CAPITOLO QUATTORDICESIMO MISSIONARIO PER MARTE

Don Kayman si concedeva di pregare non più di sei volte al giorno. Pregava per chiedere varie cose — talvolta di non dover più sentire Titus Hesburgh che si succhiava i denti, talvolta di non essere più infastidito dall’odore dei peti che appestavano l’interno della tuta spaziale — ma ogni preghiera comprendeva sempre tre invocazioni: la riuscita della missione, la realizzazione del piano provvidenziale per l’umanità e, in particolare, ogni bene per il suo amico Roger Torraway.

Roger aveva il privilegio di una cabina personale. Non era gran cosa, e l’intimità era assicurata soltanto da una tenda elastica, sottile come un velo e non molto opaca: ma era tutta sua. Gli altri tre si dividevano la cabina dell’equipaggio. Qualche volta la divideva con loro anche Roger: o almeno, la dividevano alcuni pezzi di Roger. Era sparso un po’ dappertutto, Roger.

Kayman andava spesso a dargli un’occhiata. Per lui il viaggio era lungo e noioso. La sua specializzazione, che naturalmente non sarebbe servita a niente fino a quando avessero messo piede sulla superficie di Marte, non richiedeva aggiornamenti né esercizi. L’areologia era una scienza statica, e tale sarebbe rimasta fino a quando egli stesso, come sperava, avesse potuto arricchirla dopo lo sbarco. Perciò aveva lasciato che Titus Hesburgh gli insegnasse a conoscere il quadro degli strumenti, e più tardi aveva lasciato che Brad gli insegnasse un po’ a smontare un cyborg. La forma grottesca che si contorceva lentamente nel bozzolo di gommapiuma non era più estranea. Kayman la conosceva centimetro per centimetro, di dentro e di fuori. Via via che trascorrevano le settimane, egli perse la ripugnanza che l’aveva trattenuto dallo svellere un occhio dall’orbita o dall’aprire un pannello nelle viscere rivestite di plastica.

Non aveva solo questo, da fare. Aveva i nastri di musica da ascoltare, qualche microfiche da leggere, e partite da giocare. A scacchi, lui e Titus Hesburgh più o meno si equivalevano. Giocavano tornei interminabili, al meglio delle 75 partite, e si servivano del tempo loro riservato per le comunicazioni personali, facendosi trasmettere dalla Terra testi sugli scacchi. Padre Kayman avrebbe trovato una maggiore serenità se avesse pregato di più, ma dopo la prima settimana aveva pensato che si poteva esagerare anche con le preghiere. Quindi le razionò: al risveglio, prima dei pasti, a metà serata, e poi prima di addormentarsi. E questo era tutto. Naturalmente, non erano inclusi in questa serie la rapida elevazione ottenuta recitando un Paternoster o il rosario di Sua Santità. Poi, Kayman ritornava all’interminabile lavoro di risistemazione di Roger. Si sentiva quasi sempre lo stomaco sconvolto, ma era chiaro che Roger era ignaro di quelle invasioni della sua persona e non ne soffriva. Poco a poco, Kayman imparò ad apprezzare la bellezza dell’anatomia interna del cyborg: sia quella parte che era opera dell’Uomo, sia quella che era opera di Dio. Ed egli rendeva grazie per entrambe.

Ma non se la sentiva di rendere grazie per ciò che Dio e l’uomo avevano fatto alla mente di Roger. Lo turbava il pensiero che alla vita del suo amico venissero rubati sette mesi; e lo impietosiva il fatto che l’amore di Roger andasse ad una donna che lo teneva in scarsissimo conto.

Ma tutto considerato, Kayman era felice.

Non aveva mai partecipato a una missione su Marte: tuttavia quello era il suo posto. Era stato altre due volte nello spazio: una corsa con una navetta fino a una stazione orbitale, quando era ancora uno studente laureato che aspirava a un dottorato in planetologia; e poi un giro di novanta giorni a bordo della Stazione Spaziale Betty. L’una e l’altra esperienza erano state soltanto esercitazioni in vista della missione che avrebbe completato il suo studio su Marte.

Tutto ciò che egli sapeva di Marte lo aveva appreso per mezzo di un telescopio o per deduzione o in base alle osservazioni altrui. Le conosceva molto bene. Aveva esaminato e riesaminato più volte ì nastri sinottici di tutti gli Orbiter, i Mariner e i Surveyor. Aveva analizzato i campioni di suolo e di roccia portati sulla Terra. Aveva interrogato tutti gli americani, i francesi e gli inglesi che erano scesi su Marte, e anche molti dei russi, giapponesi e cinesi.

