CAPITOLO SESTO UN MORTALE CON UNA PAURA MORTALE

Non è facile per un essere umano di carne e di sangue rassegnarsi all’idea che parte della sua carne sta per venire asportata e sostituita da acciaio, rame, argento, plastiche, alluminio e vetro. Ci accorgevamo benissimo che Torraway non si comportava in modo molto razionale. Uscì a precipizio dalla vasca marziana e percorse il corridoio, brancolando, come se avesse qualcosa di urgentissimo da fare. L’unica cosa urgente che aveva da fare era andarsene. Quel corridoio gli sembrava una trappola. Sentiva che non poteva sopportare che qualcuno gli si avvicinasse, dicendogli che gli dispiaceva per Willy Hartnett, o ricordandogli la sua nuova posizione. Passò davanti a una latrina, si fermò, si guardò intorno — nessuno lo osservava — ed entrò, fermandosi davanti all’orinatoio, con gli occhi vitrei fissi sul cromo lucido. Quando la porta si spalancò, Torraway si diede un gran daffare a riallacciarsi i calzoni e a far scorrere l’acqua, ma quello che era entrato era soltanto un giovane dattilografo che lo guardò senza curiosità e si diresse verso uno dei gabinetti.

Appena fuori dalla latrina, lo raggiunse il vicedirettore. — Brutta faccenda, — disse. — Immagino tu sappia che adesso tocca a te…

— Lo so, — disse Torraway, lieto che la sua voce suonasse così calma.

— Dobbiamo scoprire in fretta cos’è accaduto. Terrò una riunione nel mio ufficio, tra novanta minuti. Avremo i primi referti dell’autopsia. Voglio che ci sia anche tu.

Roger annuì, diede un’occhiata all’orologio da polso e se ne andò a passo fermo. La cosa più importante, lo sapeva, era continuare a muoversi come se fosse troppo indaffarato per interrompersi. Purtroppo, non riusciva a farsi venire in mente qualcosa che aveva da fare, o che poteva fingere di dover fare, per evitare ogni conversazione. No, ammise: non la conversazione. Tutti immaginavano che volesse tenersi in disparte, a pensare a se stesso. Non aveva paura. Non era furioso con il destino. Semplicemente, non era preparato a considerare le conseguenze personali della morte di Willy Hartnett, in quel momento…

Alzò la testa: qualcuno lo aveva chiamato.

Era John Freeling, l’assistente chirurgo per i sistemi percettivi, che cercava Brad.

— No, — disse Torraway, sollevato al pensiero di parlare di qualcosa che non era né la morte di Willy né il proprio futuro. — Non so dove sia. Mi pare sia uscito a pranzo.

— Due ore fa. Si troverà nei pasticci se non lo rintracciamo prima della riunione. Io non sono sicuro di poter rispondere a tutte le domande che mi verranno rivolte, e non posso andare a cercarlo: stanno per portare il cyborg nel mio laboratorio, e devo…

— Te lo scoverò io, — si affrettò a rispondere Torraway. — Lo chiamerò a casa.

— Ho già provato. Non c’è. E non ha lasciato un numero dove potessi cercarlo.

Torraway strizzò un occhio, con un improvviso senso di sollievo, felice di trovarsi alle prese con un problema che era in grado di risolvere. — Conosci Brad, — disse. — Dovresti ricordare che è una specie di gatto in amore. Te lo troverò io. — Prese l’ascensore, arrivò al piano degli uffici amministrativi, svoltò per un paio di corridoi e bussò alla porta con la scritta Statistiche amministrative.

La funzione della gente che lavorava dietro quella porta aveva pochissimo a che fare con le statistiche. La porta non si aprì subito: si schiuse soltanto uno spioncino, e un occhio azzurro lo guardò. — Sono il colonnello Torraway. È un caso d’emergenza.

— Un momento, — disse una voce femminile. Vi fu uno stridio metallico; la porta si aprì e Torraway entrò. Nella stanza c’erano altre quattro persone. Erano tutte in borghese e avevano l’aria scialba e comune, come dovevano. Ognuna aveva una scrivania all’antica, con il coperchio scorrevole, di un tipo che non ci si aspetta di vedere in un ufficio d’un ente spaziale. I coperchi potevano venire abbassati in modo da nascondere quello che c’era sulle scrivanie: e in quel momento, per l’appunto, erano abbassati.

