CAPITOLO QUINTO IL MOSTRO RITORNA MORTALE

Mentre Brad se ne andava fischiettando, la radio della sua macchina snocciolava le notizie dal mondo. La Decima Divisione di Montagna era stata costretta a ripiegare in un’area fortificata di Riverdale. Un tifone aveva distrutto il raccolto del riso nel Sud-Est asiatico. Il presidente Deshatine aveva dato ordine alla delegazione statunitense di abbandonare il dibattito alle Nazioni Unite sulla divisione delle risorse.

C’erano molte notizie che la radio non trasmetteva: un po’ perché i giornalisti non le conoscevano, un po’ perché non le giudicavano importanti. Per esempio, non si parlava neppure di due cinesi in missione in Australia, né dei risultati di certi sondaggi segreti sulla popolarità che il presidente teneva chiusi in cassaforte, né dei test che venivano compiuti su Willy Hartnett. Perciò Brad non sentì niente di tutto questo. Se l’avesse sentito, e ne avesse capito l’importanza, si sarebbe preoccupato. Non era un tipo spensierato. Non era neppure cattivo. Semplicemente, non era molto buono.

Qualche volta, il problema si presentava: per esempio, quando veniva il momento di scaricare una ragazza o di abbandonare un amico che gli era stato utile. Talvolta c’erano delle recriminazioni. Allora Brad sorrideva, alzava le spalle, e faceva osservare che al mondo non c’era giustizia. Lancillotto non vinceva tutti i tornei. Qualche volta il cattivo cavaliere nero lo disarcionava. Bobby Fischer non era il più simpatico giocatore di scacchi del mondo, erasoltanto il migliore. E così via.

E quindi Brad ammetteva di non essere affatto un uomo modello, dal punto di vista sociale. E infatti non lo era. Nella sua infanzia qualcosa non era andato per il verso giusto. Il suo egocentrismo si era ingigantito, e adesso egli vedeva il mondo intero in un modo particolare: pensava soltanto a ciò che quel mondo poteva dare a lui. La guerra con la Cina? Bene, vedremo, calcolava Brad: sicuramente vi sarebbero stati moltissimi interventi chirurgici, e lui avrebbe forse finito per dirigere un ospedale. Una depressione economica mondiale? Aveva investito il suo danaro in terreni agricoli: la gente avrebbe dovuto mangiare comunque.

Non era un tipo ammirevole. Comunque, era la miglior persona al mondo, quando si trattava di fare ciò che occorreva al cyborg: cioè fornire a Willy Hartnett una mediazione tra lo stimolo e l’interpretazione. Il che significava a un certo punto, tra l’oggetto esterno che il cyborg vedeva e le conclusioni che il suo cervello ne traeva, doveva esserci una fase in cui le informazioni superflue venivano eliminate. Altrimenti il cyborg sarebbe impazzito, molto semplicemente.

Per capire meglio, pensate alla rana.

Pensate alla rana come a una macchina funzionale, progettata per produrre girini. È la concezione darwiniana e in effetti costituisce il fulcro dell’evoluzione. Per riuscire al suo scopo, la rana deve vivere abbastanza a lungo per crescere e, se è femmina, per venire fecondata, o, se è maschio, per fecondare una femmina. Per crescere deve evitare di farsi mangiare.

Tra i vertebrati, la rana è un essere piuttosto stupido e semplice. Ha un cervello, ma non è molto grande né molto complesso. Nel cervello d’una rana non ci sono facoltà in eccesso, perciò non vengono sprecate per le cose superflue. L’evoluzione è sempre imperniata su precisi principi economici. Le rane maschio non scrivono poesie e non si arrovellano per paura che le loro rane femmine siano loro infedeli. E non ci tengono a pensare a cose che non interessino direttamente il mestiere di restar vive.

