CAPITOLO TERZO L’UOMO CHE DIVENTÒ MARZIANO

C’era stato un tempo in cui il pianeta Marte era sembrato simile a una seconda Terra. L’astronomo Schiaparelli, guardando attraverso il suo telescopio milanese in occasione della famosa congiunzione del 1877, vide certe cose che gli parvero «canali» e li annunciò come «canali»: e metà della popolazione non analfabeta della Terra li prese sul serio. Inclusi gli astronomi, che si affrettarono a puntare i telescopi nella stessa direzione e ne scoprirono altri.

Canali? Quindi dovevano essere stati scavati per uno scopo preciso. Che scopo? Per contenere acqua… non c’erano altre spiegazioni che potessero reggere.

La logica del sillogismo era convincente, e all’inizio del secolo al mondo non ne dubitava quasi più nessuno. Si accettava, come fosse Vangelo, l’idea che Marte ospitasse una civiltà più antica e più sapiente della nostra. Se almeno fossimo riusciti a metterci in comunicazione con essa, quali meraviglie avremmo appreso! Percival Lowell rimuginò davanti a un blocco per disegni e poi propose un primo tentativo. Tracciate enormi figure euclidee nel deserto del Sahara, disse. Bordatele di fascine, oppure scavate delle trincee e riempitele di petrolio. E poi, in una notte senza luna, quando Marte è alto nel cielo africano, appiccate il fuoco. Gli occhi marziani, che secondo Lowell dovevano essere incollati ai telescopi marziani, avrebbero visto. I marziani avrebbero riconosciuto i quadrati e i triangoli. Avrebbero compreso che si trattava di un tentativo di comunicare, e grazie alla loro sapienza così antica avrebbero trovato un mezzo per rispondere.

Non tutti credevano a questo con la stessa incrollabile fermezza di Lowell. Alcuni sostenevano che Marte era troppo piccolo e freddo per aver potuto ospitare una razza immensamente intelligente. Scavare canali? Oh, sì, era abbastanza semplice, e poteva riuscirci anche una cultura contadina; e una razza che moriva di sete poteva certamente scavare fossi, anche fossi enormi visibili al di là degli spazi interplanetari, per restare in vita. Una razza che vivesse lassù doveva essere simile a quella degli eschimesi, prigionieri in eterno sulle soglie della civiltà perché il mondo al di fuori degli igloo era troppo ostile per accordar loro la possibilità di imparare le astrazioni. Senza dubbio, quando i nostri telescopi sarebbero stati dotati di un tale potere di risoluzione da mostrarci la faccia dei singoli marziani, noi avremmo visto solo una maschera animalesca, stolida e intontita, simile al muso dei bovini: esseri capaci di spostare la terra e di coltivarla, sì, ma non di aspirare ad una vita della mente.

Comunque, sapienti o bruti, i marziani c’erano… o almeno così credeva il fior fiore dell’opinione pubblica di quei tempi.

Poi erano stati costruiti telescopi più perfezionati, e si erano scoperti metodi migliori per comprendere ciò che rivelavano. Alla lente e allo specchio si aggiunsero lo spettroscopio e la macchina fotografica. Ogni giorno, Marte si avvicinava un poco di più agli occhi ed alla comprensione degli astronomi. E ad ogni passo, via via che l’immagine del pianeta diveniva più nitida e chiara, la visione dei suoi presunti abitanti diventava più nebulosa, meno reale. L’aria era troppo poca. L’acqua era troppo poca. Faceva troppo freddo. I canali, visti attraverso mezzi dotati di maggior potere risolvente, si frantumarono in chiazze irregolari di rilievi superficiali. Le città che avrebbero dovuto indicare i punti di congiunzione non esistevano.

Al tempo delle prime missioni Mariner la razza marziana, che non era mai vissuta se non nell’immaginazione degli esseri umani, era irrevocabilmente morta.

Sembrava ancora possibile, tuttavia, che esistesse qualche forma di vita, magari piante inferiori, forse addirittura qualche rudimentale specie di anfibi. Ma nulla di simile all’uomo. Sulla superficie di Marte un essere formato d’acqua per una percentuale altissima e creato per respirare l’aria, come un uomo, non sarebbe sopravvissuto neppure un quarto d’ora.

