CAPITOLO SETTIMO IL MORTALE DIVENTA MOSTRO

Don Kayman era un uomo complesso, che non abbandonava mai un problema senza averlo prima risolto. Era per questo che ci tenevamo ad averlo nel progetto come areologo: ma riguardava anche gli aspetti religiosi della sua vita. C’era in fondo alla sua mente un problema religioso che lo turbava.

La cosa non gli impediva di fischiettare tra sé mentre si radeva meticolosamente il volto intorno alla barba alla Dizzy Gillespie e si spazzolava con cura i capelli alla paggio, guardandosi allo specchio. Tuttavia lo turbava veramente. Fissò attento la propria immagine, cercando di individuare ciò che lo rendeva inquieto. Dopo un attimo si rese conto che una delle cause, almeno, era la sua maglietta. Non andava bene. Se la sfilò e mise invece un maglioncino a quattro colori, con il collo alto, che aveva abbastanza l’aria del colletto da ecclesiastico per colpire il suo senso dell’humor.

Il citofono suonò. — Donnie? Sei quasi pronto?

— Arrivo fra un minuto, — disse Don Kayman, guardandosi intorno. Che altro? La giacca sportiva era appesa a una sedia accanto alla porta. Le scarpe erano ben lucide. I calzoni erano abbottonati. — Divento sempre più distratto, — si disse. Ciò che lo turbava era qualcosa che riguardava Roger Torraway, che in quel momento gli faceva una gran pena.

Scrollò il capo, prese la giacca, se la buttò sulla spalla, percorse il corridoio e andò a bussare alla porta del monastero di suor Clotilda.

— Buongiorno, padre, — disse la novizia che lo fece entrare. — Si accomodi. Vado a chiamarla.

— Grazie, Jess. — Mentre la novizia si allontanava, Kayman la guardò con aria da intenditore. L’abitudine di portare calzamaglie aderenti metteva in risalto la sua figura, e Kayman si godette la vaga, antica sensazione di peccato che gli dava. Era un vizio gradevole, come mangiare roast beef di venerdì. Ricordava i suoi genitori che ogni venerdì sera masticavano ostinatamente frutti di mare congelati, sebbene la dispensa fosse diventata generale. Non ritenevano che fosse un peccato mangiare carne, questo no: ma il loro apparato digestivo si era così abituato al pesce, il venerdì, che non sapevano cambiare. I sentimenti di Kayman nei confronti del sesso erano qualcosa di molto simile. Quando l’obbligo del celibato era stato soppresso, non era bastato a eliminare il condizionamento ancestrale di duemila anni d’un sacerdozio che aveva finto di non sapere a cosa servisse l’apparato genitale.

Suor Clotilda entrò a passo svelto nella stanza, gli diede un bacio sulla guancia appena rasata e lo prese a braccetto. — Hai un buon profumo, — disse.

— Vuoi che andiamo a prendere il caffè da qualche parte? — chiese Kayman, guidandola fuori dalla porta.

— Direi di no, Donnie. Su, usciamo.

Il sole autunnale era rovente: dal Texas arrivavano correnti calde. — Abbassiamo la capotte?

Clotilda scosse il capo. — Ti spettineresti tutto. Comunque, fa troppo caldo. — Si girò, dentro la cintura di sicurezza che la tratteneva, per guardarlo. — Cos’è successo?

Kayman scrollò le spalle, avviando la macchina e guidandola sulla corsia automatica. — Non… Non sono sicuro. Ho l’impressione come se ci fosse qualcosa che ho dimenticato di confessare.

Clotilda annuì, comprensiva. — Me?

— Oh, no, Tillie! E… non so bene che cosa. — Le prese distrattamente la mano, guardando fuori dal finestrino laterale. Quando passarono su un viadotto, Kayman poté scorgere lontano, all’orizzonte, il gran cubo bianco del palazzo del progetto.

Non era il suo interesse per suor Clotilda a turbarlo, di questo era sicuro. Sebbene gli facesse piacere provare il brivido sottile di un blando peccato, non era affatto disposto a violare le leggi della sua Chiesa e del suo Dio. Forse, pensò, poteva rivolgersi a un ottimo avvocato e battersi: ma non violare una legge. Considerava piuttosto temeraria la corte che faceva a suor Clotilda: e il risultato sarebbe dipeso da ciò che avrebbe deciso l’ordine cui lei apparteneva, se e quando egli fosse riuscito a convincerla a chiedere una dispensa. Non provava interesse per i vari gruppi dissidenti, come le comuni religiose o i nuovi catari.

— Roger Torraway? — chiese Clotilda.