— Si tratta del dottor Alexander Bradley, — disse Roger. — Deve assolutamente trovarsi qui fra un’ora e il suo reparto non riesce a trovarlo. Il comandante Hartnett è morto e…

La ragazza disse: — Sappiamo del comandante Hartnett. Vuole che le troviamo il dottor Bradley?

— No. Lo cercherò io. Ma immagino che voi possiate dirmi dove debbo cercarlo. So che ci sorvegliate tutti quanti, attività personali e tutto il resto. — Non strizzò l’occhio anche alla ragazza, ma nella propria voce sentì un tono quasi di complicità.

La ragazza lo guardò fisso per un istante. — Probabilmente sarà a…

— Zitta, — esclamò un uomo seduto alla scrivania dietro di lei, in tono sorprendentemente irritato.

Quella scosse il capo, senza guardarlo. — Provi al Chero-Strip Hover Hotel, — disse. — Di solito dà il nome di Beckwith. Le consiglio di telefonare. Ma forse sarebbe meglio che lo facessimo noi…

— Oh, no, — rispose disinvolto Torraway, deciso a riservare a sé quell’incombenza. — È molto importante che gli parli personalmente.

Il giovanotto disse in tono energico: — Dottor Torraway, le consiglio di lasciar fare a noi…

Ma Roger stava già uscendo a ritroso dalla porta, rivolgendo ai presenti un cenno del capo: non ascoltava più. Aveva deciso di non telefonare e di andare in macchina al motel. Era una buona ragione per uscire dal laboratorio, mentre riordinava i suoi pensieri.


Fuori dagli edifici ad aria condizionata del laboratorio, Tonka era diventata sempre più afosa. Il sole penetrava dal parabrezza azzurrato, riempiendo la macchina di Torraway di un calore che sfidava l’impianto di climatizzazione. Roger guidava con i comandi manuali, da inesperto, affrontando le curve in modo così goffo che le ruote slittavano. Il motel era alto quindici piani, tutto di vetro massiccio: sembrava riflettere su di lui la luce del sole, come i guerrieri di Archimede alla difesa di Siracusa. Provò un senso di sollievo quando uscì nel parcheggio sotterraneo e prese la scala mobile per salire nell’atrio.

L’atrio era alto quanto l’edificio, completamente chiuso: le stanze erano disposte tutto intorno, e sopra la testa si incrociavano ponti volanti e gallerie. L’impiegato non aveva mai sentito nominare il dottor Alexander Bradley.

— Provi Beckwith, — suggerì Torraway, porgendogli un biglietto di banca. — Qualche volta fatica a ricordare il suo nome.

Ma fu inutile: l’impiegato non riusciva a rintracciare Brad, o non voleva. Roger uscì con la macchina dal parcheggio, si fermò sotto il sole a picco e rifletté sul da farsi. Fissò, senza vederla in realtà, la piscina che sembrava sdoppiarsi nel movimento d’aria causato dall’impianto di condizionamento d’aria del motel. Probabilmente doveva provare a telefonare a Brad a casa sua, pensò. Avrebbe dovuto farlo finché era nell’atrio: non se la sentiva di tornare indietro. E neppure di chiamare dalla macchina: era un radiotelefono, ed era meglio che la conversazione rimanesse riservata. Poteva andare a casa sua e chiamare da lì, pensò: era questione di una corsa di cinque minuti…

In quel momento Roger si rese conto per la prima volta che doveva riferire a sua moglie quanto era accaduto.

Era un dovere poco piacevole. Dirlo a Dorrie, purtroppo, significava anche dirlo chiaramente a se stesso. Ma Roger aveva un atteggiamento sano nei confronti dell’inevitabile, anche se si trattava di una cosa spiacevole: conservando la neutralità mentale, girò la macchina verso casa e verso Dorrie.

Purtroppo Dorrie non c’era.

La chiamò dal corridoio, fece capolino in sala da pranzo, guardò la piscina dietro la casa, controllò le due stanze da bagno. Dorrie non c’era. Era uscita a far spese, senza dubbio. Era irritante, ma non poteva farci nulla; e stava per lasciarle un biglietto, guardando dalla finestra mentre cercava di trovare le frasi adatte, quando la vide arrivare con la sua micromini a due posti.

Le aprì la porta prima ancora che Dorrie la raggiungesse.

Aveva previsto che lei sarebbe rimasta sorpresa. Ma non aveva previsto che restasse lì inchiodata, con le graziose sopracciglia inarcate e immote, l’espressione impietrita. Sembrava una istantanea di se stessa, colta mentre muoveva un passo.