Sapeva tutto di Marte. Aveva sempre saputo tutto.

Da bambino era cresciuto sul pianeta Marte di Edgar Rice Burroughs, il colorito Barsoom dai fondi oceanici morti e color ocra e dalle minuscole lune velocissime. Crescendo, aveva imparato a distinguere la realtà dalla finzione. Non c’era niente di reale nei guerrieri verdi a quattro braccia e nelle bellissime principesse marziane che avevano la pelle rossa e deponevano uova… almeno nella misura in cui la scienza era in contatto con la «realtà». Ma egli sapeva che l’opinione degli scienziati sulla «realtà» cambiavano da un anno all’altro. Burroughs non aveva tratto Barsoom esclusivamente dalla propria immaginazione. L’aveva tratto, quasi parola per parola, dalla «realtà» scientifica più autorevole dei suoi tempi. Era il Marte di Percival Lowell, non quello di Burroughs, che era stato smentito dai telescopi più grandi e dalle sonde spaziali. Nella «realtà» dell’opinione scientifica, la vita su Marte era nata e morta una dozzina di volte.

Ma anche tale questione non era mai stata veramente risolta. Dipendeva da un problema filosofico. Che cos’era la «vita»? Indicava necessariamente un essere simile a una scimmia o a una quercia? Indicava per forza di cose un essere che scioglieva le sue sostanze nutrienti in una biologia basata sull’acqua, partecipava al ciclo del trasferimento di energia per ossidazione e riduzione, si riproduceva e perciò cresceva dall’ambiente? Don Kayman non la pensava così. Giudicava presuntuoso limitare la «vita» in modo tanto campanilistico, e si sentiva molto umile di fronte alla maestà onnipotente del Creatore.

Comunque, la questione di una vita geneticamente affine a quella terrestre era ancora aperta. O almeno, non del tutto chiusa. Certo, non si erano trovate né scimmie né querce. Neppure un lichene. Neppure una cellula vivente. E neppure (era costretto a confessarlo con rammarico, perché Dejah Thoris non voleva saperne di morire, dentro al suo cuore) i prerequisiti indispensabili come l’ossigeno libero e l’acqua.

Ma Kayman non ammetteva che, siccome nessuno era scivolato su una distesa di muschi marziani, questi non esistessero in nessuna parte del pianeta. Su Marte avevano posto piede meno di cento esseri umani. Sommata insieme, l’area delle loro esplorazioni non superava alcune centinaia di miglia quadrate. Su Marte, dove non esistevano oceani, e la superficie della terraferma da esplorare era quindi maggiore di quella della Terra! Era un po’ come pretendere di conoscere la Terra compiendo quattro rapidi viaggi nel Sahara, sulle cime dell’Himalaia, nell’Antartide e sulla calotta polare della Groenlandia…

Beh, no, ammise Kayman. Non era esatto. Vi erano stati gli innumerevoli sorvoli, e le sonde messe in orbita, e i veicoli spaziali che si erano posati sulla superficie per prelevare campioni del suolo.

Tuttavia, il principio era valido. Marte era troppo grande. Nessuno poteva sostenere che non serbasse qualche segreto. Si poteva ancora trovare acqua. Alcuni dei grandi crepacci apparivano promettenti. Alcune valli avevano forme che difficilmente si potevano capire, se non si era disposti ad ammettere che fossero state scavate da fiumi. Anche se adesso erano asciutte, poteva ancora esservi acqua, immensi oceani d’acqua prigionieri sotto la superficie. Si sapeva che l’ossigeno era presente. Non molto, in media, ma le medie non erano importanti. Localmente poteva essercene in abbondanza. E quindi poteva esserci…

La vita.

Kayman sospirò. Uno dei suoi rimpianti più grandi era di non essere riuscito a far cambiare la scelta del punto di atterraggio in uno dei luoghi che, personalmente, considerava più adatti ad ospitare la vita, l’area del Solis Lacus. La decisione gli era stata sfavorevole. Era stata presa da un’altissima autorità… infatti, era stato Dash in persona a dichiarare: — Non me ne importa un cavolo di sapere dove può esserci qualcosa di vivo, adesso. Io voglio che il modulo scenda dove sia più facile che resti in vita il nostro ragazzo.

Perciò avevano scelto una località nei pressi dell’equatore, e nell’emisfero settentrionale: i rilievi principali si chiamavano Isidius Regio e Nepenthes, e alla loro intersezione c’era un cratere che Don Kayman aveva segretamente battezzato Casa.

