Il lungo volo a Marte nell’orbita di Hohnmann richiede sette mesi. Tutti gli altri astronauti, cosmonauti e sinonauti li avevano trovati molto noiosi. Ogni giorno aveva 86.400 secondi da riempire, e c’era molto poco per riempirli.
Roger era diverso da tutti gli altri, sotto due punti di vista. In primo luogo, era il passeggero più prezioso che avesse mai portato un’astronave. Dentro e intorno al suo corpo c’erano i frutti di sette miliardi di dollari, spesi per il Progetto Man Plus. Nella misura del possibile, egli doveva essere risparmiato.
In secondo luogo, egli poteva essere risparmiato.
I suoi orologi fisiologici erano stati isolati. La sua percezione del tempo era quella che gli diceva il computer.
Lo rallentarono gradualmente, all’inizio. Cominciò a sembrargli che gli altri si muovessero un po’ più vivacemente. L’ora del pasto arrivava prima che lui se l’aspettasse. Le voci diventarono più acute.
Quando Roger si abituò bene a tutto questo, aumentarono il ritardo dei suoi sistemi. Le voci divennero stridii incomprensibili, e poi sfuggirono completamente alla sua percezione. Quasi non vedeva gli altri, se non come guizzi velocissimi. Isolarono la sua stanza… non per impedirgli di scappare, ma per proteggerlo dalla rapida transizione dal giorno alla notte. Davanti a lui apparivano piatti di cibi a temperatura ambiente, stile picnic. Quando cominciava a spingerli lontani da sé per indicare che aveva finito o che non li voleva, i piatti sparivano.
Roger sapeva cosa gli stavano facendo. Non gli dispiaceva. Accettava le assicurazioni di Sulie: era un bene per lui, gli era necessario, perciò andava bene. Pensava che avrebbe sentito la mancanza di Sulie, e cercava un sistema per dirglielo. Un mezzo c’era, ma tutto si svolse così rapidamente: alcuni messaggi vennero tracciati col gesso, come per magia, su una lavagna davanti a lui. Quando rispondeva, le risposte gli venivano strappate via e cancellate, prima che egli fosse veramente sicuro di aver finito:
COME TI SENTI?
Prendi il gesso, scrivi una parola.
BENE
E poi la lavagna sparisce, ritorna con un altro messaggio…
TI PORTIAMO A MERRITT ISLAND
E la sua risposta:
SONO PRONTO
La risposta venne strappata via prima che egli potesse aggiungere il resto: e lo scarabocchiò rapidamente sul comodino…
SALUTATE PER ME DORRIE
Avrebbe voluto aggiungere «e Sulie», ma non ne ebbe il tempo: all’improvviso il comodino sparì. Lui non era più nella stanza. Vi fu un turbine improvviso, vertiginoso di movimento. Intravvide fulmineamente l’ingresso per le ambulanze del progetto, e il rapido fantasma di un’infermiera — era Sulie? — che gli voltava le spalle e si aggiustava il collant. Il letto parve balzare nell’aria, nel brutale chiarore del sole invernale e poi… dove? In una macchina? Prima che Roger potesse chiederselo, si sollevò in aria, ed egli si rese conto di essere a bordo di un elicottero, e poi di essere sull’orlo della nausea. Si sentiva lo stomaco in gola.
La telemetria riferì, diligentemente, e i comandi vennero regolati adeguatamente. Roger sentiva ancora l’impulso di vomitare, poiché gli sembrava di venir sbatacchiato da una violenta mareggiata: ma non vomitò.
Poi si fermarono.
Fuori dall’elicottero.
Di nuovo il sole.
Dentro qualcosa d’altro… quando cominciò a muoversi, Roger si accorse che era l’interno di un CB-5, attrezzato come una nave ospedale. Le reti di sicurezza presero a intessersi magicamente intorno a lui.