Torraway disse: — Volevo parlarti. Sono appena arrivato dal Chero-Strip, perché c’è di mezzo anche Brad, ma…

Dorrie si rianimò e disse educatamente: — Entriamo e sediamoci. — Il suo volto era ancora inespressivo, quando si soffermò in corridoio a guardarsi nello specchio. Corresse una sbavatura di trucco sulla guancia, si assestò i capelli e andò in soggiorno senza togliersi il cappellino. — Fuori fa un caldo spaventoso, non è vero? — osservò.

Anche Roger sedette, cercando di riordinare i propri pensieri. L’importante era non spaventarla. Una volta aveva visto un programma televisivo che spiegava come dare le brutte notizie: uno psicologo in caccia di nuovi pazienti e un po’ timoroso di violare l’etica professionale se avesse ingaggiato un uomo-sandwich per farsi pubblicità, partecipava alla trasmissione nella speranza di catturare qualche cliente viva per la sua anticamera. Mai essere troppo bruschi, diceva. Date all’interessato il tempo di prepararsi. Dategli la notizia un poco alla volta.

Allora Roger aveva pensato che fosse una cosa buffa; ricordava di averlo raccontato a Dorrie… Tesoro, hai la carta di credito?… Ecco, ti servirà per comprare l’abito nero… L’abito nero per il funerale… Il funerale che dovremo seguire, e immagino che ci terrai a fare bella figura, per la morta… Bene, dopotutto, era cara vecchietta. E sai che non sapeva guidare molto bene. Quelli della polizia dicono che non ha sofferto, dopo che è andata a sbattere contro il camion. Tuo padre l’ha presa con molto coraggio. Ne avevano riso, tutti e due.

— Continua, ti prego, — disse invitante Dorrie, prendendo una sigaretta da una scatola sul tavolino. Quando l’accese, Roger vide la fiamma a butano vacillare, e sbalordì, accorgendosi che le tremava la mano. Ne fu stupito, e un po’ compiaciuto: evidentemente, Dorrie si preparava a una brutta notizia. Era sempre stata così sensibile, pensò ammirato, e intuitiva. E adesso che lei era pronta, si buttò.

— Si tratta di Willy Hartnett, cara, — disse dolcemente. — Questa mattina qualcosa non ha funzionato e…

S’interruppe, aspettando che Dorrie capisse; ma lei non sembrava preoccupata: perplessa, piuttosto.

— È morto, — fece laconico Torraway, e tacque, per lasciare che quell’annuncio giungesse a segno.

Sua moglie annuì, pensierosa. Non aveva capito, si disse Roger, con un senso di rammarico. Non aveva capito. Aveva provato simpatia per Willy, ma non gridava, non piangeva, non dimostrava la minima emozione.

Concluse la frase, rinunciando a ogni tatto: — E naturalmente, questo significa che ora tocca a me, — disse, cercando di parlare adagio. — Gli altri ne sono fuori; ricorderai, te l’avevo detto. Perciò sono io quello che vogliono, uhm, preparare per la missione su Marte.

L’espressione del volto di Dorrie lo sconcertò. Era fragile, apprensiva, quasi come se lei si fosse aspettata qualcosa di peggio e non fosse ancora sicura che il peggio non accadesse. Roger disse, spazientito: — Non hai capito quel che ho detto, cara?

— Ma sì. E… beh, è un po’ difficile da accettare. — Egli annuì, soddisfatto, e Dorrie proseguì. — Ma sono così confusa. Non avevi cominciato a dire qualcosa a proposito di Brad e del Chero-Strip?

— Oh, sì, scusami. Capisco di averti scaricato addosso tante notizie in una volta sola. Sì, ho detto che ero appena andato al motel a cercare Brad. Vedi, sembra che i sistemi percettivi non abbiano funzionato bene e abbiano ucciso Willy. Ecco, è un problema che riguarda Brad. E proprio oggi doveva decidere di star fuori tanto per pranzo… Beh, non c’è bisogno che te lo dica io, com’è Brad. Probabilmente è da qualche parte, a letto con una delle infermiere. Ma le cose si metteranno male se non si presenterà per la riunione… — S’interruppe per dare un’occhiata all’orologio. — Caspita, bisogna che rientri anch’io. Ma la notizia volevo dartela personalmente.

— Grazie, tesoro, — disse Dorrie in tono distratto, come se inseguisse un pensiero. — Non sarebbe stato meglio telefonargli?