Sarebbe stata la mancanza d’aria ad ucciderlo più rapidamente. La morte non sarebbe stata causata dal semplice soffocamento. L’essere umano non sarebbe vissuto abbastanza a lungo perché questo potesse accadere. Alla pressione di 10 millibar, misurata sulla superficie di Marte, il suo sangue sarebbe evaporato bollendo ed egli sarebbe morto tra sofferenze orribili. Se fosse sopravvissuto a questo, allora sarebbe morto per mancanza dell’aria da respirare. Se fosse riuscito a sopravvivere anche a questo — grazie a bombole d’aria e a una maschera alimentata con un miscuglio di gas non contenenti azoto, e a una pressione intermedia tra quella terrestre e quella marziana — sarebbe morto comunque. Sarebbe morto per l’esposizione alle radiazioni solari non filtrate. Sarebbe morto per i rigori della temperatura marziana, che nella migliore delle ipotesi poteva raggiungere quella di un tepido giorno di primavera e, nella peggiore, poteva essere più tremenda della notte antartica. Sarebbe morto di sete. E se in un modo o nell’altro fosse riuscito a sopravvivere a tutto questo, sarebbe morto lentamente ma inevitabilmente di fame, poiché sull’intera superficie di Marte non vi era un solo boccone che un essere umano potesse mangiare.

Ma c’è un argomento completamente diverso che contraddice le conclusioni tratte dai fatti obiettivi. L’uomo non si lascia inceppare dai fatti obiettivi. Se gli danno fastidio, se l’ostacolano, li cambia o li aggira.

L’uomo non può sopravvivere su Marte. Tuttavia, non può sopravvivere neppure nell’Antartide. Però ci riesce egualmente.

L’uomo sopravvive in luoghi dove, a rigore, dovrebbe morire: e ci riesce portando con sé un ambiente più mite. Porta ciò di cui ha bisogno. La sua prima invenzione, in questo campo, fu rappresentata dagli indumenti. La seconda, la conservazione dei viveri, come la carne secca e il grano secco. La terza fu il fuoco. Quella più recente, l’intera serie di apparecchi e di impianti che gli avevano permesso di raggiungere il fondo marino e lo spazio.

Il primo pianeta alieno su cui l’uomo posò piede fu la Luna. Era ancora più ostile di Marte, in quanto gli elementi vitali che su Marte erano scarsi — acqua, aria e cibo — sulla Luna non esistevano affatto. Eppure, già alla fine degli Anni Sessanta gli uomini visitarono la Luna, portando con sé aria ed acqua e tutto il necessario in sistemi creati per conservare la vita e montati sulle tute spaziali e nei moduli d’allunaggio. A partire da quel momento non fu un grosso problema costruire sistemi dello stesso tipo, ma più grandi. Non fu facile, date le proporzioni. Ma la scalata era continua, e si era giunti a creare colonie semipermanenti, a ciclo chiuso, abbastanza vicine all’autosufficienza. Il primo problema del mantenimento era puramente logistico. Per ogni uomo c’era bisogno di tonnellate di viveri e di scorte; per ogni chilo di carico lanciato nello spazio si spendevano due milioni di dollari di carburante e di materiale. Comunque, era possibile.

Marte è infinitamente più lontano. La Luna gira intorno alla Terra a una distanza inferiore ai quattrocentomila chilometri. Quando Marte ci è vicino, e accade poche volte in un secolo, è oltre cento volte più lontano.

Marte non è solo lontano dalla Terra: è anche più lontano dal Sole di quanto lo sia il nostro pianeta. Mentre la Luna riceve, per ogni centimetro quadrato, la stessa quantità di energia della Terra, Marte, secondo la legge dell’inverso del quadrato, ne riceve soltanto la metà.

