oggetto su cui fissarsi, qualcuno legato direttamente al progetto…

— Non è andata molto bene, vero?

Sulie smise di ascoltare. Sapeva benissimo che dopo sarebbe toccato a lei, ma tentava di riflettere. Al di là della scrivania di Scanyon vedeva le inquadrature mobili trasmesse dall’elicottero. Erano espresse schematicamente: le strade erano linee verdi, i veicoli punti azzurri, gli edifici gialli. I pochi pedoni erano di un rosso vivo. Ora, se uno di quei punti rossi avesse improvvisamente cominciato a muoversi alla velocità di un veicolo azzurro, sarebbe stato Roger. Ma Roger aveva avuto tutto il tempo di allontanarsi dall’area che l’elicottero andava controllando.

— Dia ordine di cercare in città, generale, — disse Sulie all’improvviso.

Scanyon aggrottò la fronte, ma prese il telefono e impartì l’ordine. Non ebbe il tempo di posare il ricevitore: c’era una chiamata che non poteva rifiutare.

Telly Ramez si alzò dalla sedia accanto al direttore e girò intorno alla tavola, accostandosi a Sulie Carpenter, che non alzò gli occhi dalla trascrizione della simulazione. Ramez attese, paziente.

La chiamata per il direttore era del presidente degli Stati Uniti. Gli altri presenti lo avrebbero capito dal sudore che colava dalle tempie di Scanyon, anche se non avessero visto la faccia di Dash sul minuscolo schermo. Debolissima, la voce arrivava fino a loro: — … ho parlato con Roger e mi è sembrato… non so, disinteressato. Ci ho pensato parecchio, Vern, e poi ho deciso di chiamarla. Procede tutto bene?

Scanyon deglutì. Si guardò intorno e poi, bruscamente, rialzò i petali insonorizzanti intorno al microfono; l’immagine rimpicciolì, si ridusse alla grandezza di un francobollo. La voce svanì, perché il suono era stato trasferito a un altoparlante parabolico puntato direttamente verso la testa di Scanyon, e le parole del generale venivano inghiottite dagli schermi a forma di petalo. Comunque, i presenti non faticarono a seguire la conversazione: sembrava scritta a chiare lettere sulla faccia di Scanyon.

Sulie alzò gli occhi dalla trascrizione e li fissò su Telly Ramez. — Fagli interrompere la telefonata, — disse, impaziente. — So dov’è Roger.

Ramez disse: — A casa di sua moglie.

La giovane donna si soffregò gli occhi, stancamente. — Penso che per questo non ci occorra una simulazione, no? Mi dispiace, Telly. Forse non lo tenevo saldamente in pugno come credevo.


Avevano ragione, naturalmente: noi lo sapevamo già. Non appena Scanyon smise di parlare con il presidente, l’ufficio del servizio di sicurezza chiamò per riferire che i microfoni nascosti nella camera da letto di Dorrie avevano captato il rumore che Roger aveva fatto entrando dalla finestra.

Gli occhietti gialli di Scanyon sembravano sul punto di riempirsi di lacrime. — Passate il sonoro, — ordinò. — E inquadrate la casa. — Poi prese con il telefono una linea esterna e fece il numero di Dorrie.

Dall’altoparlante giunse uno squillo, poi un rumore metallico e la voce inespressiva del cyborg che gracchiò: — Pronto. — E un momento dopo, sommesso ma altrettanto inespressivo: — Cristo.

Scanyon gettò via il microfono e si strofinò gli occhi. — Cosa diavolo è successo? — domandò. Nessuno rispose a quella domanda retorica; impacciato, il generale riprese il microfono. — Ricevo una specie di segnale di guasto, — annunciò.

— Possiamo mandare un uomo, generale, — propose il vicecapo del servizio di sicurezza. — Ci sono due dei nostri in quella macchina, là davanti alla casa. — L’inquadratura ripresa dall’elicottero si era spostata, fermandosi ad una quota di 600 metri sopra Courthouse Square della città di Tonka. Un rettangolo buio circondato dalle luci mobili delle macchine, appena sotto il punto centrale dello schermo, era Courthouse Square, e la casa di Roger era indicata da una stellina rossa. Il vicecapo tese la mano verso la chiazza di luce vicina, per mostrare la macchina. — Eravamo in contatto con loro, generale, — proseguì. — Non hanno visto entrare il colonnello Torraway.

Sulie si alzò. — Non lo consiglio, — disse.