— A chi?

— A Brad, naturalmente.

— Oh. Oh, sicuro, ma era una faccenda riservata. Non volevo che nessuno potesse ascoltare. E poi, non credo che avrebbe risposto al telefono. Anzi, l’impiegato non ha voluto ammettere neppure che Brad fosse lì. E ho dovuto rivolgermi al servizio sicurezza per scoprire dove poteva essere. — Ebbe un pensiero improvviso: sapeva che Dorrie giudicava simpatico Brad, e si chiese per mezzo secondo se era scandalizzata della sua immoralità. Poi quel pensiero tramontò, ed egli proruppe, in tono d’ammirazione: — Tesoro, devo dire che l’hai presa meravigliosamente. Molte donne al tuo posto sarebbero già in preda a crisi isteriche.

Dorrie scrollò le spalle e disse: — Bene, a che servirebbe? Lo sapevamo tutti e due che poteva accadere anche questo.

Roger si azzardò a dire: — Non avrò un gran bell’aspetto, Dorrie. E vedi, credo che dal punto di vista fisico il nostro matrimonio per un po’ volerà dalla finestra… anche senza contare il fatto che resterò via in missione per oltre un anno e mezzo.

Lei assunse un’espressione pensosa, poi rassegnata; infine lo guardò in faccia e sorrise. Si alzò, gli andò vicino e lo abbracciò. — Sarò fiera di te, — disse. — E avremo tanto, tanto tempo da vivere insieme, quando sarai tornato. — Si scostò quando egli fece per baciarla e disse, scherzosamente: — Niente da fare, devi tornare al laboratorio. Cosa intendi fare con Brad?

— Beh, potrei tornare al motel…

Dorrie disse, decisa: — Non andare, Roger. Lascia che si arrangi. Se sta combinando qualcosa che non dovrebbe, è affar suo. Voglio che tu vada alla riunione e… Oh, ecco, giusto! Sto per uscire di nuovo. Passerò vicino al motel. Se vedo la macchina di Brad gli lascerò un biglietto.

— Già. A me non era neppure venuto in mente, — esclamò Roger, pieno d’ammirazione.

— Quindi non ti preoccupare. Non voglio che tu pensi a Brad. Con tutto ciò che sta per succedere, dobbiamo pensare a noi due!


Jonathan Freeling, dottore in medicina, membro del collegio americano di chirurgia, membro dell’Associazione Americana di Medicina Spaziale.

Jonny Freeling si occupava di medicina aerospaziale ormai da tanto tempo che aveva perduto l’abitudine di aver a che fare con i cadaveri. E soprattutto, non era abituato a fare l’autopsia ai cadaveri dei suoi amici. Del resto, di solito quando gli astronauti morivano, del loro corpo non restava niente. Se morivano nell’adempimento del loro dovere era molto improbabile che vi fossero autopsie; quelli che si perdevano nello spazio ci restavano, quelli che morivano più vicino alla Terra di solito si trasformavano in gas tra fiamme d’idrogeno e di ossigeno. In ogni caso, non restava nulla da mettere su un tavolo anatomico.

Era difficile rendersi conto che l’oggetto che stava sezionando era Willy Hartnett. Non era tanto un’autopsia quanto, per così dire, lo smontaggio di una carabina. Freeling aveva contribuito a mettere insieme quei pezzi… là gli elettrodi di platino, quei chips miniaturizzati nella scatola nera, lì; e adesso era venuto il momento di smontarli di nuovo. Però c’era sangue. Nonostante tutto, quando Willy era morto aveva ancora tanto, tanto sangue.

— Congelare e sezionare, — disse, consegnando un grumo di sostanza, su di una lastra di vetro, all’infermiera che lo prese con un cenno del capo. Era Clara Bly. Il suo grazioso visetto nero esprimeva tristezza, anche se era difficile capire, rifletté Freeling mentre estraeva uno sgocciolante filamento metallico che faceva parte dei circuiti visivi, se la tristezza era causata dalla morte del cyborg o dall’idea di dover rinunciare alla festa che Clara aveva in programma. Clara Bly se ne andava: si doveva sposare l’indomani. La sala rianimazione, proprio dietro quella porta, era ancora festonata di nastri e di fiori di carta crespata per la festa. Avevano chiesto a Freeling se dovevano sgombrarla per l’autopsia, ma ovviamente non era necessario: nessuno doveva venire rianimato in sala rianimazione.