Da un punto o dall’altro della Terra, si può sempre inviare un razzo sulla Luna a qualsiasi ora di qualsiasi giorno. Ma Marte e la Terra non ruotano l’uno intorno all’altra: girano entrambi intorno al sole, e lo fanno a velocità tanto diverse che talvolta sono non molto vicini e talvolta sono molto lontani. Solo quando si trovano alle distanze minime è possibile lanciare un razzo dall’uno all’altro, e tali occasioni si presentano una volta sola ogni due anni, per un mese e qualche settimana.

Persino i fattori strutturali che rendono Marte più simile alla Terra sono negativi per l’eventualità di istituirvi una colonia. È più grande della Luna, perciò ha una gravità più vicina a quella terrestre. Ma poiché è più grande e ha una gravità superiore, un razzo ha bisogno di più combustibile per atterrarvi, e di più combustibile per ripartire.

Insomma, tirando le somme, una colonia sulla Luna può venire mantenuta dalla Terra. Con una colonia su Marte, questo non è possibile.

Almeno, non è possibile con una colonia di esseri umani.

Ma… e se si rimodella un essere umano?

Immaginiamo di prendere la struttura umana normale e di alterare alcuni organi opzionali. Su Marte non c’è niente da respirare. Perciò togliamo i polmoni dal corpo umano e sostituiamoli con apparecchi microminiaturizzati per la rigenerazione dell’ossigeno. Per farlo occorre energia, ma l’energia arriva dal sole lontano.

Nell’organismo umano normale, il sangue bollirebbe: benissimo, eliminiamo il sangue, almeno dalle estremità e dalle aree superficiali — costruendo braccia e gambe azionate da motori anziché dai muscoli — e riserviamo l’afflusso del sangue esclusivamente al cervello, protetto e ben caldo. Un corpo umano normale ha bisogno di nutrirsi, ma se i muscoli principali vengono sostituiti da macchine, il fabbisogno alimentare scende. Solo il cervello ha bisogno di essere nutrito ogni minuto del giorno e, per fortuna, come quantità di energia il cervello ha le minori esigenze tra tutti gli accessori umani. Una fetta di pan tostato al giorno basta ad alimentarlo.

L’acqua? Non è più necessaria, se non per le perdite meccaniche: come aggiungere fluido idraulico all’impianto frenante di un’automobile dopo tot migliaia di chilometri. Quando il corpo è diventato un sistema chiuso, non è necessario immettervi acqua nel ciclo ingestione-circolazione-escrezione o traspirazione.

Le radiazioni? Un problema a doppio taglio. Vi sono esplosioni solari a intervalli imprevedibili, e allora persino su Marte sono troppo forti per giovare alla salute: perciò il corpo deve essere protetto da un’epidermide artificiale. Per il resto del tempo, il sole irradia solo la normale luce visibile e ultravioletta. Non è sufficiente per mantenere il calore, e neppure per consentire una buona visibilità: perciò è necessario fornire una superficie più ampia per raccogliere l’energia — ecco spiegati i grandi ricettori a orecchie di pipistrello del cyborg — e per rendere migliore il più possibile la visibilità gli occhi vengono sostituiti da strutture meccaniche.

Se si fa tutto questo ad un essere umano, ciò che resta non è più esattamente un essere umano. È un uomo più parecchi elementi meccanici.

L’uomo è diventato un organismo cibernetico: un cyborg.

Il primo uomo che venne trasformato in un cyborg fu probabilmente Willy Hartnett. C’è qualche dubbio al riguardo. Si vociferava con insistenza di un esperimento cinocomunista che era riuscito per qualche tempo e poi era fallito. Ma era chiaro che, almeno, Hartnett era l’unico cyborg vivo in quel particolare momento. Era nato nel normale modo umano e aveva avuto normale forma umana per trentasette anni. Solo durante gli ultimi diciotto mesi era cominciato a cambiare.

All’inizio i cambiamenti erano stati di poca importanza, e temporanei.

Il cuore non era stato asportato. Era stato soltanto tagliato fuori, di tanto in tanto, da un veloce propulsore di plastica tenera che Hartnett portava fissato a una spalla, una settimana alla volta.