— Non ne sarei sorpreso, — rispose lui. — C’è qualcosa che mi preoccupa, nel modo in cui alterano i suoi sensi. Le sue percezioni del mondo.

Suor Clotilda gli strinse la mano. Nella sua qualità di psichiatra e assistente sociale, era autorizzata a sapere ciò che facevano al progetto, e conosceva Don Kayman. — I sensi sono bugiardi, Donnie. Lo affermano le Scritture.

— Oh, sicuro. Ma Brad ha forse il diritto di dire in che modo mentono i sensi di Roger?

Clotilda accese una sigaretta e gli lasciò il tempo di riflettere. Solo quando furono arrivati nelle vicinanze del centro commerciale gli disse: — Il prossimo svincolo, vero?

— Giusto, — rispose Kayman, impugnando il volante e riportando la macchina sui comandi manuali. Si infilò in un posto libero, pensando ancora a Roger Torraway. C’era il problema immediato della moglie di Rog. Era già un grosso guaio. Ma c’era anche il problema maggiore: come avrebbe fatto Roger ad affrontare il più grande dei quesiti personali — cos’è Giusto e cos’è Ingiusto? — se le informazioni su cui doveva basare una decisione venivano filtrate attraverso i circuiti mediatori di Brad?


L’insegna, sopra la vetrina del negozio, diceva PRETTY FANCIES. Era un negozio piuttosto piccolo, secondo i criteri del centro, dove c’era un Two Guys con un’area di centomila metri quadri e un supermarket quasi altrettanto enorme. Ma era abbastanza grande per costare parecchio. Tra affitto, spese varie, assicurazioni, stipendio per tre commessi, due dei quali impiegati part-time, e una generosa paga dirigenziale per Dorrie, ogni mese comportava una perdita netta di quasi duemila dollari. Roger era felice di pagare, anche se la nostra contabilità gli aveva fatto osservare che sarebbe costato meno dare a Dorrie quei duemila dollari mensili come spillatico.

Dorrie stava ammucchiando delle porcellane su di un banco con la scritta: «Liquidazione — Metà Prezzo». Salutò i visitatori con un cortese cenno del capo. — Salve, Don. Lieta di vederla, suor Clotilda. Volete comprare delle tazze da tè rosse a buon mercato?

— Sono molto carine, — disse Clotilda.

— Oh, sì. Ma non le compri per il monastero. L’FDA ha ordinato di ritirarle dal mercato. L’invetriatura è velenosa… purché si bevano almeno quaranta tè al giorno sempre nella stessa tazza, per vent’anni.

— Oh, che peccato. Ma… le vende?

— L’ordinanza entrerà in vigore solo fra trenta giorni, — spiegò Dorrie, con un sorriso malizioso. — Forse non avrei dovuto dirlo a un prete e a una suora, vero? Ma, sinceramente, abbiamo venduto per anni questo tipo di invetriatura e non ho mai saputo che qualcuno ne sia morto.

— Vuoi prendere il caffè con noi? — chiese Kayman. — In altre tazze, naturalmente.

Dorrie sospirò, allineò esattamente una tazza e disse: — No, parliamo pure. Venite nel mio ufficio. — Li precedette, voltando la testa per aggiungere: — Tanto, so perché siete qui.

— Oh? — fece Kayman.

— Volete che io vada a trovare Roger. Giusto?

Kayman sedette su una gran poltrona, davanti alla scrivania. — Perché non vai, Dorrie?

— Diamine, Don, a che serve? Non è cosciente. Non si accorgerebbe neppure se io fossi lì o no.

— È sotto l’effetto di sedativi molto forti, sì. Ma ha qualche periodo di lucidità.

— Mi ha cercata?

— Ha chiesto di te. Cosa vuoi che faccia? Che implori?

Dorrie alzò le spalle, giocherellando con un pezzo da scacchi di ceramica. — Non ti viene mai in mente di farti gli affari tuoi, Don? — chiese.

Kayman non si offese. — È quel che faccio. In questo momento, Roger è il nostro unico uomo indispensabile. Sai quello che gli stanno facendo? È già stato sul tavolo operatorio ventotto volte. In tredici giorni! Non ha più occhi. Né polmoni, cuore, orecchie, naso… Non ha più neppure la pelle: è sparita tutta, a pochi centimetri quadrati per volta, sostituita da sostanze sintetiche. Scuoiato vivo… vi sono stati uomini che sono diventati santi, per questo, e adesso c’è un uomo che non può neppure ricevere la visita di sua moglie…

— Oh, merda, Don! — scattò Dorrie. — Non sai quel che dici. È stato Roger a chiedermi di non andarlo a trovare, dopo l’inizio degli interventi chirurgici. Pensava che non sarei stata capace di… Non voleva che lo vedessi così!