Freeling alzò gli occhi verso l’assistente chirurgo, ritta nel posto che in una normale operazione sarebbe stato occupato dall’anestesista, e latrò: — Si sa ancora niente di Brad?

— È arrivato, — rispose quella.

E allora perché diavolo non viene qui? pensò Freeling, ma non disse nulla e si limitò ad annuire. Se non altro, era tornato. Qualunque guaio fosse scoppiato per quella faccenda, Freeling non avrebbe dovuto sopportarlo da solo.

Ma più frugava e sondava, e più si sentiva sconcertato. Dov’era il guaio? Che cosa aveva ucciso Hartnett? I componenti elettronici sembravano in perfetto ordine. Ogni volta che ne asportava uno, veniva portato immediatamente agli specialisti della strumentazione, che lo sottoponevano alle prove di banco. Nessun problema. E neppure la struttura fisica generale del cervello offriva una spiegazione immediata…

Era possibile che il cyborg fosse morto senza una causa?

Freeling si rialzò, accorgendosi di sudare sotto le luci caldissime: aspettava istintivamente che l’infermiera gli tergesse il sudore. L’infermiera non c’era: lo ricordò, e si asciugò la fronte con la manica. Poi riprese, separando e asportando delicatamente il sistema nervoso ottico… cioè quanto ne rimaneva: le sezioni principali erano sparite insieme agli occhi, ed erano state sostituite da parti elettroniche.

E poi vide.

Dapprima il sangue che filtrava sotto il corpus callosum. Poi, mentre sondava delicatamente, la guaina biancogrigia e viscida di un’arteria, con un gonfiore che era scoppiato. Un episodio cardiovascolare. Un colpo.

Freeling smise di lavorare. Il resto poteva venire sbrigato più tardi, o non venire sbrigato affatto. Forse sarebbe stato bene lasciare quanto rimaneva di Willy Hartnett nelle condizioni in cui si trovava. Ed era l’ora della riunione.


La sala delle conferenze serviva anche come biblioteca dell’infermeria, il che significava che quando c’era in corso una riunione, le ricerche sui testi venivano interrotte. Intorno al lungo tavolo c’erano sedie imbottite per quattordici persone: erano tutte occupate, e c’erano anche molti altri, sistemati alla meglio su sedie pieghevoli. Due posti erano vuoti: quelli di Brad e di Jon Freeling, assenti per un’ultima corsa in laboratorio per controllare i risultati di certi esami al microscopio, dicevano: in realtà Freeling teneva a informare il suo capo di quanto era accaduto mentre lui era «fuori a pranzo». Gli altri c’erano tutti. Don Kayman e Vic Samuelson (promosso al ruolo di riserva di Roger, e in apparenza tutt’altro che entusiasta dell’idea), Telly Ramez, lo psichiatra capo, tutti gli specialisti di fisiologia cardiovascolare intenti a borbottare tra di loro, gli alti papaveri dei settori amministrativi… e i due divi. Uno dei divi era Roger Torraway, seduto impacciato a capotavola, ad ascoltare con un sorriso raggelato le conversazioni altrui. L’altro divo era Jed Griffin, l’uomo di fiducia del presidente. Il suo titolo era solo capo assistente amministrativo del presidente, ma persino il vicedirettore lo trattava come se fosse il papa. — Possiamo incominciare quando crede, Mr. Griffin, — lo esortò il vicedirettore. La faccia di Griffin si contrasse in un sorriso: ma egli scosse il capo.

— Attendiamo che arrivino anche gli altri, — disse.

Quando arrivarono Brad e Freeling, tutte le conversazioni cessarono, come se qualcuno avesse tolto la corrente. — Adesso possiamo incominciare, — scattò Jed Griffin, e il suo tono preoccupato non sfuggì a nessuno dei presenti, che condividevano le sue ansie: — Voi non sapete, — disse, — quanto sia vicina la possibilità che questo progetto venga chiuso, e non parlo dell’anno o il mese prossimo, oppure che venga ridotto o ridimensionato. Finito.

Roger Torraway distolse lo sguardo da Brad e lo fissò su Griffin.

— Finito, — ripeté quello. — Liquidato.

Sembrava che dirlo fosse una soddisfazione per lui, pensò Torraway.

— E l’unica cosa che l’ha salvato, — continuò Griffin, — è stato questo. — Batté sul tavolo ovale un fascio ripiegato di nastro verdognolo da computer. — L’opinione pubblica americana vuole che il progetto continui.