Neppure gli occhi vennero asportati… allora. Vennero semplicemente chiusi con una sorta di benda gommosa, mentre Hartnett si abituava a riconoscere le forme sconcertanti del mondo, così come gli venivano rivelate da una telecamera elettronica ronzante collegata chirurgicamente ai suoi nervi ottici.

Uno ad uno, vennero collaudati i singoli sistemi che avrebbero fatto di lui un marziano. Solo quando ogni elemento venne collaudato, modificato e approvato furono apportate le prime trasformazioni permanenti.

In realtà, non erano permanenti. Era la promessa cui si aggrappava Hartnett. I chirurghi l’avevano fatta a lui, e lui l’aveva fatta a sua moglie. Tutti i cambiamenti erano reversibili, e sarebbero stati annullati. Al termine della missione, al suo ritorno, i chirurghi avrebbero tolto i meccanismi, li avrebbero sostituiti con normali tessuti, ed egli sarebbe stato restituito alla sua forma puramente umana.

Hartnett sapeva che non avrebbe riavuto esattamente la sua forma iniziale. Non era possibile conservare i suoi organi ed i suoi tessuti. Potevano solo sostituirli con equivalenti. Sarebbero ricorsi ai trapianti degli organi e alla chirurgia plastica per farlo somigliare di nuovo a se stesso: e c’erano scarse probabilità che potesse di nuovo sfruttare la sua vecchia foto sul passaporto.

A Hartnett non dispiaceva troppo. Non si era mai considerato un bell’uomo. Si accontentava di sapere che avrebbe riavuto occhi umani… non i suoi, naturalmente. Ma i dottori gli avevano promesso che sarebbero stati azzurri, avrebbero avuto palpebre e ciglia e, con un po’ di fortuna, pensavano i chirurghi, quegli occhi avrebbero potuto persino piangere. (Di gioia, prevedeva Hartnett.) Il suo cuore sarebbe stato di nuovo un muscolo cavo grosso come un pugno, e avrebbe pompato il rosso sangue umano fino ai capillari degli arti e del corpo. I muscoli dei polmoni avrebbero fatto entrare l’aria nel petto, e lì gli alveoli umani naturali avrebbero assorbito l’ossigeno ed esalato l’anidride carbonica. Le grandi orecchie da pipistrello dei fotoricettori (che causavano tanti fastidi, perché la forza per tenerle erette era in scala con la gravità marziana, ma non con quella terrestre, e perciò era necessario staccarle continuamente e rimandarle in laboratorio) sarebbero state smantellate e tolte. La pelle tanto faticosamente fabbricata ed adattata a lui sarebbe stata altrettanto faticosamente asportata, e sostituita da epidermide umana capace di sudore e dotata di peli. In effetti, la sua pelle c’era ancora, sotto l’aderente rivestimento artificiale, ma Hartnett prevedeva che non sarebbe sopravvissuta all’esperimento. Era stato necessario costringerla a non svolgere più le sue funzioni naturali durante il tempo in cui sarebbe rimasta sepolta sotto la cute artificiale. Quasi sicuramente, al termine dell’esperimento avrebbe perduto completamente la capacità di svolgere quelle funzioni e sarebbe stato indispensabile sostituirla.

La moglie di Hartnett aveva preteso da lui una promessa. Gli aveva fatto giurare che, fino a quando avesse portato il mostruoso mascherone di cyborg, non si sarebbe fatto vedere dai suoi figli. Per fortuna, i figli erano abbastanza piccoli per venire indottrinati, e i maestri, gli amici, i parenti, i genitori dei compagni di scuola e tutti gli altri avevano collaborato, poiché erano state raccontate loro storie di chissà quali malattie cutanee tropicali. C’era stata una discreta curiosità, ma la storia aveva sortito il suo effetto, e nessuno aveva insistito perché il papà di Terry presenziasse a una riunione dei genitori o il marito di Brenda l’accompagnasse a un barbecue in giardino.