— I suoi consigli non mi entusiasmano molto, adesso, maggiore Carpenter, — ringhiò Scanyon.

— Comunque, generale… — Sulie s’interruppe, quando Scanyon alzò la mano.

Dall’altoparlante uscì, esile, la voce di Dorrie: Voglio una tazza di tè. E poi la voce di Roger: Non preferisci che ti prepari qualcosa da bere? E la risposta, quasi impercettibile: No.

— Comunque, — intervenne Sulie, — adesso Roger è abbastanza stabile. Non roviniamo tutto.

— Ma non posso lasciarlo là! Chi diavolo può sapere cosa combinerà, dopo? Lei, forse?

— Lo ha individuato. Non credo che si muoverà, comunque, almeno per un po’. Don Kayman non si trova molto lontano di lì, ed è un amico. Gli dica di andare a prendere Roger.

— Kayman non è specialista di combattimento.

— È questo che vuole? Se Roger non torna indietro con le buone, cos’ha intenzione di fare?

Vuoi un po’ di tè?

No… No, grazie.

— E spenga quell’apparecchio, — aggiunse Sulie. — Lasci un po’ d’intimità a quel povero diavolo.

Scanyon tornò a sedere, lentamente, battendo entrambe le mani sul piano della scrivania, con molta delicatezza. Poi prese il telefono e impartì gli ordini. — Faremo ancora una volta a modo suo, maggiore, — disse. — Non perché io abbia molta fiducia. Ma non ho altra scelta. Non posso minacciarla. Se va male anche questa volta, non credo che sarò in condizioni di punire nessuno. Ma sono certo che qualcuno provvederà anche a questo.

Telesforo Rasmez disse: — Signore, capisco la sua posizione, ma penso che lei non sia giusto nei confronti di Sulie. La simulazione mostra che Roger deve avere un confronto con sua moglie.

— Lo scopo di una simulazione, dottor Ramez, è dirci quello che accadrà prima che accada.

— Bene, e dimostra anche che Torraway è fondamentalmente piuttosto stabile sotto ogni altro aspetto. Sistemerà tutto, generale.

Scanyon riprese a battere le mani sulla scrivania.

Ramez proseguì: — È un uomo complicato. Lei ha visto i suoi risultati nei Test di Appercezione Tematica, generale. Ha punteggi elevati in tutte le aspirazioni fondamentali: realizzazione, affiliazione… non molto elevati per quanto riguarda il potere, ma comunque ragionevoli. Non è un manipolatore. È introspettivo. Ha bisogno di chiarire le cose dentro di sé. Queste sono le qualità che lei vuole, generale. Roger ne ha bisogno. Non può pretendere che abbia una personalità, qui in Oklahoma, e su Marte ne abbia un’altra.

— Se non mi sbaglio, — disse il generale, — è quanto lei mi aveva promesso, con le sue modifiche del comportamento.

— No, generale, — disse pazientemente lo psichiatra. — Ho promesso soltanto che, se gli avesse dato una ricompensa come Sulie Carpenter, Roger avrebbe trovato più facile riconciliarsi con i problemi nei confronti della moglie. Ed è stato così.

— Il mod-B ha la sua dinamica, generale, — intervenne Sulie. — Lei mi ha chiamato piuttosto tardi.

— E cosa vorreste dirmi? — chiese minacciosamente Scanyon. — Che Torraway crollerà, quando sarà su Marte?

— Spero di no. Le probabilità sono buone, le migliori che noi possiamo creare, generale. Roger si è liberato di una quantità di vecchio ciarpame: può vederlo dai suoi ultimi Test di Appercezione Tematica. Ma fra sei giorni se ne sarà andato, e io non farò più parte della sua vita. E questo è un errore. Il mod-B non dovrebbe mai venire troncato bruscamente. Andrebbe interrotto gradualmente… Roger dovrebbe vedermi sempre meno spesso, fino a che avesse la possibilità di costruirsi delle difese.

Il delicato battito sul piano della scrivania era più lento, adesso. Scanyon disse: — È un po’ tardi per dirmi questo.

Sulie alzò le spalle e non rispose.

Scanyon si guardò intorno, pensieroso. — Sta bene. Per stanotte, abbiamo fatto tutto quel che potevamo. Siete tutti in libertà fino alle otto… no, facciamo fino alle dieci di domattina. A quell’ora ognuno di voi dovrà aver preparato un rapporto, non più lungo di tre minuti, per il rispettivo campo di responsabilità, e per proporre ciò che dovremmo fare.