Anche l’occhio della rana è semplice. Negli occhi umani vi sono complessità che i ranocchi non conoscono. Supponiamo che un umano entri in una stanza dove c’è un tavolo su cui sta una bistecca con contorno di patatine fritte; anche se non è in grado di udire, non ha più né il senso del gusto né l’olfatto, è attratto dal cibo. Il suo occhio si volge sulla bistecca. Vi è un punto nell’occhio, chiamato «fovea», la parte con cui una persona vede meglio, ed è questo il punto che si orienta sul bersaglio. La rana non fa niente del genere: una parte del suo occhio è efficiente quanto una qualsiasi altra. O inefficiente quanto un’altra. Perché il particolare più interessante, per quanto riguarda la visuale di un occhio di rana è questo: di fronte a ciò che per il ranocchio equivale a una bistecca — cioè un insetto abbastanza grosso perché valga la pena di ingoiarlo, ma abbastanza piccolo da non essere pericoloso — il ranocchio stesso è in pratica cieco, a meno che il cibo non si comporti da cibo. Provate a circondarlo con il più nutriente dei patè d’insetti tritati che riuscite a ideare. Si lascerà morire di fame… a meno che passi di lì una coccinella.

Se si pensa però al modo in cui una rana mangia, questo strano comportamento comincia ad avere un senso. La rana occupa una precisa nicchia ecologica. Allo stato naturale, nessuno riempie quella nicchia di cibo tritato. La rana mangia insetti, e perciò vede insetti. Se nel suo campo visivo passa qualcosa che ha le dimensioni di un insetto e si muove alla velocità giusta per un insetto, la rana non sta a chiedersi se ha fame o no e quale insetto ha il miglior sapore. Lo mangia e basta. E poi si mette ad aspettare che ne passi un altro.

Nel laboratorio, questa è una caratteristica antisopravvivenza. Potete imbrogliare una rana con un brandello di stoffa, un pezzetto di legno legato a uno spago, qualunque cosa che si muova nel modo giusto e abbia la grandezza giusta. La rana lo mangerà, e morirà di fame. Ma in natura non esistono trucchi del genere: in natura soltanto gli insetti si muovono da insetti; e ogni insetto è cibo per le rane.

Non è un principio difficile da comprendere. Ditelo a un amico ingenuo e quello esclamerà: — Oh, sì, capisco. La rana ignora tutto ciò che non ha aspetto d’insetto. — Errore! La rana non si comporta affatto così. Non ignora l’oggetto non-insetto. Innanzi tutto, non li vede mai. Collegate il nervo ottico di una rana a uno strumento e poi fate rotolare lentamente una bilia: è troppo grossa, troppo lenta, e nessuno strumento capterà un impulso nervoso. Non c’è, infatti. L’occhio non si prende la briga di «vedere» ciò che alla rana non interessa. Ma fatele dondolare davanti una mosca morta, e i quadranti dell’apparecchio scatteranno: il nervo trasmette un messaggio, la lingua dell’anfibio guizza e cattura.

E così arriviamo al cyborg. Bradley aveva creato uno stadio di mediazione tra i complessi occhi di rubino e il dolente cervello umano di Willy Hartnett, che filtrava, interpretava e in generale preconfezionava tutti gli input visivi del cyborg. L’«occhio» vedeva tutto, persino nella parte ultravioletta dello spettro, persino nell’infrarosso. Il cervello non era in grado di occuparsi di un flusso così enorme di input. La fase di mediazione ideata da Bradley eliminava i bit privi d’importanza.

Quella fase era un trionfo della tecnica, poiché Bradley era effettivamente di un’efficienza straordinaria nell’unica cosa che sapeva fare bene. Ma non era presente per installare l’apparecchio. E quindi, poiché Brad aveva un appuntamento, e anche perché il presidente degli Stati Uniti doveva andare in bagno e due cinesi che si chiamavano Sing e Sun volevano assaggiare la pizza, la storia del mondo cambiò.


Jerry Weidner, che era l’assistente principale di Brad, sovrintendeva il processo lento e laborioso della risistemazione della vista del cyborg. Era un lavoro meticoloso e delicato. Come quasi tutte le cose che bisognava fare a Willy Hartnett, a Willy causò il massimo fastidio. I nervi sensibili delle palpebre erano già stati isolati da tempo: altrimenti gli avrebbero dato un dolore acutissimo, urlante, giorno e notte. Tuttavia, egli poteva sentire ciò che accadeva: se non come una sofferenza, almeno come la consapevolezza psichicamente inquietante che qualcuno stava insinuando strumenti affilati in una parte delicatissima della sua anatomia. La sua vista veniva mantenuta in «stand-by», perciò egli «vedeva» solo ombre vaghe in movimento. Era già abbastanza. Hartnett non lo sopportava.

