Appena ci rendemmo conto del grave rischio che una grande guerra distruggesse la civiltà e rendesse inabitabile la Terra — cioè, poco dopo che collettivamente cominciammo a renderci conto di qualcosa — decidemmo di prendere provvedimenti per colonizzare Marte.
Non era facile, per noi.
L’intera razza umana era nei guai. L’energia scarseggiava in tutto il mondo, e questo significava che i fertilizzanti costavano cari, che la gente soffriva la fame, e che si creavano tensioni pericolosamente esplosive. Le risorse mondiali bastavano appena a tenere in vita miliardi di persone. Dovevamo trovare qualche mezzo per stornare delle disponibilità disperatamente necessarie altrove, per preparare piani a lungo termine. Organizzammo tre gruppi distinti con il compito di pensare alle soluzioni e assicurammo loro tutti i mezzi che potevamo sottrarre alle esigenze quotidiane. Uno dei gruppi esplorava le possibilità di risolvere le tensioni sempre crescenti sulla Terra. Uno era incaricato di preparare rifugi sulla Terra stessa, in modo che, anche se fosse scoppiata una guerra termonucleare, una piccola percentuale della nostra razza potesse sopravvivere.
Il terzo esaminava le possibilità extraterrestri.
All’inizio sembrava che avessimo mille possibilità tra cui scegliere: ed ognuna delle tre piste principali presentava ramificazioni che parevano promettenti. Una ad una le piste si chiusero. Le nostre stime più esatte — non quelle che passavamo al presidente degli Stati Uniti, ma quelle private che non mostravamo a nessuno, e tenevamo per noi — erano di zero virgola nove e dieci nove probabilità di una guerra termonucleare entro un decennio; e il primo anno chiudemmo il centro per la soluzione delle tensioni internazionali. Creare rifugi sembrava un po’ più semplice. Risultò, dalle analisi più pessimistiche, che alcuni luoghi della Terra difficilmente avrebbero subìto un attacco diretto: l’Antartide, parti del Sahara, persino tratti dell’Australia e un buon numero di isole. Vennero scelte dieci località. Ognuna aveva zero virgola una probabilità, o anche meno, di venire distrutta; tenendo conto di tutte e dieci, le probabilità che venissero distrutte tutte quante erano relativamente insignificanti. Ma un’analisi più attenta mostrò che vi erano due lacune. Innanzi tutto, non potevamo sapere che quantità di isotopi a lungo periodo di dimezzamento sarebbe rimasta nell’atmosfera dopo una guerra del genere, e secondo le indicazioni vi sarebbero stati livelli eccessivi di radiazioni ionizzanti almeno per mille anni. Su di una simile scala temporale, la probabilità che almeno uno dei rifugi sopravvivesse diventava di gran lunga inferiore a zero virgola cinque. Peggio ancora, c’era la necessità dell’investimento dei capitali. Costruire i rifugi sotterranei e riempirli dell’immensa quantità necessaria di complesse attrezzature elettroniche, generatori, riserve di carburante e così via, era in pratica impossibile. Non avevamo modo di procurarci il danaro.
Perciò chiudemmo anche quel centro e dedicammo tutte le risorse di cui potevamo disporre alla colonizzazione extraterrestre. All’inizio, era parsa la soluzione meno promettente.
Ma — quasi! — eravamo riusciti a renderla operante. Quando Roger Torraway toccò il suolo marziano, si completò la prima fase, la più difficile. Quando i veicoli spaziali che lo seguivano avessero raggiunto le rispettive posizioni, in orbita o sulla superficie del pianeta, noi avremmo potuto, per la prima volta, fare i piani per il futuro, dato che ormai la sopravvivenza della razza era assicurata.
Perciò osservammo con grande soddisfazione, mentre Roger uscì sulla superficie del pianeta.
Il computer portatile di Roger era un trionfo dell’ingegneria. Aveva tre sistemi separati, collegati e dotati di risorse comuni, ma con una ridondanza sufficiente, in modo che tutti i sistemi avevano un’attendibilità di almeno zero virgola nove, fino a quando il computer d’appoggio, il 3070, fosse arrivato in orbita. Un sistema mediava le percezioni di Roger. Un altro controllava i subsistemi dei nervi e dei muscoli che gli consentivano di camminare e di muoversi. Il terzo provvedeva alla telemetria di tutti i suoi input. Qualunque cosa lui vedesse, la vedevamo anche noi sulla Terra.