Don Kayman ricevette il messaggio da una macchina della polizia di Tonka: gli piombò alle spalle, con i fari che lampeggiavano e la sirena che urlava, e lo bloccò per ordinargli di tornare indietro e di andare all’appartamento di Roger.

Kayman bussò alla porta con una certa trepidazione, senza sapere cosa avrebbe trovato. E quando la porta si aprì per lasciare apparire gli occhi scintillanti di Roger, Kayman bisbigliò in fretta un’Ave Maria mentre cercava di sbirciare nell’appartamento… per cercare che cosa? Il cadavere smembrato di Dorrie Torraway? Lo sfacelo della devastazione? Ma non vide altro che Dorrie, raggomitolata su una poltrona, piangente. Quella scena quasi lo rallegrò, poiché si era preparato a ben peggio.

Roger lo seguì senza discutere. — Addio, Dorrie, — disse, e non attese una risposta. Faticò a sistemarsi a bordo della piccola auto di Don Kayman, ma le sue ali si ripiegarono. Spingendo indietro al massimo il sedile, riuscì ad accomodarsi, in una posizione precaria e rattrappita che sarebbe stata disperatamente scomoda per qualunque essere umano normale. Ma Roger, naturalmente, non era un essere umano normale. Il suo sistema muscolare accettava sovraccarichi prolungati in quasi tutte le posizioni che poteva assumere.

Tacquero fino a quando arrivarono nelle vicinanze del progetto. Poi Don Kayman si schiarì la gola. — Ci hai spaventati tutti.

— L’immaginavo, — rispose la voce inespressiva del cyborg. Le ali fremettero inquiete, strofinandosi l’una contro l’altra, come in un soffregarsi di mani. — Volevo vederla, Don. Per me era molto importante.

— Posso capirlo. — Kayman entrò nell’ampio parcheggio deserto. — E allora? — sondò. — Va tutto bene?

La maschera del cyborg si girò verso di lui. I grandi occhi compositi scintillavano come ebano sfaccettato, senza espressione, mentre Roger diceva: — Sei matto, padre Kayman. Come può andar bene?


Sulie Carpenter pensava con nostalgia al sonno, come avrebbe pensato a una vacanza sulla Costa Azzurra. Ma l’uno e l’altra, per il momento, erano egualmente impossibili. Prese due compresse di anfetamine e si fece un’iniezione di vitamina B-12 in un punto del braccio che aveva imparato a individuare molto tempo prima.

La simulazione del comportamento di Roger era stata compromessa quando la corrente era venuta meno, perciò dovette ricominciare da cima a fondo. Noi eravamo contenti che fosse così: ci offriva l’occasione di apportare qualche correzione.

Mentre Sulie Carpenter aspettava le risposte, fece un lungo bagno caldo in una vasca da idroterapia, e quando la simulazione fu completata la studiò scrupolosamente. Aveva imparato a leggere le enigmatiche lettere maiuscole ed i numeri per evitare gli errori di programmazione: ma questa volta non dedicò neppure un attimo al hardware e prese subito in esame la risposta finale in chiaro. Era eccezionalmente in gamba, nel suo lavoro.

E non era un’infermiera. Sulie Carpenter era stata una delle prime donne specializzate in medicina aerospaziale. Aveva una laurea in medicina, si era specializzata in psicoterapia, anzi in tutta la miriade di eclettiche discipline psichiatriche, e poi era entrata nel programma spaziale perché le sembrava che sulla Terra non vi fosse nulla cui valesse la pena di dedicarsi. Dopo aver completato l’addestramento astronautico, aveva cominciato a chiedersi se anche nello spazio c’era qualcosa che valesse la pena di fare. La ricerca le era sembrata degna di attenzione, almeno da un punto di vista astratto; aveva fatto domanda per lavorare con le équipe di studio della California ed era stata accettata. Nella sua vita c’era stato un discreto numero di uomini: e uno o due di essi avevano avuto qualche importanza. Ma non era durata con nessuno. Ciò che aveva raccontato a Roger in proposito era quasi tutto vero; e dopo il più recente, bruciante fallimento, aveva ridotto il suo campo d’interessi in attesa di diventare abbastanza adulta per capire cosa voleva da un uomo. Ed era rimasta lì, appartata in un circolo chiuso, lontana dalla grande corrente principale dei sentimenti umani, fino a quando noi estraemmo la sua scheda tra varie centinaia di migliaia, per sopperire alle esigenze di Roger.