Rimase disteso per un’ora o più mentre Weidner e gli altri provvedevano a cambiare i potenziali, prendevano nota delle letture, si parlavano con il linguaggio dei numeri, tipico dei tecnologi. Quando furono finalmente soddisfatti della forza del campo del suo sistema percettivo e gli permisero di alzarsi in piedi, all’improvviso per poco il cyborg non cadde. — Sssschifo, — ringhiò. — Mi gira ancora la tesssta.

Preoccupato e rassegnato, Weidner disse: — Bene, faremmo meglio a chiedere un controllo delle vertigini. — Vi fu quindi un altro indugio di trenta minuti, mentre la squadra degli specialisti dell’equilibrio controllava i suoi riflessi. Alla fine, il cyborg sbottò: — Crissto, piantatela. Possso sssstare sssu un piede sssolo per venti ore filate, che cosssa dimossstra? — Ma quelli lo fecero stare ugualmente ritto su un piede solo, misurando fino a che punto era in grado di accostare a un oggetto le punte delle dita, con la vista ancora in « stand-by».

Poi gli specialisti dell’equilibrio si dichiararono soddisfatti, ma Jerry Weidner no. Le vertigini si erano prodotte altre volte, e non era mai stata trovata la causa precisa: né nell’orizzonte meccanico innestato, né nelle rozze ossa naturali dell’orecchio, staffa e incudine. Weidner non sapeva che erano causate dal sistema di mediazione di cui era responsabile egli stesso: ma non sapeva neppure che non erano causate da quello. Non vedeva l’ora che Brad si decidesse a tornare da quel pranzo interminabile.

In quello stesso momento, dall’altra parte del mondo, c’erano i due cinesi che si chiamavano Sing e Sun. Non erano i protagonisti di una barzelletta oscena. Quelli erano i loro veri nomi. Il bisnonno di Sing era morto sulla bocca di un cannone russo dopo la fine della rivolta dei Boxer, che avevano cercato di scacciare dalla Cina i diavoli bianchi. Suo padre lo aveva generato durante la Lunga Marcia, ed era morto prima che lui nascesse, combattendo contro i soldati di un «Signore della Guerra» alleato di Ciang Kai-scek. Sing aveva quasi novant’anni. Aveva stretto la mano al compagno Mao, aveva deviato il corso del Fiume Giallo per ordine dei successori dello stesso Mao, e attualmente era il supervisore del più grande progetto d’ingegneria idraulica della sua carriera, in una città australiana che si chiamava Fitzroy Crossing. Quello era il suo primo lungo viaggio lontano dal territorio della Nuova Asia Popolare. Aveva tre ambizioni da soddisfare, in quel viaggio: vedere un film pornografico non censurato, bere una bottiglia di Scotch che venisse dalla Scozia e non dalla provincia popolare di Honshu, e assaggiare una pizza. In compagnia del suo collega Sun aveva cominciato piuttosto bene con lo Scotch, aveva scoperto dove poteva vedere il film e adesso era ansioso di assaporare la pizza.

Sun era molto più giovane — non aveva ancora quarant’anni — e nonostante tutto, si lasciava suggestionare dal rispetto per l’età del suo collega. C’era anche il fatto che Sun si trovava parecchi gradini più in basso del vecchio sulla scala sociale, sebbene fosse ovviamente un esponente in ascesa dell’ala tecno-industriale del Partito. Sun era appena tornato, dopo aver trascorso un anno a dirigere una squadra impegnata nei rilevamenti topografici del Gran Deserto Sabbioso. Non c’era soltanto sabbia. C’era anche terra… terra buona, coltivabile, fertile, cui mancavano solo pochi elementi in tracce e l’acqua. Sun aveva preparato le mappe della chimica del suolo di un milione di miglia quadrate. Unendo la carta di Sun e il grande acquedotto in salita di Sing, con le sue quattordici grandi batterie di pompe a energia nucleare, sarebbe stato possibile dare la vita a quel milione di miglia di deserto. Integrativi chimici + acqua distillata dal sole proveniente dalla costa lontana = dieci raccolti l’anno, con cui sfamare cento milioni di neoaustraliani appartenenti al ceppo etnico cinese.