Non era piacevole — c’era ancora il martellamento e la vertigine, sebbene non fosse insopportabile — ma non durò a lungo. Un minuto o due, così parve a Roger. Poi la pressione gli percosse le orecchie: lo portarono fuori dall’aereo, nella luce accecante e nel calore… la Florida, naturalmente, comprese un po’ tardi; ma ormai era su di un’ambulanza, e poi fuori…
Poi, per un tempo che a Roger parve durare dieci o quindici minuti, ma che in realtà era quasi un giorno intero, non accadde nulla: era a letto, e gli davano da mangiare, e i rifiuti venivano asportati con il catetere, e poi un biglietto apparve davanti a lui:
BUONA FORTUNA, ROGER, SIAMO IN VIAGGIO.
E poi un maglio a vapore lo colpì dal basso, ed egli perse i sensi. Sta bene, pensò, risparmiarmi la seccatura della noia, ma rischiate di uccidermi, per riuscirci. Ma prima che potesse pensare a un modo per comunicare quel pensiero, aveva già perduto conoscenza.
Il tempo passava. Era tempo di sogni.
Si rese conto, vagamente, che lo avevano imbottito di sedativi: non lo avevano semplicemente rallentato, lo avevano fatto dormire; e quando se ne rese conto, si ritrovò sveglio.
La pressione era inesistente. Infatti, il suo corpo fluttuava. Era trattenuto esclusivamente da una ragnatela di cinghie di sicurezza.
Era nello spazio.
Una voce gli parlò all’orecchio: — Buongiorno, Roger. Questa è una registrazione.
Roger girò la testa e vide lì accanto la minuscola griglia di un altoparlante.
— Abbiamo rallentato la registrazione, in modo che tu possa comprenderla. Se vuoi parlare con noi, basta che tu incida su nastro ciò che vuoi dire, in un minuto. Poi provvederemo ad accelerarlo, in modo che possiamo capire noi. La scienza è una cosa grande.
«Comunque, siamo al giorno trentuno, quando incido questo nastro. Nel caso che non ti ricordi più di me, sono Don Kayman. Hai avuto qualche noia. Il tuo sistema muscolare ha lottato contro l’accelerazione del decollo, e ti sei strappato alcuni legamenti. Abbiamo dovuto praticare qualche piccolo intervento chirurgico. Ma stai guarendo benissimo. Brad ha ricostruito parte dei meccanismi cibernetici, e probabilmente tu potrai manovrare i delta, quando arriveremo sani e salvi. Vedremo. Non c’è nient’altro di importante da dire, e probabilmente tu avrai qualche domanda da rivolgerci, ma prima che venga il tuo turno, c’è un messaggio per te.»
Il nastro frusciò gracchiando per qualche istante, poi venne la voce di Dorrie, distorta e attenuata. Sul sottofondo di scariche sibilanti, disse: — Ciao, tesoro. Qui a casa tutto bene, e tengo acceso il focolare per te. Ti penso molto. Abbi cura di te.
E poi di nuovo la voce di Kayman: — Ora senti quel che devi fare. Innanzi tutto, se c’è qualcosa d’importante, se soffri o qualcosa del genere, devi dircelo subito. C’è una notevole perdita di tempo reale, perciò prima devi dire le cose importanti, e quando hai finito, alza la mano mentre noi cambiamo i nastri, e poi puoi continuare con le chiacchiere. Vai pure.
Il nastro si fermò, e la piccola spia rossa che significava «Trasmissione», vicino alla griglia dell’altoparlante, si spense e se ne accese una verde per annunciare «Registrazione». Roger prese il microfono; si preparava a dire che no, non aveva problemi particolari, quando per caso abbassò lo sguardo e si accorse che gli mancava la gamba destra.
Naturalmente, noi sorvegliavamo ogni attimo, a bordo dell’astronave.