Quando le erano arrivati gli ordini, del tutto inaspettatamente, si trattava di ordini impartiti dal presidente in persona. Non aveva avuto la possibilità di rifiutare l’incarico: del resto, non voleva affatto rifiutarlo. Accolse con soddisfazione quel cambiamento. L’idea di fare da chioccia a un essere umano sofferente aveva colpito i centri della sua personalità: l’importanza della missione le appariva evidente, perché se mai credeva in qualcosa, quel qualcosa era il progetto Marte; e sapeva benissimo di essere all’altezza. Era estremamente competente. Noi le attribuivamo una grande importanza: era uno dei pezzi principali del gioco che stavamo giocando per la sopravvivenza della razza.

Quando Sulie Carpenter finì di occuparsi della simulazione di Roger erano quasi le quattro del mattino.

Dormì un paio d’ore su un letto nell’alloggio delle infermiere. Poi fece la doccia, si vestì e mise le lenti a contatto verdi. Non era entusiasta di quel particolare aspetto del suo lavoro, pensò mentre si avviava verso la stanza di Roger. I capelli tinti e il cambiamento del colore degli occhi erano inganni: e a lei non piaceva ingannare. Un giorno le sarebbe piaciuto non mettere le lenti a contatto e lasciare che i suoi capelli tornassero al biondoscuro naturale… oh, magari un po’ migliorati con un cachet, certo: non le dispiaceva ricorrere a qualche artificio, ma non le andava di fingere d’essere ciò che non era.

Ma quando entrò nella stanza di Roger, Sulie sorrideva: — Sono felice che tu sia tornato. Ci sei mancato molto. Che effetto ti ha fatto, andartene in giro tutto solo?

— Niente male, — disse la voce inespressiva. Roger era in piedi accanto alla finestra, e guardava i grumi di tumbleweed che rotolavano e rimbalzavano sullo spiazzo del parcheggio. Si voltò verso di lei. — Sai, è tutto vero, quello che mi avevi detto. Quello che ho adesso non è solo diverso: è migliore.

Sulie resistette alla tentazione di confermare le parole di Roger, e si limitò a sorridere, cominciando a disfare il letto. — Ero preoccupato per il problema sessuale, — continuò lui. — Ma sai una cosa, Sulie? È come se mi avessero detto che per un paio d’anni non potrò mangiar caviale. Il caviale non mi piace. E a ben pensarci, adesso non voglio neanche il sesso. Immagino che sia stata tu a inserire questo particolare nel computer? «Togliere l’impulso sessuale, aumentare l’euforia»? Comunque, nel mio cervello di gallina si è fatta luce finalmente la rivelazione che mi complicavo l’esistenza, chiedendomi come avrei fatto a tirare avanti senza qualcosa che in realtà non volevo neppure. È un riflesso di quello che, secondo me, gli altri pensano che io voglia.

— Acculturazione, — commentò Sulie.

— Senza dubbio, — disse Roger. — Senti, voglio fare qualcosa per te.

Prese la chitarra, si puntellò contro l’intelaiatura della finestra, con un calcagno contro il davanzale, e si piazzò lo strumento sul ginocchio. Le ali si ridisposero silenziosamente sopra la sua testa, mentre cominciava a suonare.

Sulie rimase sbalordita. Roger non si limitava a suonare: cantava, anche. Cantare? No, era un suono come se un uomo fischiettasse tra i denti, un suono debole ma puro. Le dita strimpellavano e pizzicavano un accompagnamento mentre il fischio acuto che gli usciva dalle labbra fluiva nella melodia di un brano che lei non aveva mai udito.

Quando Roger ebbe finito, Sulie domandò: — Che cos’era?

— È una sonata di Paganini per chitarra e violino, — rispose il cyborg, orgogliosamente. — Clara mi ha regalato la registrazione.

— Non sapevo che fossi in grado di fare questo. Canterellare, voglio dire… o quel che è.

— Non lo sapevo neppure io, prima di provare. Non riesco ad avere il volume necessario per la parte del violino, naturalmente. E non riesco a tenere il suono della chitarra abbastanza basso per controbilanciarlo, ma non era male, vero?

— Roger, — disse lei, sinceramente, — sono sbalordita.

Roger alzò la testa e la sbalordì di nuovo, riuscendo a sorridere. Disse: — Scommetto che non sapevi neppure che posso far questo. Non lo sapevo neanch’io, fino a quando ho provato.