Altrettanto segretamente, egli rimpiangeva la perdita del Solis Lacus e della sua forma che mutava con le stagioni (piante che crescevano? Probabilmente no… ma si poteva sempre sperare!), la fulgida nuvola a forma di W intorno ai canali Ulysses e Fortunae, che si era formata e riformata ogni pomeriggio durante una lunga congiunzione, il lampo brillantissimo (il riflesso della luce solare? un’esplosione all’idrogeno?) che Saheki aveva visto nel Tithonius Lacus il 1° dicembre 1951, luminoso come una stella di sesta grandezza. Qualcun altro avrebbe dovuto indagare su tutto ciò: lui non lo avrebbe fatto.

Ma a parte questi rimpianti, Kayman era abbastanza contento. L’emisfero settentrionale rappresentava una scelta opportuna. Le stagioni erano meglio equilibrate perché, come sulla Terra, nell’emisfero settentrionale c’era l’inverno quand’era più vicino al sole, e perciò rimaneva un poco più caldo durante tutto l’anno. Là l’inverno era di venti giorni più breve dell’estate; nell’emisfero meridionale, ovviamente, avveniva il contrario. E sebbene nessuno avesse mai osservato che Casa cambiasse forma o emettesse lampi luminosi, in realtà vi era stato riconosciuto un buon numero di recenti formazioni nuvolose. Kayman non aveva rinunciato alla speranza che alcune di quelle nubi fossero formate di ghiaccio, se non d’acqua! Immaginò con la fantasia temporali torrenziali sulla pianura marziana, e poi pensò più sobriamente alle grandi distese di limonite che erano state identificate nei pressi. La limonite conteneva abbondanti quantitativi d’acqua: sarebbe stata una risorsa per Roger, anche se su Marte non si erano mai evoluti animali o piante capaci di sfruttarla.

Nel complesso, era soddisfatto di tutto.

Era in viaggio per Marte! Era un motivo di grande gioia per lui, e di questo rendeva grazie a Dio sei volte al giorno. E poi, aveva una speranza.

Don Kayman era troppo scienziato per confondere le proprie speranze con le osservazioni. Avrebbe riferito quel che avrebbe scoperto. Ma sapeva cosa voleva trovare. Voleva trovare la vita.

Nella misura consentita dagli scopi della missione, nei novantun giorni marziani in cui sarebbe rimasto sulla superficie del pianeta, avrebbe tenuto gli occhi aperti. Tutti sapevano che l’avrebbe fatto. Anzi, questo faceva parte delle istruzioni contingenti che aveva ricevuto circa l’attività che avrebbe potuto svolgere, tempo permettendo.

Quello che non tutti sapevano era il motivo dell’interesse di Kayman.

Dejah Thoris, per lui, non era completamente morta. Egli sperava ancora che vi fosse la vita: addirittura vita intelligente. E non solo forme di vita intelligenti, ma anche con anime da salvare e da condurre al suo Dio.


Tutto ciò che accadeva a bordo della nave spaziale era sotto continua sorveglianza, e le trasmissioni sinottiche si svolgevano regolarmente. Perciò noi li tenevamo d’occhio. Assistevamo alle partite a scacchi e alle discussioni. Controllavamo le modifiche apportate da Brad alle funzioni del corpo di Roger, carne e metallo. Vedemmo la notte in cui Titus Hesburgh pianse per cinque ore, dolcemente, sognante, respingendo con un sorriso tra le lacrime tutti i tentativi di conforto di Kayman. In un certo senso, Hesburgh aveva il compito più ingrato: sette mesi all’andata, sette mesi al ritorno e tra l’una e l’altro, tre mesi di niente. Sarebbe rimasto completamente solo in orbita mentre Kayman, Brad e Roger se la sarebbero spassata sulla superficie. Sarebbe rimasto solo, e si sarebbe annoiato.

E gli sarebbe toccato anche di peggio. Diciassette mesi trascorsi nello spazio, in pratica, assicuravano che negli ultimi decenni della sua vita egli sarebbe stato tormentato da cento diversi disturbi muscolari, ossei e circolatorii. Tutti si tenevano diligentemente in esercizio, facendo la lotta tra loro e azzuffandosi con le molle, agitando le braccia e muovendo le gambe: ma non sarebbe bastato. Inevitabilmente c’era riassorbimento di calcio dalle ossa, e perdita del tono muscolare. Per coloro che sarebbero atterrati, i tre mesi trascorsi su Marte avrebbero comportato una grande differenza. In quel periodo avrebbero posto rimedio a gran parte dei danni, e sarebbero stati in condizioni migliori per affrontare il ritorno. Per Hesburgh quella fase non ci sarebbe stata. Per lui i diciassette mesi a gravità zero sarebbero stati ininterrotti, e l’esperienza degli astronauti che l’avevano preceduto prospettava chiaramente le conseguenze: la durata della sua vita sarebbe stata abbreviata di un decennio o più. E se Titus Hesburgh ogni tanto piangeva, nessuno ne aveva più diritto di lui.