Torraway si sentì stringere il cuore, e solo in quel momento capì quanto era stato pronto ed intenso il senso di speranza che l’aveva preceduto. Per un attimo, aveva avuto l’impressione che gli fosse giunta la grazia.

Il vicedirettore si schiarì la gola. — Mi era parso, — disse, — che i sondaggi dimostrassero una considerevole… uhm, una considerevole apatia nei confronti di quanto stavamo facendo.

— I risultati preliminari, sì, — annuì Griffin. — Ma quando sommate tutti i dati e li fate analizzare dal computer, ci si trova di fronte a una forte approvazione su scala nazionale. È vero. Significativo entro il valore di due sigma, mi pare che diciate voi. Il popolo vuole che un americano riesca a vivere su Marte.

— Tuttavia, — aggiunse ancora, — era così prima di questo ultimo fiasco. Dio sa cosa succederebbe se si risapesse. L’amministrazione non vuole un insuccesso da giustificare. Vuole un successo. Non posso dirvi quanto dipenda da questo programma.

Il vicedirettore si rivolse a Freeling. — Dottor Freeling? — fece. Freeling si alzò. — Willy Hartnett è morto di un colpo, — disse. — Il referto autoptico completo non è ancora stato copiato a macchina, ma ecco di cosa si tratta. Non vi sono tracce di deterioramento organico: alla sua età e nelle sue condizioni, non me lo aspettavo neppure. Quindi è stato un trauma. Una tensione eccessiva perché i vasi sanguigni del suo cervello potessero sopportarla. — Si fissò con aria meditabonda le punte delle dita. — Il resto è costituito da congetture, — disse, — ma è il meglio che io posso fare. Chiederò un consulto con Ripplinger della Facoltà di Medicina di Yale e Anford…

— Un accidente, — scattò Griffin.

— Prego? — Freeling era stato colto alla sprovvista.

— Niente consulti. Prima è necessaria l’autorizzazione dei servizi di sicurezza. E questa è una faccenda urgentissima, dottor Freeling.

— Oh. Ecco… allora dovrò assumermi personalmente la responsabilità. La causa del trauma è stato l’eccesso di input. Hartnett era sovraccarico. Non ce l’ha fatta.

— Non ho mai sentito che una cosa del genere potesse causare un colpo, — protestò Griffin.

— Sì, lo stress deve essere molto forte. Però succede. E qui siamo alle prese con uno stress di tipo nuovo, Mr. Griffin. È come… beh, ecco un’analogia. Se lei avesse un figlio nato con le cataratte congenite, lo porterebbe da un medico, e il medico gliele asporterebbe. Tuttavia, l’intervento dovrebbe venire compiuto prima che suo figlio raggiungesse la pubertà: prima che smettesse di crescere, internamente ed esteriormente, vede. Se non facesse eseguire l’intervento prima di allora, tanto varrebbe che lo lasciasse cieco. I ragazzi che sono stati operati di cataratte di quel tipo all’età di tredici o quattordici anni, infatti, dal punto di vista storico presentano in comune un fenomeno interessante. Si suicidano prima di arrivare ai vent’anni.

Torraway si sforzava di seguire la conversazione, ma non vi riusciva troppo bene. Provò un senso di sollievo quando intervenne il vicedirettore. — Non capisco cosa c’entri questo con Will Hartnett, Jon.

— Anche in quel caso, è questione di eccesso di input. Nei ragazzi che hanno subito l’intervento per eliminare le cataratte, sembra si produca il disorientamento. Ricevono nuovi inputs, e non hanno sviluppato un sistema per farsene qualcosa. Se la vista c’è fin dalla nascita, la corteccia visiva sviluppa sistemi in grado di guidarla, mediarla e interpretarla. Altrimenti, tali sistemi non si sviluppano, ed è troppo tardi per farli evolvere.

«Ritengo che il guaio di Willy fosse questo: noi gli davamo degli inputs, e lui non aveva i meccanismi necessari. Era troppo tardi per svilupparne uno. Tutti i dati in arrivo lo inondavano: la tensione ha spezzato un vaso sanguigno. Inoltre, — proseguì, — credo che accadrà lo stesso a Roger. qui, se faremo la stessa cosa anche a lui.»

Griffin si voltò a lanciare un breve sguardo scrutatore su Roger Torraway. Torraway si schiarì la gola, ma non disse nulla. Non gli sembrava che fosse il caso di dire qualcosa. Griffin chiese: — Cosa mi stava spiegando, Freeling?