— Ho l’impressione, — disse il prete con un filo di voce, — che tu sia un tipo molto forte, Dorrie. Davvero non riusciresti a sopportarlo?

Dorrie fece una smorfia. Per un momento, il suo bel viso non fu più bello. — Non è questione di quel che posso sopportare, — disse. — Don, senti. Sai cosa significa essere sposata a un uomo come Roger?

— Beh, credo sia molto bello, — fece Kayman, stupito. — È un uomo buono!

— Sì. Questo lo so almeno quanto lo sai tu, Don Kayman. Ed è perdutamente innamorato di me.

Vi fu un breve silenzio. — Non credo di capire quello che intende, — azzardò suor Clotilda. — Le dispiace?

Dorrie scrutò attenta la suora. — Mi dispiace. Beh, è un modo come un altro per dirlo. — Depose il pezzo degli scacchi e si sporse un poco in avanti. — È il sogno di ogni donna, no? Trovare un eroe autentico, bello e intelligente e famoso e quasi ricco… e così pazzamente innamorato da non vedere niente che non va. È per questo che ho sposato Roger. Quasi non riuscivo a credere a tanta fortuna. — La voce della giovane donna salì di mezzo tono. — Non credo che lei sappia cosa significa avere qualcuno perdutamente innamorato. A che serve un uomo così intronato? Qualche volta, quando siamo a letto insieme e io cerco di addormentarmi, e lo sento lì, sdraiato vicino a me, sveglio, e non si muove, non si alza per andare in bagno… così maledettamente delicato… Sapete che quando viaggiamo insieme Roger non va mai in bagno fino a quando non è convinto che io sia addormentata, o fino a quando io sono da qualche altra parte? Si fa la barba appena si alza… non vuole che lo veda con i capelli in disordine. Si rade le ascelle, usa deodoranti tre volte al giorno. Mi… mi tratta come se fossi la Vergine Maria, Don! È fatuo. E tutto questo dura da nove anni.

Dorrie guardò con aria implorante il prete e la suora, che tacevano un po’ a disagio. — E poi, — continuò, — mi arrivate qui voi e mi dite che dovrei andare a vederlo mentre lo stanno trasformando in qualcosa di orrido, di ridicolo. Voi e tutti gli altri. Ieri sera è venuta Kathleen Doughty. Non la finiva più: aveva bevuto e rimuginato, e aveva deciso di venirmi a dire, dall’alto della sua saggezza ispirata dal bourbon, che io rendevo infelice Roger. Beh, ha ragione lei. Avete ragione tutti quanti. Lo rendo infelice. Ma vi sbagliate se pensate che andando a trovarlo lo renderei felice… Oh, diavolo.

Il telefono squillò. Dorrie alzò il ricevitore, poi diede un’occhiata a Kayman e a suor Clotilda. L’espressione quasi supplichevole diventò impenetrabile come quella delle statuine di porcellana sul tavolo accanto. — Scusatemi, — disse, rialzando i morbidi petali di plastica intorno al microfono, che assicuravano l’insonirizzazione, e girandosi sulla poltroncina in modo da volgere le spalle ai visitatori. Per un momento parlò, senza farsi sentire, poi depose il ricevitore e tornò a girarsi verso i due.

Kayman disse: — Sì, forse non hai tutti i torti, Dorrie. Tuttavia…

Dorrie sorrise: un sorriso di porcellana. — Tuttavia vorresti insegnarmi a vivere. Beh, non puoi farlo. Avete detto entrambi quel che volevate dire. Vi sono grata per la visita. Vi sarò ancora più grata se ve ne andrete. Non c’è altro da aggiungere.


All’interno del gran cubo bianco del palazzo del progetto, Roger giaceva disteso su un letto fluidizzato. Era così da tredici giorni: quasi sempre privo di sensi, o incapace di rendersi conto se era conscio o no. Sognava. Capiva quando sognava: dapprima grazie ai movimenti rapidi degli occhi, e più tardi dai fremiti delle terminazioni muscolari, dopo che gli occhi erano asportati. Alcuni dei suoi sogni erano realtà, ma non era in grado di distinguerli.

Noi sorvegliavamo continuamente Roger Torraway, secondo per secondo. Non c’era flessione di muscolo o lampo di sinapsi che non mettesse in moto qualche monitor, e noi integravamo diligentemente i dati e mantenevamo una sorveglianza continua sulle sue funzioni vitali.