Dopo il primo mese, il legame delle comunicazioni si era assottigliato parecchio. La geometria creava difficoltà. Mentre l’astronave volava verso l’orbita di Marte, Marte si muoveva. Si muoveva anche la Terra, e molto più velocemente. Avrebbe compiuto due giri intorno al sole, prima che Marte completasse una sola orbita. I dati telemetrici trasmessi dall’astronave, ormai, impiegavano ben tre minuti prima di arrivare a Goldstone. Noi eravamo ascoltatori passivi. E in futuro sarebbe andata anche peggio. Ogni comando irradiato dalla Terra sarebbe arrivato mezz’ora dopo, quando l’astronave fosse stata in orbita intorno a Marte, andata e ritorno alla velocità della luce. Avevamo rinunciato al controllo istantaneo: l’astronave e i suoi passeggeri erano effettivamente abbandonati a se stessi.
Più tardi ancora, la Terra e Marte si sarebbero venuti a trovare dalle parti opposte del Sole. I deboli segnali provenienti dall’astronave sarebbero stati compromessi dall’interferenza solare, al punto che non avremmo neppure potuto ricevere qualcosa di attendibile. Ma allora sarebbe stato in orbita il 3070, e poco dopo l’avrebbe raggiunto il generatore MHD. Così ci sarebbe stata energia in abbondanza per ogni cosa. Era tutto pianificato: dove sarebbe andato ognuno, come si sarebbero collegati tra loro e con la nave in orbita e con la stazione al suolo e con Roger, dovunque egli se ne andasse.
Lanciammo il 3070, con l’energia ridotta sullo «stand-by». Fu un volo robotizzato. All’analisi, i rischi della ionizzazione risultarono inaccettabili per un’astronave di configurazione normale, perciò gli ingegneri del Cape tolsero tutti gli impianti che rendevano possibile l’esistenza agli esseri umani, tutti gli apparecchi telemetrici, il sistema di demolizione e metà della capacità di manovra. Tutto il peso eliminato venne reintrodotto sotto forma di schermature. Quando venne lanciato, era silenzioso e senza vita, e sarebbe rimasto così per sette mesi. Poi il generale Hesburgh avrebbe preso i comandi e avrebbe manovrato i due veicoli per la manovra del docking. Sarebbe stato difficile, ma lui era pagato per questo.
Lanciammo il generatore MHD un mese dopo, con un equipaggio di due volontari e la massima pubblicità. Ormai se ne interessavano tutti. E nessuno protestò, neppure la Nuova Asia Popolare. Aveva ignorato il primo lancio. Aveva ammesso di aver seguito il lancio del 3070 e aveva offerto i suoi dati alla rete della NASA. Quando partì il generatore, il suo ambasciatore consegnò una cortese nota di congratulazioni.
Era chiaro che stava succedendo qualcosa.
Non era tutto psicologico. New York City passò due settimane senza sommosse, e in alcune delle strade principali venne persino raccolta la spazzatura. Le piogge invernali spensero gli ultimi grandi incendi nel Nord-Ovest, e i governatori degli Stati di Washington, Oregon, Idaho e California lanciarono un appello congiunto per chiedere volontari. Più di centomila giovani si arruolarono per rimboschire le montagne.
Il presidente degli Stati Uniti fu l’ultimo a notare i cambiamenti: era troppo occupato a causa dei disastri interni di una nazione che si era sovrappopolata e aveva speso troppo, precipitando nella tragedia. Ma venne il momento in cui si accorse che il cambiamento c’era stato, non soltanto negli Stati Uniti ma in tutto il mondo; e non era solo un cambiamento di umori, ma anche di tattica. Gli asiatici ritirarono i sommergibili nucleari dalle acque del Pacifico occidentale e dell’oceano Indiano, e quando Dash ricevette la conferma, prese il telefono e chiamò Vern Scanyon.
— Credo… — Si interruppe e allungò la mano per toccare il legno lucido della scrivania. — Credo che funzioni. Dia una pacca sulle spalle ai suoi collaboratori, a nome mio. E adesso, le occorre qualcosa.
Ma non c’era bisogno di nulla.
Ormai eravamo completamente impegnati. Ci eravamo spinti fin dove potevamo, e il resto spettava alla spedizione.