Avevamo dovuto lavorare parecchio per organizzare tutto questo. Secondo la Legge di Shannon non c’era un’ampiezza di banda sufficiente per trasmettere tutto, ma noi avevamo incluso un elemento per la campionatura randomizzata. Veniva trasmesso approssimativamente un bit su cento… prima alla radio del modulo, dove avevamo assegnato permanentemente un canale a quella funzione. Poi veniva ritrasmesso sull’astronave in orbita, dove il generale Hesburgh fluttuava, e guardava la televisione mentre il calcio gli usciva dalle ossa. Da lì, ripulito e amplificato, veniva trasmesso a quel satellite sincrono della Terra che in quel momento si trovava collegato con Marte e Goldstone. Perciò, tutto quello che vedevamo era «reale» solo all’uno per cento. Ma era abbastanza. Il resto veniva integrato per mezzo di un programma di comparazione che avevamo preparato per il ricevitore di Goldstone. Hesburgh vedeva solo una serie di fotogrammi fissi: sulla Terra noi trasmettevamo ciò che sembrava esattamente una ripresa diretta di tutto ciò che Roger vedeva.
Perciò, su tutta la Terra, sui teleschermi di ogni paese, la gente guardò le montagne beige e brune alte sedicimila metri, vide il brillio del sole marziano sui finestrini del modulo, poté addirittura leggere l’espressione di padre Kayman quando si alzò dalla sua preghiera e per la prima volta guardò Marte.
Nel Palazzo di Pechino, i dirigenti della Nuova Asia Popolare interruppero un’importante seduta per guardare il teleschermo. I loro sentimenti erano contrastanti. Quello era il trionfo dell’America, non il loro. Nella Sala Ovale, la gioia del presidente Deshatine era allo stato puro. Il trionfo non era soltanto americano, era suo personale: era identificato, per sempre, come il presidente che aveva reso possibile la colonizzazione umana di Marte. Quasi tutti coloro che assistevano alla trasmissione erano felici… persino Dorrie Torraway, che era nel suo studio, nel retro del negozio, con il mento appoggiato alle mani, e studiava il messaggio degli occhi di suo marito. E naturalmente, nel gran cubo bianco del progetto, alla periferia di Tonka, Oklahoma, quelli dello staff che erano ancora lì guardavano quasi in continuazione le immagini provenienti da Marte.
Ne avevano tutto il tempo. Non avevano molto da fare. Sorprendentemente, l’edificio era sembrato vuoto, da quando Roger se ne era andato.
Erano stati tutti ricompensati, dai magazzinieri in su: un elogio personale per ciascuno da parte del presidente, più una vacanza-premio di trenta giorni e un avanzamento di carriera. Clara Bly approfittò della vacanza per finire la luna di miele rinviata per tanto tempo. Weidner e Freeling trovarono il tempo di redigere un abbozzo del saggio di Brad, trasmettendogliene ogni paragrafo via via che usciva dalle macchine da scrivere, e ricevendo le sue correzioni via Goldstone. Vern Scanyon, naturalmente, fece un giro trionfale insieme al presidente, nei cinquantaquattro stati e nelle città principali di venti paesi stranieri. Brenda Hartnett era apparsa due volte alla televisione, insieme ai figli: erano stati sepolti sotto montagne di doni. La vedova dell’uomo che era morto per mandare Roger Torraway su Marte era ormai milionaria. Avevano avuto tutti la loro ora di gloria, non appena l’astronave era partita e Roger si era messo in rotta, specialmente in quei momenti immediatamente precedenti l’atterraggío.
Poi il mondo guardò Marte con gli occhi di Roger, e con i sensi del fratello fissato sul dorso di Roger, e tutta la loro fama si dileguò. Da quel momento ci fu soltanto Roger.
Anche noi osservavamo.
Vedemmo Brad e Don Kayman, chiusi nelle tute, mentre completavano le procedure prima di uscire. Roger non aveva bisogno di una tuta. Era in punta di piedi sul portello del modulo, librato, e fiutava il vento vuoto; le grandi ali nere sollevate dietro di lui assorbivano i raggi del sole, di una piccolezza ma anche di uno splendore sconcertanti. Per mezzo del pick-up televisivo all’interno del modulo vedemmo Roger profilato contro il beige e il bruno del tagliente orizzonte marziano…
E poi attraverso gli occhi di Roger vedemmo ciò che egli vedeva. Per Roger, che guardava i fulgidi colori gemmei del pianeta su cui doveva vivere, era una terra incantata, bellissima e invitante.