Alla riunione, Sulie disse seccamente: — È pronto, generale.

Scanyon era riuscito a dormire abbastanza per apparire riposato, e aveva attinto a qualcosa d’altro, forse alle sue risorse interiori, in modo da apparire meno stravolto. — Ne è sicura, maggiore Carpenter?

Sulie annuì. — Non sarà mai più pronto di così. — Esitò. Vern Scanyon, leggendo la sua espressione, attese la rettifica. — Il problema, secondo me, è che Roger è pronto a partire adesso. Tutti i suoi sistemi sono a livello operativo. Ha superato la questione con la moglie. È pronto. Ma più a lungo rimarrà qui, e più è probabile che sua moglie combini qualcosa e alteri l’equilibrio.

— Ne dubito molto, — disse Scanyon, aggrottando la fronte.

— Beh, quella donna sa in che guaio andrebbe a cacciarsi. Ma non voglio correre questo rischio. Voglio che Roger se ne vada.

— Vuol dire portarlo a Merritt Island?

— No. Voglio metterlo in attesa.

Brad rovesciò un po’ di caffè dalla tazza che si stava accostando alle labbra. — Neppure per sogno, carina! — gridò, sinceramente sconvolto. — Ho ancora settantadue ore di controlli e di collaudi dei suoi sistemi! Se tu me lo rallenti, non posso ottenere le letture…

— Collaudare che cosa, dottor Bradley? La sua efficienza operativa? Oppure stai pensando ai saggi che intendi scrivere su di lui?

— Beh… Cristo, certo che voglio scriverli! Ma voglio anche controllarlo con la massima meticolosità possibile, fino all’ultimo minuto, nel suo stesso interesse. E nell’interesse della missione.

Sulie si strinse nelle spalle. — Comunque, il mio consiglio è questo. Roger qui non ha altro da fare che aspettare. E ne ha già avuto abbastanza.

— E se su Marte qualcosa non funzionasse? — domandò Brad. Lei rispose: — Volevi il mio parere. Lo hai sentito.

Scanyon intervenne. — Per favore, fate in modo che riusciamo tutti a capire di cosa state parlando. Io, soprattutto.

Sulie diede un’occhiata a Brad, che disse: — Avevamo progettato di farlo per il viaggio, generale, come lei sa. Abbiamo la facoltà di dominare i suoi orologi interni per mezzo della mediazione esterna dei computer. Mancano… vediamo, cinque giorni e qualche ora al lancio: possiamo rallentare Roger, in modo che per il suo tempo soggettivo siano solo trenta minuti. È una proposta sensata… ma anche quello che ho detto io è sensato, e non posso assumermi la responsabilità di lasciarlo sfuggire al mio controllo prima di aver ultimato tutti i test che io intendo compiere.

Scanyon fece una smorfia. — Capisco ciò che intende dire: ha ragione, ma ho anch’io qualcosa da obiettare. Ricorda ciò che ha dichiarato questa notte, maggiore Carpenter? A proposito dell’opportunità di non interrompere troppo bruscamente la modificazione del comportamento.

Sulie disse: — Roger è in una fase massima stabilizzata, generale. Se potessi averlo a disposizione per altri sei mesi, capirei. Cinque giorni, no: il rischio è superiore al beneficio. Ha trovato un interesse autentico nella sua chitarra… dovrebbe sentirlo. Ha creato ottime difese strutturali per quanto riguarda la mancanza degli organi sessuali. Ha persino dimostrato molto spirito d’iniziativa scappando ieri sera… è stato un passo avanti molto importante, generale: il suo profilo era troppo passivo, tenendo conto delle esigenze della missione. Ripeto che dobbiamo rallentarlo subito.

— E io ripeto che ho bisogno ancora di un po’ di tempo, — scattò Brad. — Forse Sulie ha ragione. Ma ho ragione anch’io, e se sarà necessario, mi rivolgerò al presidente.

Scanyon fissò pensoso Brad, poi si guardò intorno. — Altri commenti?

Intervenne Don Kayman. — Per quel che può valere, sono d’accordo con Sulie. Roger non è felice, per quanto riguarda sua moglie, ma non è neppure molto scosso. Questo è un posto che per lui va bene quanto qualunque altro.