Il progetto era stato studiato meticolosamente, e aveva un solo difetto. I vecchi neoaustraliani, discendenti dagli emigranti del periodo successivo alla seconda guerra mondiale, non volevano che i nuovi neoaustraliani venissero lì a coltivare quella terra. La volevano loro. Quando Sun e Sing entrarono nel Danny’s Pizza Hut, sulla strada principale di Fitzroy Crossing, due vecchi neoaustraliani, uno dei quali si chiamava Koschanko e l’altro Gradechek, stavano uscendo dal bar, e purtroppo riconobbero Sing perché avevano visto la sua foto sul giornale. Corsero parole grosse. I cinesi riconobbero l’odore della birra rancida e pensarono che quella truculenza fosse dovuta esclusivamente all’ubriachezza. Cercarono di passare, e Koschanko e Gradechek li spinsero fuori, sulla strada. La bellicosità esplose, e il cranio novantenne di Sing Hsi-chin si spezzò contro una pietra del marciapiedi.

A questo punto, Sun tirò fuori una pistola che non era autorizzato a portare, sparò e uccise i due aggressori.

Era stata solo una zuffa tra ubriachi. La polizia di Fitzroy Crossing aveva dovuto occuparsi di migliaia di reati più sensazionali, e si sarebbe occupata anche di quello, se glielo avessero permesso. Ma la cosa non poteva finire lì, perché una delle cameriere del bar era anche lei una nuova neoaustraliana originaria del Honan: riconobbe Sun, scoprì chi era Sing, prese il telefono e chiamò l’ufficio dell’Agenzia Giornalistica Nuova Cina a Lagrange Mission, sulla costa, per riferire che uno dei più famosi scienziati cinesi era stato brutalmente assassinato.

Entro dieci minuti i satelliti avevano diffuso in tutto il mondo una versione non molto coerente ma molto colorita dei fatti.

Entro un’ora, la missione della Nuova Asia Popolare a Canberra aveva chiesto al ministro degli Esteri un appuntamento per consegnare una nota di protesta, dimostrazioni spontanee erano in corso a Shanghai, Saigon, Hiroshima e in altre dozzine di città asiatiche; e cinque o sei satelliti d’osservazione vennero dirottati dalle loro orbite per passare sopra l’Australia del Nord-Ovest e sui mari delle isole della Sonda. A due miglia dal porto di Melbourne una gran sagoma grigia emerse sulla superficie del mare e restò lì, senza trasmettere segnali e senza rispondere per più di una ventina di minuti. Poi comunicò di essere il sommergibile nucleare della Nuova Asia Popolare, L’oriente è rosso, in normale visita diplomatica in un porto amico. La comunicazione fu ricevuta appena in tempo perché venisse annullato l’ordine, impartito alla RAAF, di attaccare l’intruso sconosciuto: ma c’era mancato veramente poco.

Sotto Pueblo, nel Colorado, il presidente degli Stati Uniti fu destato dal suo sonnellino pomeridiano. Stava seduto sull’orlo del letto e sorseggiava disgustato una tazza di caffè, quando l’addetto ai collegamenti con il Dipartimento della Difesa entrò con un rapporto in mano e l’annuncio che era stato proclamato l’allarme rosso, secondo le disposizioni da tempo programmate dal North American Defense Command. Aveva già ricevuto i rapporti via satellite e un resoconto diretto da una missione militare che si trovava a Fitzroy Crossing: sapeva della comparsa del sommergibile L’oriente è rosso, ma non sapeva ancora che l’attacco aereo era stato annullato. Riassumendo le informazioni, disse al presidente: — Quindi adesso bisogna decidere, signore. Il NADCOM consiglia un lancio con possibilità di richiamo, entro cinquanta minuti.

Il presidente ringhiò: — Non sto bene. Cosa diavolo hanno messo in quella minestra? — Dash non era dell’umore più adatto per pensare alla Cina, in quel momento; aveva sognato un sondaggio privato sommando i giudizi «eccellente» e «passabile», mentre il 61 per cento aveva dichiarato che la sua amministrazione era «mediocre» o «molto insoddisfacente». Non era stato un sogno, però. Glielo avevano dimostrato le informazioni ricevute quel mattino.