Il modulo aveva abbassato la scaletta al magnesio fino a sfiorare la superficie marziana, ma Roger non ne aveva bisogno. Balzò giù, con le ali svolazzanti — per tenersi in equilibrio, non per sollevarsi — e si posò con leggerezza sulla gessosa superficie arancione, dove il soffio dei retrorazzi aveva spazzato via la crosta. Rimase lì per un momento, scrutando il suo regno con i grandi occhi sfaccettati. — Non essere precipitoso, — consigliò dentro la sua testa una voce che proveniva dalla radio della tuta di Don Kayman. — Meglio seguire l’elenco degli esercizi.
Roger sogghignò, senza guardarsi intorno. — Sicuro, — disse, e cominciò ad allontanarsi. Dapprima camminò, poi trotterellò; poi cominciò a correre. Se per le vie di Tonka aveva corso, qui era un fulmine. Rise, sonoramente. Cambiò le reazioni di frequenza degli occhi, e le lontane montagne torreggianti lampeggiarono di un azzurro vivo, mentre la piatta pianura era un mosaico di verdi, di gialli e di rossi. — È magnifico! — bisbigliò, ed i ricevitori del modulo raccolsero le parole appena formate e le trasmisero alla Terra.
— Roger, — disse Brad, in tono petulante, — vorrei che andassi con calma fino a quando avremo pronta la jeep.
Roger si voltò. Gli altri due erano davanti alla scala del modulo, e riassestavano la jeep marziana, ripiegata dietro il portello.
Balzò verso di loro, gioiosamente. — Serve aiuto?
Era superfluo che rispondessero. Avevano davvero bisogno di aiuto: con le tute addosso era un’impresa massacrante sfilare ad una ad una le cinghie di bloccaggio dalle ruote a canestro. — Spostatevi, — disse Roger: rapidamente liberò le ruote e stese le lunghe gambe a trampolo in posizione d’attesa. La jeep aveva ruote per muoversi sul terreno pianeggiante, e zampe per le scalate. Sarebbe dovuto essere il veicolo più flessibile che l’uomo poteva costruire per circolare su Marte, ma non lo era. Lo era Roger, invece. Quando ebbe finito sfiorò i due compagni e promise: — Non mi allontanerò dalla linea della visuale. — E poi se ne andò per andare a osservare le chiazze di colore intorno ad una serie di piccoli dossi, luminose come un quadro di Dalí e irresistibili.
— È pericoloso! — borbottò Brad, via radio. — Aspetta che abbiamo finito di provare la jeep! Se ti capita qualcosa, noi siamo nei guai.
— Non mi capiterà niente, — disse Roger. — E no! — Non poteva aspettare. Adoperava il proprio corpo per lo scopo per cui era stato costruito, e la pazienza era svanita. Corse. Saltò. Si trovò a due chilometri dal modulo prima di rendersene conto; si voltò indietro, vide che gli altri lo seguivano lentamente e proseguì. Il suo apparato d’ossigenazione elevò il ritmo di pompaggio per compensare le maggiori esigenze; i muscoli risposero perfettamente. Non erano muscoli suoi, quelli che lo facevano muovere, bensì i servosistemi che li avevano sostituiti: ma erano le minuscole fibre muscolari alle estremità dei nervi che facevano muovere quei servosistemi. Tutti i lunghi esercizi diedero buoni frutti. Per lui, non era affatto faticoso raggiungere i duecento chilometri orari, scavalcare a balzi piccoli crepacci e crateri, saltare su e giù lungo i pendii di quelli più grandi.
— Torna indietro, Roger! — Era Don Kayman, e aveva un tono preoccupato.
Una pausa, mentre Roger proseguiva la corsa; poi la sua vista percepì un senso vertiginoso di movimento, e un’altra voce disse: — Torna indietro, Roger! È ora.
Roger si fermò di colpo, sdrucciolò, sbatté le ali nell’aria quasi impercettibile, per poco non cadde, e recuperò l’equilibrio. La voce ben nota ridacchiò: — Vieni, tesoro! Adesso fai il bravo ragazzo e torna indietro.
La voce di Dorrie.