Il tempo passava, il tempo passava. Un mese, due mesi, sei mesi. Dietro di loro, nei cieli, la capsula con il 3070 saliva e saliva, seguendoli; ancora più indietro, veniva la centrale elettrica magnetoídrodinamica, con il suo equipaggio di due persone. Quando mancavano due settimane all’arrivo, cambiarono cerimoniosamente gli orologi, mettendo i nuovi a quarzo che misuravano il giorno marziano. Da quel momento, vissero secondo l’orologio marziano. Dal punto di vista pratico, la differenza era poca: il giorno di Marte è circa trentasette minuti più lungo di quello terrestre. Ma la differenza era significativa psicologicamente.

Una settimana prima dell’arrivo, cominciarono ad accelerare Roger.

Per Roger, quei sette mesi erano stati come trenta ore di tempo soggettivo. Era stato comunque abbastanza lungo. Aveva mangiato qualche pasto, aveva scambiato alcune dozzine di comunicazioni con il resto dell’equipaggio. Aveva chiesto la sua chitarra; ma gliel’avevano rifiutata perché non poteva suonarla. L’aveva voluta comunque, per curiosità, e aveva scoperto che era vero: poteva pizzicare una corda, ma non udire la nota risultante. Infatti, a parte i nastri appositamente rallentati, quasi sempre non riusciva ad udire nulla: soltanto una sorta di suono acuto, frusciante. L’aria non trasmetteva il tipo di vibrazioni che egli poteva percepire. Quando il registratore non era a contatto con la struttura metallica cui era legato, Roger non poteva udire neppure quello, e la sua voce non veniva registrata.

Lo avvertirono che stavano cominciando ad accelerare le sue percezioni. Lasciarono aperta la tenda del suo cubicolo, ed egli cominciò a notare guizzi rapidissimi. Intrawide Hesburgh che sonnecchiava lì vicino, poi vide delle figure che effettivamente si muovevano; dopo un po’ le riconobbe persino. Poi lo addormentarono, per effettuare gli adattamenti definitivi del computer a zaino, e quando Roger si svegliò era solo, la tenda era chiusa… E udì delle voci.

Scostò la tenda e guardò fuori, e a salutarlo c’era la faccia sorridente dell’amante di sua moglie: — Buongiorno, Roger! Lieto di riaverti con noi.

… E diciotto minuti dopo, dodici per la trasmissione del messaggio attraverso lo spazio e il resto per la decifrazione e il collegamento, il presidente assistette alla scena, a più di centosessanta milioni di chilometri di distanza, sullo schermo, nella Sala Ovale.

Non era l’unico a vederla. Le reti televisive mandarono in onda la scena, e i satelliti la ritrasmisero in tutto il mondo. La videro nel Palazzo di Pechino, e al Cremlino; a Downing Street e all’Eliseo e a Ginza.

— Figlio di puttana, — fu la frase storica di Dash. — Ce l’hanno fatta.

Vern Scanyon era con lui. — Figlio di puttana, — gli fece eco. Poi disse: — Beh, quasi fatta. Devono ancora atterrare.

— C’è qualche problema per questo?

Cautamente: — No, a quanto mi risulta…

— Dio, — affermò sicuro il presidente, — non può essere così ingiusto. Adesso io e lei faremmo bene a berci un goccetto di bourbon; era ora.

Rimasero ad assistere alla trasmissione per mezz’ora, e per un quarto di bottiglia. Di tanto in tanto, nei giorni seguenti, videro dell’altro, loro ed il resto del mondo. Il mondo intero vide Hesburgh effettuare i controlli finali e preparare il modulo marziano per lo sganciamento. Videro Don Kayman collaudare le manovre sotto l’osservazione meticolosa del pilota, poiché sarebbe stato ai comandi per la discesa, una volta lasciata l’orbita. Videro Brad effettuare un ultimo riesame della telemetria di Roger, riscontrare che tutto funzionava per il meglio, e poi ripetere tutto il controllo ancora una volta. Videro Roger aggirarsi nella cabina dell’equipaggio e infilarsi nel modulo.

E videro il modulo sganciarsi ed Hesburgh guardare malinconicamente il bagliore che cominciava a scendere dall’orbita.

Calcolammo che tre miliardi e mezzo di persone assistettero all’atterraggio. Non c’era molto da vedere: se avete visto un atterraggio li avete visti tutti. Ma questo era importante.