Brenda Hartnett aveva cercato di non vedere il marito, ma alla fine la curiosità aveva avuto la meglio sulla paura. Un giorno era stata introdotta di nascosto nella sala della vasca, mentre Willy compiva esercizi di coordinazione, andando in bicicletta sulle sabbie rossastre con una bacinella d’acqua in equilibrio sul manubrio. Don Kayman le era rimasto accanto, prevedendo che svenisse o urlasse o magari vomitasse. Brenda non aveva fatto niente di tutto ciò, sbalordendo se stessa, non soltanto il prete. Il cyborg somigliava troppo a un mostro uscito da un film giapponese dell’orrore perché ella potesse prenderlo sul serio. Soltanto quella notte lei riuscì a collegare veramente quell’essere dalle orecchie di pipistrello e dagli occhi cristallini, intento ad andare in bicicletta, con il padre dei suoi figli. Il giorno dopo si recò dal direttore medico del progetto e gli disse che Willy doveva ormai smaniare dal bisogno di far l’amore con lei, e che era disposta ad accontentarlo. Il dottore dovette spiegarle ciò che Willy non era stato capace di dirle: che nella situazione attuale quelle funzioni erano considerate superflue e perciò erano state, uhm, temporaneamente soppresse.


Intanto il cyborg faticava con i suoi test e aspettava le nuove rate di sofferenza.

Il suo mondo era diviso in tre parti. La prima era un appartamento mantenuto ad una pressione equivalente a quella di circa 2500 metri di altezza, in modo che il personale addetto al progetto potesse entrare e uscire senza risentirne troppo. Hartnett dormiva lì, quando poteva; e lì mangiava quel po’ che gli veniva somministrato. Aveva sempre fame, sempre. Le avevano tentate tutte, ma non erano riusciti a sopprimere gli appetiti dei sensi. La seconda parte era la vasca marziana normale dove faceva ginnastica ed eseguiva i test, in modo che gli architetti del nuovo corpo potessero osservare all’opera la loro creatura. E la terza parte era una camera a bassa pressione, montata su ruote, che lo portava dall’appartamento privato all’arena pubblica dei test, o negli altri posti dove, molto raramente, gli accadeva di dover andare.

La vasca marziana normale era una specie di gabbia dello zoo, entro la quale era perennemente in mostra. La vasca a ruote non gli offriva altro che l’attesa di venir trascinato da una parte o dall’altra.

Solo il piccolo appartamento di due stanze che era ufficialmente casa sua gli dava un certo conforto. Lì c’era il televisore, lo stereo, il telefono, i suoi libri. Qualche volta uno degli studenti laureati o un collega astronauta lo andava a trovare, e giocava a scacchi con lui o cercava di far conversazione, ansimando disperatamente e con i polmoni che pompavano a fatica in quella pressione corrispondente a 2500 metri di quota. Hartnett attendeva con ansia quelle visite, e cercava sempre di prolungarle. Quando con lui non c’era nessuno, doveva arrangiarsi da solo. Leggeva raramente. Qualche volta guardava la televisione, senza badare molto a quello che veniva trasmesso. Di solito «riposava». Era così che lo spiegava ai supervisori: intendeva stare seduto o sdraiato con l’impianto visivo in «stand-by», in «attesa». Era come tenere gli occhi chiusi restando svegli. Una luce abbastanza forte gli arrivava ai sensi, come avviene anche attraverso le palpebre chiuse di un dormiente; e un suono penetrava subito. In quelle occasioni la sua mente turbinava, evocando pensieri di sesso, cibo, gelosia, sesso, collera, figli, nostalgia, amore… Alla fine dichiarò che non resisteva più, e allora fu sottoposto a un corso di autoipnosi che gli insegnò a svuotare la propria mente. In seguito, quando «riposava» non faceva quasi nulla consciamente, mentre il suo sistema nervoso si assestava e si preparava alle prossime sensazioni di dolore, e il suo cervello contava i secondi che lo separavano dal momento in cui la sua missione sarebbe terminata ed egli avrebbe riavuto il suo normale corpo umano.