E nel sottile, lontano vortice di sabbia í colori si concentrarono nella figura di Dorrie, sorridente, a meno di dieci metri da lui, le gambe lunghe che scomparivano nei calzoncini, un corpicino colorato, i capelli agitati dalla brezza.
La voce della radio rise, questa volta con i toni di Don Kayman. — Ti abbiamo fatto una sorpresa, eh?
Roger impiegò un momento per rispondere. — Già, — riuscì a dire.
— È stata un’idea di Brad. Abbiamo registrato l’immagine di Dorrie sulla Terra. Quando avrai bisogno di un segnale d’emergenza, sarà lei a dartelo.
— Già, — disse ancora Roger. Davanti ai suoi occhi, la figura sorridente divenne indistinta, i colori sbiadirono, scomparvero.
Roger si voltò e tornò indietro. Il percorso di ritorno richiese molto più tempo della gioiosa corsa sfrenata dell’andata, e i colori non erano più tanto splendidi.
Don Kayman guidava la jeep verso la figura avanzante di Roger Torraway, cercando di abituarsi a rimanere sul seggiolino senza venir sbatacchiato avanti e indietro dalle cinture di sicurezza. Era molto scomodo. La tuta, che era stata confezionata su misura, gli era divenuta stretta in certi punti e larga in certi altri, in quei lunghi mesi trascorsi dalla partenza dalla Terra: o forse, ammise sinceramente, era lui ad essere un po’ ingrassato qui e dimagrito là… non era stato molto diligente, ammise, nell’eseguire i prescritti esercizi ginnici. E poi, doveva andare al bagno. C’erano le tubature apposite, nella tuta. Sapeva come servirsene, ma non voleva.
E al disagio si assommava un senso d’invidia e di preoccupazione. L’invidia era un peccato di cui poteva purificarsi, non appena avesse trovato qualcuno che ascoltasse la sua confessione… al massimo era un peccato veniale, pensò, tenendo conto dei vantaggi evidenti che Roger aveva rispetto a loro due. La preoccupazione era un peccato più grave, non nei confronti di Dio ma nei confronti del successo della missione. Era troppo tardi per preoccuparsi. Forse era stato un errore usare il simulacro della moglie di Roger per comunicare messaggi urgenti… a quel tempo, egli non sapeva ancora quant’erano complicati i sentimenti di Roger per Dorrie. Ma ormai era troppo tardi per rimediare.
Brad non sembrava affatto preoccupato. Ridacchiava felice delle prestazioni di Roger. — Hai notato? — chiese. — Non è caduto neppure una volta! La coordinazione è perfetta. L’abbinamento normativo, tra apparato biologico e servosistemi. Ti assicuro, Don, ci siamo riusciti!
— È un po’ presto per dirlo, — obiettò impacciato Kayman, ma Brad proseguì. Il prete pensò di spegnere l’audio del casco, ma era quasi altrettanto facile bloccare la propria attenzione. Si guardò intorno. Erano atterrati nei pressi del limite dell’alba, ma avevano impiegato più della metà del giorno marziano ad effettuare i controlli precedenti l’uscita e a montare la jeep. Ormai era pomeriggio inoltrato. Dovevano ritornare prima che venisse l’oscurità, si disse. Roger sarebbe stato in grado di muoversi alla luce delle stelle, ma per lui e per Brad sarebbe stato più rischioso. Forse un’altra volta, quando avessero acquisito una maggiore esperienza… Teneva davvero moltissimo a passeggiare sulla superficie d’ebano, in una notte barsoomiana, con le stelle che sembravano puntolini di fuoco colorato in un cielo di velluto nero. Ma non ora.
Si trovavano su di una grande pianura piena di crateri. A prima vista, era difficile stimarne la grandezza. Guardandosi intorno attraverso il visore, Kayman faticava a ricordare quant’erano lontane le montagne. La sua mente lo sapeva, poiché egli conosceva ogni riquadro delle mappe marziane per duecento chilometri di raggio a partire dal punto dell’atterraggio. Ma i suoi sensi erano ingannati dalla visibilità assoluta, trasparente. Le montagne a occidente, lo sapeva, erano distanti cento chilometri, e alte quasi dieci. E sembravano collinette vicine.