Cominciò alle quattro meno un quarto del mattino, fuso orario di Washington; e il presidente si era fatto svegliare apposta. — Quel prete, — disse, accigliandosi, — che razza di pilota è? Se va male qualcosa…

— Ha seguito i corsi, signore, — lo tranquillizzò il suo aiutante per la NASA. — Comunque, in realtà è solo una sorta di riserva. È la sequenza automatica ad avere il comando primario. Se qualcosa non va, il generale Hesburgh segue tutto dall’astronave in orbita e può intervenire prendendo i telecomandi. Padre Kayman non deve fare niente, a meno che tutto vada male contemporaneamente.

Dash scrollò le spalle, e l’aiutante notò che il presidente teneva le dita incrociate in atto di scongiuro. — E i voli successivi? — chiese, fissando lo schermo.

— Nessuna preoccupazione, signore. Il computer si inserirà nell’orbita marziana fra trentadue giorni, e il generatore ventisette giorni più tardi. Non appena il modulo toccherà la superficie, il generale Hesburgh effettuerà una correzione di rotta e supererà la luna Deimos. Contiamo di far scendere il computer e il generatore, probabilmente nel cratere Voltaire: Hesburgh deciderà per noi.

— Uhm, — fece il presidente. — Hanno detto a Roger chi c’è a bordo dell’astronave del generatore?

— No, signore.

— Uhm. — Il presidente abbandonò il teleschermo e si alzò. Andò alla finestra e, guardando il bel prato della Casa Bianca, verdeggiante e fiorito nel mese di giugno, disse: — C’è un tale che arriva dal centro computer di Alexandria. Vorrei che lei fosse presente, quando verrà qui.

— Sì, signore.

— Il comandante Chiaroso. Dovrebbe sapere il fatto suo. Era professore al M.I.T. Dice che c’è qualcosa di strano nelle nostre proiezioni sull’intero progetto. Lei ha sentito dire qualcosa in proposito?

— No, signore, — disse l’aiutante per la NASA, allarmato. — Strano, signore?

Dash alzò le spalle. — Non mi mancherebbe altro che questo, — disse, — mettere in piedi questa maledetta faccenda e poi scoprire… Ehi! cosa diavolo succede?

Sul teleschermo l’immagine sobbalzò e si spezzò; sparì completamente, si ricostituì e tornò a sparire, lasciando soltanto le tracce delle righe.

— Niente di grave, signore, — si affrettò a tranquillizzarlo l’aiutante. — È l’impatto del rientro. Quando penetrano nell’atmosfera perdono il contatto video. Anche la telemetria ne risente, ma hanno un ampio margine: è tutto regolare.

Il presidente domandò: — Ma perché diavolo succede? Credevo che metà dei problemi derivassero dal fatto che Marte non ha atmosfera!

— Non ne ha molta, signore. Ma un po’ sì, e poiché è più piccolo ha anche una gravità inferiore. L’atmosfera superiore è densa all’incirca quanto quella della Terra alla stessa altitudine, ed è lì che si verifica l’impatto.

— Stramaledizione! — ringhiò il presidente. — Queste sorprese non mi piacciono! Perché qualcuno non mi aveva avvertito?

— Ecco, signore…

— Lasci perdere! Ne riparleremo più tardi. Spero che fare la sorpresa a Torraway non sia un errore… Beh, non pensiamoci più. Adesso cosa succede?

L’aiutante non guardava lo schermo, bensì il proprio orologio. — Apertura del paracadute, signore. Hanno completato l’accensione dei retrorazzi. Adesso si tratta solo di scendere. Tra pochi secondi… — L’aiutante indicò lo schermo che, obbediente, formò di nuovo un’immagine. — Ecco. Adesso sono in fase di discesa controllata.

Sedettero e attesero, mentre il modulo scendeva nella sottile atmosfera marziana, sotto l’immenso baldacchino, cinque volte più grande di un paracadute costruito per l’aria terrestre.

Quando toccò la superficie, il suono giunse da centosessanta milioni di chilometri, e sembrò quello di alcuni bidoni della spazzatura che cadessero da un tetto. Ma il modulo era stato costruito apposta; e i membri dell’equipaggio erano già da un pezzo chiusi nei loro bozzoli protettivi.

Dallo schermo uscì un sibilo e il cigolio del metallo che si raffreddava.

E poi la voce di Brad. — Siamo su Marte, — disse in tono di preghiera. E padre Kayman cominciò a mormorare le parole tratte dall’ordinale della Messa: — Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te. Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis.

E a queste parole abituali aggiunse: — Et in Marte.

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