Il dottore scosse il capo. — Soltanto quel che ho detto. Io posso indicarle cos’è che non va: spetta a qualcun altro indicarle come si può rimediare. Non credo che si possa rimediare. Voglio dire, dal punto di vista medico. Prenda un cervello: quello di Willy o di Roger. È cresciuto come un apparecchio radioricevente. E adesso lei vi inserisce immagini televisive. Non sa più come fare.

Nel frattempo, Brad aveva continuato a scarabocchiare, alzando di tanto in tanto gli occhi con un’espressione interessata. Riabbassò lo sguardo sul blocco degli appunti, scrisse qualcosa, lo fissò pensoso, riprese a scrivere, mentre l’attenzione di tutti i presenti si volgeva su di lui.

Finalmente il vicedirettore disse: — Brad? A quanto pare, tocca a te.

Brad alzò la testa e sorrise. — Sto proprio lavorando su questo, — disse.

— Sei d’accordo con il dottor Freeling?

— Non c’è dubbio. Ha ragione lui. Non possiamo immettere input grezzi in un sistema nervoso che non è attrezzato per mediarli e per tradurli. Sono meccanismi che nel cervello non esistono, a meno che prendiamo un bambino appena nato e lo ricostruiamo, in modo che il cervello possa sviluppare i fattori necessari.

— Intendi proporre di attendere una nuova generazione di astronauti? — chiese Griffin.

— No. Propongo di costruire in Roger dei circuiti mediatori. Non semplicemente input sensoriali. Filtri, traduttori… mezzi per interpretare gli input, la vista attivata da diverse lunghezze d’onda dello spettro, il senso cinestetico dai nuovi muscoli… tutto. Ecco, — disse, — permettetemi di fare un passo indietro. Qualcuno di voi sa qualcosa di McCulloch e Lettvin e l’occhio di rana? — Si guardò intorno. — Sicuro, Jonny, tu lo sai, e lo sanno anche due o tre degli altri. Sarà meglio che ne parli un momento. Il sistema percettivo della rana, non soltanto l’occhio, filtra ed esclude ciò che non è importante. Se un insetto passa davanti all’occhio della rana, l’occhio lo percepisce, i nervi trasmettono l’informazione, il cervello reagisce ad essa, e la rana mangia l’insetto. Se, poniamo, una piccola foglia cade davanti alla rana, questa non la mangia. Non è che decide di non mangiarla. Non la vede. L’immagine si forma nell’occhio, certamente, ma l’informazione viene lasciata cadere prima che giunga al cervello. Il cervello non diviene mai conscio di quel che l’occhio ha visto, perché non è necessario. Per una rana non è importante sapere se ha di fronte una foglia o no.

Roger seguiva la conversazione con grande interesse, ma non ne capiva molto. — Ehi, un momento, — disse. — Io sono più complicato… Cioè, un uomo è molto più complicato di una rana. Come fai a stabilire ciò che io «devo» vedere?

— Gli elementi della sopravvivenza, Rog. Abbiamo ricavato moltissimi dati da Willy, e credo che ci riusciremo.

— Grazie. Vorrei però che ne fossi un po’ più sicuro.

— Oh, sono abbastanza sicuro, — disse Brad, con un gran sorriso. — Questa situazione non mi ha colto del tutto alla sprovvista.

Con la gola stretta e un filo di voce, Torraway chiese: — Vorresti dire che hai lasciato che Willy continuasse così e…

— No, Roger! Suvvia. Willy era anche amico mio. Pensavo che vi fosse un fattore di sicurezza sufficiente per tenerlo in vita. Mi ero sbagliato, e ne soffro almeno quanto te, Roger. Ma lo sapevamo tutti: c’era il rischio che i sistemi non funzionassero a dovere, e che avremmo dovuto fare dell’altro.

— Questo, — disse Griffin, in tono pesante, — non risultava in modo molto chiaro dai rapporti periodici. — Il vicedirettore fece per parlare, ma Griffin scosse il capo: — Ne riparleremo un’altra volta. Cosa mi stava dicendo adesso, Bradley? Ha intenzione di escludere parte delle informazioni?

— No, non escluderle. Mediarle. Tradurle in una forma che Roger possa assimilare.

— Ma Torraway ha fatto osservare che un uomo è più complicato di una rana. Lei ha mai fatto una cosa del genere con esseri umani?