Mosse i comandi della jeep per fermarla: erano arrivati a pochi metri da Roger. Brad si liberò delle cinture di sicurezza e scivolò goffamente giù dal sedile, avanzando con lento passo sgraziato verso Roger, per studiarlo. — Tutto a posto? — chiese ansiosamente. — Ma sì, certo: lo vedo benissimo. Come va il senso d’equilibrio? Chiudi gli occhi, per favore… voglio dire, sai bene, spegni la vista. — Scrutò attento gli emisferi sfaccettati. — Lo hai fatto? Non posso capirlo, lo sai.
— L’ho fatto, — disse Roger, attraverso la radio che aveva nella testa.
— Magnifico! Niente vertigini, eh? Non fai fatica a tenerti in equilibrio? Tieni gli occhi chiusi, — proseguì, girando intorno a Roger e scrutandolo da tutti gli angoli. — Agita le braccia, in alto e in basso… bene! Adesso falle ruotare come le pale di un mulino a vento, in direzioni opposte… — Kayman non poteva vederlo in volto, ma sentiva la soddisfazione nel tono di Brad. — Magnifico, Roger! Ottimo in tutti i sensi!
— Le mie congratulazioni a entrambi, — disse Kayman, che era sceso dal veicolo e aveva osservato la scena. — Roger?
La testa si girò verso di lui, e sebbene nulla fosse cambiato nell’aspetto degli occhi, Kayman comprese che il cyborg lo stava guardando. — Volevo dire soltanto, — continuò, senza sapere bene come avrebbe finito la frase, — che mi… beh, mi dispiace dello scherzo che ti abbiamo fatto usando l’immagine di Dorrie per trasmetterti messaggi. Ho l’impressione che ti stiamo facendo troppe sorprese.
— Non importa, Don. — Il guaio della voce di Roger, pensò ancora una volta Kayman, era che non si poteva capire molto, dal tono.
— E dopo averti detto questo, — fece. — penso di doverti annunciare che abbiamo un’altra sorpresa per te. Molto bella, credo. Sulie Carpenter ci raggiungerà qui. La sua astronave dovrebbe arrivare tra cinque settimane.
Silenzio; nessuna espressione. — Oh, — disse finalmente Roger. — È molto bello. Sulie è una cara ragazza.
— Sì. — Ma la conversazione non sembrava avere altri sbocchi possibili, ormai, e Brad era impaziente di far eseguire a Roger una serie di piegamenti e di distensioni. Kayman si concesse i privilegi di un turista. Si voltò a guardare le montagne distanti, socchiuse gli occhi verso il sole fulgido, che neppure l’auto-oscuramento del visore rendeva perfettamente sopportabile, e poi girò intorno lo sguardo. Goffamente, riuscì a inginocchiarsi e a raccogliere una manciata di terra sassosa nella mano guantata. Il giorno dopo, sarebbe toccato a lui incominciare la raccolta sistematica di campioni da riportare sulla Terra: era uno dei compiti secondari della missione. Anche dopo mezza dozzina di sbarchi umani e una quarantina di missioni compiute da veicoli automatici, c’era ancora un’insaziabile richiesta di campioni marziani da parte dei laboratori terrestri. Ma in quel momento, Kayman si permise di fantasticare. C’era limonite in abbondanza, in quella sabbia, e i ciottoli di quarzo non erano rotondi; gli spigoli non erano aguzzi, ma non erano stati neppure allisciati dall’attrito. Grattò il suolo. Sopra c’era una polvere giallastra: sotto, il materiale era più scuro e grossolano. C’erano puntolini lucenti, quasi come il vetro. Quarzo? si chiese, e rastrellò ancora, pigramente, con le dita.
Restò immobile, cingendo con le mani un grumo arrotondato, irregolare di cristallo.
Aveva uno stelo. Uno stelo che spuntava dal suolo. E lo stelo si allargava e si divideva in minuti tentacoli scuri e ruvidi.
Radici.
Don Kayman balzò in piedi, girandosi di scatto verso Roger e Brad. — Guardate! — gridò, staccando l’oggetto con la mano guantata. — Buon Dio del cielo, guardate qui!
E Roger, che era semipiegato, si girò e balzò verso di lui. Una mano fece schizzar via lo scintillante oggetto di cristallo che volò roteando nell’aria per una cinquantina di metri, e piegò il metallo del guanto. Kayman sentì un acuto, fulmineo dolore all’avambraccio e vide l’altra mano avventarsi verso il vetro del casco come la zampa di un orso Kodiak infuriato; e fu l’ultima cosa che vide.