Era solo l’inizio, quello. Ciò che era stato fatto a Roger nei primi tredici giorni di interventi chirurgici non era molto di più di quanto era stato fatto a Willy Hartnett. E non era abbastanza.

Quando fu tutto compiuto, le équipes di protesiologi e di chirurghi cominciarono a fare cose che non erano mai state fatte a nessun altro essere umano. L’intero sistema nervoso di Torraway venne revisionato, e tutti i canali principali furono collegati a strumenti che portavano al grande computer, nel sotterraneo. Era un IBM 3070 tuttofare. Occupava la metà di una sala e non bastava ancora per svolgere tutti i compiti necessari. Era soltanto un collegamento temporaneo. A duemila miglia di distanza, nello Stato di New York, lo stabilimento dell’IBM stava realizzando un computer specializzato, così piccolo da stare in uno zaino. La progettazione era stata la parte più difficile del progetto: continuammo a revisionare i circuiti persino quando venivano montati sui banchi. Lo zaino non poteva superare i trentasei chili, peso terrestre. Le dimensioni massime non potevano superare i cinquanta centimetri. E doveva funzionare grazie a batterie a corrente continua che venivano caricate in continuazione per mezzo di pannelli solari.

I pannelli solari, all’inizio, avevano costituito un problema: ma lo risolvemmo in modo piuttosto elegante. Richiedevano un’area superficiale minima di tre metri quadrati. L’area superficiale del corpo di Roger, anche dopo essere stata modificata da varie aggiunte, non sarebbe bastata neppure se avesse potuto accettare subito la luce solare piuttosto debole di Marte. Risolvemmo il problema progettando due grandi ali lievi, fatate. — Roger sembrerà Oberon, — disse allegramente Brad, quando vide i disegni. — O un pipistrello, — borbottò Kathleen Doughty.

In effetti, sembravano ali di pipistrello, perché erano nere come il giaietto. Non sarebbero servite per volare, neppure in un’atmosfera abbastanza densa, se Marte l’avesse avuta. Erano fatte di una pellicola sottile, e avevano scarsa forza strutturale. Ma non erano destinate a volare, né a portare pesi. Dovevano soltanto schiudersi automaticamente, orientandosi per ricevere tutte le radiazioni del sole. In un secondo tempo, il modello fu cambiato, in modo che Roger potesse controllare le ali e usarle come un funambolo usa il bastone, per tenersi in equilibrio. Nel complesso, rappresentavano un immenso miglioramento rispetto alle «orecchie» che avevamo messo a Willy Hartnett.

Le ali solari furono progettate e realizzate in otto giorni: quando le spalle di Roger furono pronte a riceverle, le ali erano pronte per venir fissate. La pelle, ormai, era ordinaria amministrazione. Ne avevano usata già tanta con Willy Hartnett, sia come dotazione originale che come pezzi di ricambio per le parti lesionate o per i cambiamenti di modello via via che il progetto si sviluppava, che i nuovi innesti venivano impiantati sul corpo di Roger con la stessa rapidità con cui i chirurghi gli asportavano l’epidermide naturale.

Di tanto in tanto Roger Torraway si svegliava e si guardava intorno: e sembrava capire e riconoscere ciò che vedeva. I suoi visitatori — un afflusso continuo — qualche volta gli parlavano, qualche volta venivano semplicemente a guardarlo come un campione da laboratorio, da discutere e manipolare senza riguardi personali, quasi fosse una provetta per titolazione. Vern Scanyon andava da lui quasi ogni giorno, e guardava la creazione in atto con un’aria di crescente ripugnanza. — Ha un aspetto orribile, — borbottò. — Ai contribuenti non andrebbe a genio!

— Attento, generale, — ringhiò Kathleen Doughty, interponendo la sua figura enorme tra il direttore e il soggetto. — Come può essere certo che lui non possa sentirla?

Scanyon alzò le spalle e se ne andò per fare il suo rapporto alla segreteria del presidente. Don Kayman entrò mentre il generale usciva. — Grazie, madre di tutto il mondo, — disse in tono serio. — Ti sono grato dell’interesse per il mio amico Roger.

— Già, — rispose irritata Kathleen Doughty. — Ma non è sentimentalismo. Questo poveraccio deve avere un po’ di fiducia in se stesso. Ne avrà bisogno. Sai con quanti amputati e paraplegici ho lavorato? E sai quanti erano stati considerati irrimediabili, condannati a non poter più camminare o muovere un muscolo e neppure ad andare al gabinetto da soli? È tutta questione di forza di volontà, Don, e per averla bisogna credere in se stessi.