— Già, — disse Scanyon, battendo di nuovo le mani sul piano della scrivania, delicatamente. Poi aggiunse: — C’è qualcosa che nessuno di voi sa. La vostra simulazione per Roger non è la sola che sia stata eseguita recentemente. — Guardò in faccia i presenti, uno ad uno, e disse, sottolineando ogni parola: — È una cosa di cui non dovrete parlare con nessuno, fuori da questa stanza. Gli asiatici ne stanno preparando una anche loro. Si sono inseriti clandestinamente nei nostri circuiti del 3070, tra qui e gli altri due computer, e hanno rubato tutti i dati: e se ne sono serviti per preparare una loro simulazione.

— Perché? — domandò Dan Kayman, precedendo di una frazione di secondo gli altri.

— È quel che vorrei sapere anch’io, — disse Scanyon, pesantemente. — Non interferiscono affatto. Non ce ne saremmo neppure accorti se un normale controllo delle linee non avesse portato alla scoperta dell’intercettazione… e poi è successo qualcosa, a Pechino, nello stile dei romanzi di cappa e spada, di cui non so niente e non voglio saper niente. Non hanno fatto altro che leggere tutto quanto e preparare un loro programma. Non sappiamo in che modo intendano servirsene: però c’è stata una sorpresa. Subito dopo, hanno smesso di protestare contro il lancio. Anzi, ci hanno messo a disposizione il loro satellite in orbita intorno a Marte per facilitare la telemetria della missione.

— Io non mi fiderei! — insorse Brad.

— Beh, non ci fideremo molto del loro satellite, su questo potete scommettere. Ma il fatto resta: dicono che vogliono anche loro il successo della missione. Bene, — aggiunse il generale, — è solo una complicazione in più, ma tutto si riduce a un’unica decisione da prendere, giusto? Devo decidere se mettere o no Roger in attesa. Okay, lo farò. Accetto la sua raccomandazione, maggiore Carpenter. Spieghi a Roger cosa intendiamo fare, e gli dica tutto quello che secondo lei e il dottor Ramez è più opportuno. In quanto a lei, Brad… — Alzò una mano per prevenire le proteste dell’interessato. — So quel che vorrebbe dire. Sono d’accordo. Roger ha bisogno di restare ancora con lei. Bene, provvedo subito. Le ordino di partecipare alla missione. — Tirò a sé un foglio di carta, e cancellò un nome sull’elenco. — Lascerò a terra uno dei piloti, per far il posto a lei. Ho già controllato. Andrà tutto bene, con i sistemi di guida automatici e il fatto che tutti voi avete una certa preparazione come piloti. Ecco l’elenco definitivo dell’equipaggio per il lancio a Marte: Torraway, Kayman, il generale Hesburgh come pilota… e lei.


Brad protestò. Fu solo un riflesso condizionato. Quando l’idea mise radici, l’accettò. Ciò che aveva detto Scanyon era vero: e inoltre Brad si rese immediatamente conto che sarebbe stato un bene per la sua carriera se avesse partecipato personalmente alla missione. Sarebbe stato un peccato lasciare Dorrie, e tutte le altre Dorrie, ma ne avrebbe trovate tante al suo ritorno…

E tutto il resto venne naturalmente, come alla notte segue il giorno. Quella fu l’ultima decisione. Tutto il resto, ormai, era solo parte della realizzazione pratica. A Merritt Island, cominciarono a rifornire di carburante il razzo vettore. Le navi addette al recupero vennero messe in posizione nei vari punti dell’Atlantico, nell’eventualità di un insuccesso. Brad venne inviato in aereo all’isola per farsi adattare le tute, in compagnia di sei ex astronauti incaricati di aggiornarlo per quanto era possibile nel tempo a disposizione. Tra i sei c’era anche Hesburgh, bassotto, sicuro di sé e sorridente, con un’aria che ispirava tranquillità. Don Kayman si prese dodici ore di licenza per accommiatarsi dalla sua suorina.

Noi eravamo molto soddisfatti. Eravamo soddisfatti della decisione di far partecipare anche Brad alla missione. Eravamo soddisfatti delle estrapolazioni delle linee di tendenza, che ogni giorno mostravano risultati sempre più positivi circa l’effetto del lancio sull’opinione pubblica e sugli eventi mondiali. Eravamo soddisfatti dello stato d’animo di Roger. Ed eravamo soddisfatti soprattutto della simulazione di Roger effettuata dalla Nuova Asia Popolare: infatti, era essenziale per i nostri piani per la salvezza della razza.

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