Sorprendentemente, Brad sorrise soddisfatto: era pronto a rispondere. — Per la verità, sì. Circa sei anni fa, prima che io venissi qui… ero ancora uno studente laureato. Prendemmo quattro volontari e li condizionammo con il sistema di Pavlov. Facevamo lampeggiare una luce intensa davanti ai loro occhi, e contemporaneamente, facevamo suonare un campanello elettrico con trenta vibrazioni al secondo. Ebbene, naturalmente, quando ci proiettano una luce forte negli occhi, le nostre pupille si restringono. Non è l’effetto di un controllo conscio: è impossibile simulare un riflesso del genere. È una reazione alla luce, null’altro: solo una capacità evolutiva di proteggere l’occhio dalla luce solare diretta.

«Questo tipo di reazione, determinato dal sistema nervoso autonomo, è difficile da condizionare negli esseri umani. Però noi ci riuscimmo. E quando il riflesso si afferma, si radica saldamente. Dopo… mi pare dopo trecento prove per soggetto, il riflesso si fissò. Bastava far suonare il campanello, e le pupille dei soggetti si contraevano fino a diventare puntiformi. Riesce a seguirmi, fin qui?»

— Ricordo abbastanza bene i riflessi condizionati di Pavlov: li ho studiati all’università. Roba normale, — disse Griffin.

— Beh, la parte successiva non era tanto normale. Stabilimmo un collegamento con il nervo auditivo, e potemmo misurare il segnale che perveniva al cervello: din-din, trenta vibrazioni al secondo, potemmo leggerlo sull’oscilloscopio. ;

«Poi cambiammo il campanello. Ne usammo uno che dava ventiquattro vibrazioni al secondo. Vuol sapere che cosa accadde? — Griffin non rispose, e Brad sorrise: — L’oscilloscopio continuò a mostrare trenta vibrazioni al secondo. Il cervello udiva qualcosa che in realtà non esisteva.

«Quindi, vede, non sono soltanto le rane che ricorrono a questo tipo di mediazione. Gli esseri umani percepiscono il mondo in modi predigeriti. Gli input sensoriali stessi correggono e riordinano le informazioni.

«Dunque, quel che ci proponiamo di fare con te, Roger, — continuò giovialmente Brad, — è darti un piccolo aiuto nell’interpretazione. Non possiamo fare molto, con il tuo cervello: efficiente o no, è quello che è e basta. È una massa di materia grigia, con una struttura che ne limita le capacità, e non possiamo continuare a inondarla di informazioni sensoriali. L’unico posto in cui possiamo lavorare è al punto di contatto… prima che l’informazione arrivi al cervello.»

Griffin batté sul piano del tavolo il palmo della mano aperta. — Possiamo farcela per la data della finestra di lancio? — ringhiò.

— Io posso solo tentare, signore, — rispose giovialmente Brad.

— Lei può soltanto andarsi a impiccare se accettiamo questa sua idea e non funziona, ragazzo mio!

L’espressione gioviale sparì dalla faccia di Brad. — Cosa vuole che le dica?

— Voglio che lei mi indichi le probabilità! — latrò Griffin.

Brad esitò. — Non sono peggiori di cinquanta per cento — disse finalmente.

— Allora, — rispose Griffin, sorridendo finalmente, — ci sto.


Cinquanta per cento, pensò Roger mentre tornava verso il suo ufficio: come probabilità non erano male. Naturalmente, tutto dipendeva dalla posta in gioco.

Rallentò per lasciare che Brad lo raggiungesse. — Brad, — gli chiese, — sei proprio sicuro di quel che hai detto?

Brad gli diede una pacca sulle spalle, amichevolmente. — Più sicuro di quanto ho ammesso, per essere sincero. Ma non volevo espormi troppo con il vecchio Griffin. E poi, senti una cosa, Roger: grazie.

— Di che?

— Di aver cercato di avvertirmi, oggi. Te ne sono grato.

— Prego, — disse Roger. Si soffermò ancora per un momento, seguendo con gli occhi Brad che si allontanava, e chiedendosi come faceva quello a sapere una cosa che lui aveva detto soltanto a sua moglie.

Avremmo potuto dirglielo noi… e in verità avremmo potuto dirgli molte, moltissime cose, persino perché i sondaggi indicavano quel che indicavano. Ma in realtà non c’era bisogno che glielo dicesse nessuno. Avrebbe potuto dirselo lui stesso… se si fosse permesso di saperlo.

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