Kayman aggrottò la fronte: aveva ancora la mente presa dallo stato d’animo di Roger. — Vorresti contraddirmi? — chiese brusca Kathleen, interpretando quel gesto in modo errato.

— No, affatto! Voglio dire… sii ragionevole, Kathleen: ti sembro proprio io, il tipo capace di contestare la trascendenza dello spirituale rispetto al materiale? Ti sono soltanto riconoscente. Tu sei buona, Kathleen.

— Oh, scemenze, — borbottò lei, serrando le labbra sulla sigaretta. — Mi pagano per questo. E inoltre, — aggiunse, — immagino che tu non sia ancora stato nel tuo ufficio, oggi. C’è un comunicato solenne per tutti di Sua Stellarità il Generale, perché non dimentichiamo l’importanza di ciò che stiamo facendo… e con il delicato accenno che, se facciamo saltare la data del lancio, finiremo tutti in campo di concentramento.

— Come se fosse necessario rammentarcelo, — sospirò padre Kayman, guardando la grottesca figura immota di Roger. — Scanyon è in gamba, ma è portato a credere che tutto quanto fa lui costituisca il fulcro dell’universo. Però questa volta potrebbe aver ragione…

Era un’affermazione quasi accettabile. Per noi, non c’era dubbio: il più importante anello tra tutte le complesse interrelazioni tra mente e materia era proprio lì: galleggiava sul letto fluidizzato, e sembrava il protagonista di un film giapponese dell’orrore. Senza Roger Torraway, il lancio per Marte non poteva venire effettuato in tempo. Miliardi di persone potevano dubitare dell’importanza della cosa: noi no.

Roger era il fulcro di tutto. Intorno a lui, nel grande palazzo del progetto, si svolgevano tutti gli sforzi ancillari e concomitanti destinati a trasformarlo in ciò che doveva essere. Nella vicina sala operatoria, Freeling, Weidner e Bradley gli innestavano parti nuove. Là sotto, nella vasca marziana normale, dove era morto Willy Hartnett, le stesse parti venivano collaudate nell’ambiente marziano. Qualche volta si verificava un fiasco, in un tempo spaventosamente breve: allora le parti venivano riprogettate, se era possibile, oppure integrate… o qualche volta usate egualmente, tra preghiere e scongiuri.

L’universo si espandeva intorno a Roger, come gli strati di una cipolla. Più lontano, nello stesso edificio, c’era il gigantesco 3070, che ticchettava e ronzava e aggiungeva nuovi segmenti di programmazione per restare al passo dei sistemi di mediazione innestati in Roger ora per ora. Fuori dal palazzo c’era la comunità di Tonka, che sarebbe vissuta o sarebbe morta a seconda dell’andamento del progetto, perché il progetto era il suo datore di lavoro e la sua principale ragion d’essere. Tutto intorno a Tonka c’era il resto dell’Oklahoma, e poi, estendentisi in tutte le direzioni, gli altri cinquantaquattro stati, e intorno ad essi il mondo sconvolto e inferocito, intento a scagliare arroganti note diplomatiche da una capitale all’altra, sul piano politico, e a lottare per la sopravvivenza in ciascuna delle miriadi di esistenze personali.

Coloro che lavoravano al progetto avevano finito per escludersi da quasi tutto quel mondo. Non guardavano i telegiornali, se potevano farne a meno, e dei giornali preferivano leggere solo le pagine sportive. Erano molto indaffarati e non avevano molto tempo libero, ma la vera ragione non era questa. Molto semplicemente, non volevano sapere. Il mondo impazziva, e l’isolamento straniato dentro al gran cubo bianco del palazzo del progetto appariva loro razionale e reale, mentre le sommosse a New York, la guerra con le armi nucleari tattiche intorno al Golfo Persico e la fame di massa in quelle che venivano chiamate «nazioni emergenti» sembravano fantasie inconsistenti. Erano fantasie. O almeno, non avevano importanza per il futuro della nostra razza.


E così Roger continuava a cambiare e a sopravvivere. Kayman trascorreva con lui un tempo sempre più lungo: ogni minuto che poteva sottrarre alla supervisione della vasca marziana. Guardava con affetto Kathleen Doughty che si aggirava per la stanza, spargendo cenere di sigaretta dovunque, tranne su Roger. Ma Kayman era ancora turbato.

Era costretto ad accettare la necessità che Roger venisse dotato di circuiti mediatori per interpretare l’eccesso di input, ma non sapeva trovare una risposta per la domanda che l’assillava: Se Roger non poteva sapere ciò che vedeva, come avrebbe potuto vedere la Verità?

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