Quei secondi erano molti. Li aveva moltiplicati tra sé e sé tante volte. Sette mesi in orbita verso Marte. Sette mesi per il volo di ritorno. Alcune settimane alla partenza e all’arrivo, a prepararsi per il lancio e poi a sbrigare le solite formalità prima che incominciassero a restituirgli il suo corpo. Alcuni mesi — nessuno sapeva dirgli quanti, esattamente — per gli interventi chirurgici e perché gli organi sostituiti attecchissero.

Il numero dei secondi, secondo i suoi calcoli approssimativi, era di circa quarantacinque milioni, dieci milioni in più o in meno. A Hartnett sembrava che ognuno di quei secondi arrivasse, indugiasse e scivolasse via con riluttanza.

Gli psicologi avevano tentato di evitare tutto ciò pianificandogli ogni momento. Hartnett aveva rifiutato i piani. Avevano cercato di comprenderlo, per mezzo di test ingegnosi e di esami del comportamento. Hartnett aveva lasciato che curiosassero; ma conservava dentro se stesso una cittadella d’intimità che non lasciava invadere da nessuno. Non si era mai considerato un uomo portato all’introspezione: sapeva di avere uno scarso spessore, di avere una vita senza grande interesse. Gli stava bene così. Ma ora che di suo gli restava soltanto l’interno della sua mente, la difendeva.

Talvolta avrebbe desiderato conoscere un modo per esaminare la propria vita. Avrebbe desiderato comprendere le ragioni che lo spingevano a fare ciò che faceva.

Perché si era offerto volontario per la missione? Talvolta si sforzava di ricordarlo, e poi ammetteva di non averlo mai saputo. Forse perché il mondo libero aveva bisogno dello spazio vitale marziano? Perché aspirava alla gloria di essere il primo marziano? Per il danaro? Per le borse di studio e le preferenze che avrebbe assicurato ai suoi figli? Per indurre Brenda ad amarlo?

Probabilmente si trattava di una di quelle ragioni, ma Hartnett non riusciva a ricordare: ammesso che lo avesse saputo.

Comunque, ormai era impegnato. L’unica cosa di cui era sicuro era che adesso non poteva tirarsi indietro.

Avrebbe lasciato che sottoponessero il suo corpo a tutte le sadiche torture che volevano. Sarebbe salito a bordo dell’astronave che l’avrebbe portato su Marte. Avrebbe sopportato i sette mesi interminabili in orbita. Sarebbe sceso sulla superficie, avrebbe esplorato, preso possesso del pianeta in nome del suo governo, avrebbe raccolto campioni, fatto fotografie ed analisi. Poi si sarebbe staccato di nuovo dalla superficie marziana e in un modo o nell’altro sarebbe sopravvissuto ai sette mesi del volo di ritorno, e avrebbe dato loro tutte le informazioni che volevano. Avrebbe accettato le medaglie e gli applausi e i giri di conferenze e le interviste televisive ed i contratti per libri scritti da lui.

E poi si sarebbe presentato ai chirurghi perché lo facessero tornare come doveva essere.

Era deciso a fare tutte queste cose, ed era sicuro di poterle realizzare tutte.

C’era soltanto un problema, nella sua mente, per il quale non aveva ancora trovato una soluzione. Riguardava una situazione che non era pronto ad affrontare. Quando si era offerto come volontario per il programma, gli avevano detto molto francamente e onestamente che i problemi medici erano complessi e non perfettamente conosciuti. Avrebbero dovuto imparare a risolverne alcuni servendosi proprio di lui. Era possibile che certe soluzioni fossero difficili da reperire, oppure fossero errate. Era possibile che restituirlo alla sua forma normale fosse, beh, difficile. Questo glielo avevano detto molto chiaramente, il primo momento, e poi non glielo avevano ripetuto mai più.

Ma Hartnett ricordava. Il problema che non aveva risolto era questo: che cosa avrebbe fatto se. per una ragione qualsiasi, al termine della missione, non fossero stati in grado di rimetterlo subito in sesto? Non sapeva decidere se si sarebbe semplicemente ucciso o se avrebbe cercato di uccidere, oltre a se stesso, il maggior numero possibile di amici, superiori e colleglli.

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