Dash spinse via la tazza del caffè e pensò lugubramente alla decisione che ora doveva prendere. Lanciare missili contro le città principali della Nuova Asia Popolare era, in teoria, una scelta reversibile: i missili potevano venire resi innocui in qualunque momento, prima di piombare sul bersaglio, disattivati e fatti cadere in mare senza causare danni. Ma in pratica le postazioni della Nuova Asia Popolare avrebbero scoperto il lancio, e chi poteva sapere che cos’avrebbero fatto quei pazzi bastardi dei cinesi? Il presidente si sentiva il ventre straziato, come se fosse agli ultimi istanti di gravidanza, e aveva la sensazione di essere sul punto di vomitare. Il suo primo segretario disse, in tono di rimprovero: — Il dottor Stassen le aveva sconsigliato di mangiar cavoli, signore. Forse dovremmo dire al cuoco di non preparare più quella minestra.

Il presidente ribeccò: — Non voglio una predica proprio adesso. Sta bene, senta. Manterremo l’attuale stato di all’erta fino a quando darò io altri ordini. Niente lanci. Niente rappresaglie. Capito?

— Sì, signore, — disse l’uomo del dipartimento della Difesa in tono di rammarico. — Signore? Ho qui parecchie richieste specifiche, del NADCOM, del progetto Man Plus, dell’ammiraglio comandante dello SWEPAC…

— Mi ha sentito! Ho detto niente rappresaglie. Tutto il resto può procedere.

Il primo segretario spiegò più chiaramente: — La nostra posizione ufficiale, — disse, — è che questo incidente verificatosi in Australia è una questione interna, e non riguarda gli Stati Uniti. La nostra posizione non cambia. Teniamo tutto pronto, ma senza entrare in azione. È giusto, signor Presidente?

— È giusto, — disse Dash, fra i denti. — E adesso, se potete fare a meno di me per dieci minuti, devo andare al gabinetto.


Brad aveva pensato di telefonare per chiedere come andava la ricalibratura, ma gli piaceva troppo fare la doccia insieme a una donna: era così divertente insaponarsi a vicenda, e l’armamentario della stanza da bagno del Chero-Strip comprendeva sali, saponi che facevano tante bollicine e asciugamani meravigliosamente soffici. Erano le tre prima che Brad si decidesse a pensare di tornare al lavoro.

Ormai era troppo tardi. Weidner aveva tentato di ottenere il permesso di rinviare i test, ma il vicedirettore non aveva voluto prendersi la responsabilità e l’aveva scaricata su Washington: da Washington avevano consultato l’ufficio del presidente e avevano ricevuto questa risposta: — No, non potete, non potete assolutamente, ripeto, rinviare questo o altri test. — L’uomo che aveva dato questa risposta era il primo segretario del presidente, e stava guardando la proiezione del «rischio di guerra» sulla parete dello studio privato del suo superiore. E mentre rispondeva al telefono, l’ampia linea nera saliva ancora più nettamente verso la linea rossa.

Perciò procedettero al test. Weidner aveva le labbra contratte, la fronte aggrondata. Andò tutto bene fino a quando cominciò ad andare molto male. Roger Torraway era molto lontano con la mente, quando udì il cyborg che lo chiamava. Entrò e si fermò, chiuso nella tuta con respiratore, sulla sabbia rossastra. — Cosa c’è, Willy? — domandò.

I grandi occhi di rubino si volsero verso di lui. — Non… non riesssco a vederti, Roger! — fece il cyborg con voce stridula. — Io… io…

Vacillò e cadde. Avvenne così in fretta che Roger non si mosse verso di lui fino a quando si sentì investire dal grande, tonante spostamento d’aria che lo sospinse, barcollante, verso la figura prona del mostro.

Dall’atmosfera corrispondente a quella di un’altitudine di 2500 metri, Don Kayman si precipitò disperatamente nella camera marziana. Non aveva perso tempo nel vano stagno, a compensare l’atmosfera. Aveva spalancato tutte e due le porte. Non era più uno scienziato. Era un prete: si lasciò cadere in ginocchio accanto alla forma contorta di ciò che era stato Willy Hartnett.

Roger rimase a guardare mentre Don Kayman sfiorava gli occhi di rubino, tracciava una croce sulla pelle sintetica, bisbigliando qualcosa che Roger non poteva udire. Non voleva udirlo. Sapeva ciò che stava accadendo.

Il primo candidato al ruolo di cyborg riceveva in quel momento l’estrema unzione sotto ai suoi occhi.

La prima riserva era Vic Freibart, tolto dall’elenco per ordine presidenziale.

La seconda riserva era Carl Mazzini, ed era fuori gioco a causa della gamba fratturata.

La terza riserva, e il nuovo campione, era lui.

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