CAPITOLO UNDICESIMO DOROTHY LOUISE MINTZ TORRAWAY NELLA PARTE DI PENELOPE

Le nostre proiezioni di tendenza avevano mostrato che era venuto il momento di far sapere al mondo la verità sul conto di Roger Torraway, verruche e tutto. Perciò era venuto fuori tutto, e ogni schermo televisivo del mondo aveva mostrato Roger sulle punte in una dozzina di perfetti fouettés, tra un primo piano dei morti di denutrizione del Pakistan e gli incendi di Chicago.

Tutto ciò servì a fare di Dorrie una celebrità. La chiamata di Roger l’aveva sconvolta. Non quanto il biglietto con cui Brad le aveva comunicato che non avrebbero più potuto vedersi, non quanto i quarantacinque minuti che il presidente aveva trascorso con lei per farle capire ciò che poteva succedere se si fosse permessa di turbare il suo astronauta prediletto. Certamente non quanto la certezza di essere pedinata, di avere il telefono sotto controllo e la casa sicuramente piena di microfoni nascosti. Ma non aveva saputo come comportarsi con Roger. Temeva che non l’avrebbe saputo mai, e non le dispiaceva affatto pensare che tra pochi giorni egli sarebbe stato lanciato nello spazio: allora, almeno per un anno e mezzo, non sarebbe stata costretta a preoccuparsi dei loro rapporti.

E non le dispiaceva affatto quell’improvviso fulgore pubblicitario.

Adesso che i giornali sapevano tutto, i telecronisti erano accorsi a vederla: e aveva potuto ammirare la propria espressione coraggiosa nel telegiornale delle sei. Fem stava per mandarle qualcuno. Quel qualcuno telefonò per prendere appuntamento. Era sulla sessantina, veterana del Movimento di Liberazione della Donna; e disse con degnazione: — È una cosa che non facciamo mai, intervistare qualcuna solo perché è la moglie di qualcun altro. Ma quelli ci tengono. Non ho potuto rifiutare l’incarico, ma voglio essere sincera con lei, e ci tengo a farle sapere che mi sembra una cosa disgustosa.

— Mi dispiace, — fece Dorrie in tono di scusa. — Vuole che disdica l’intervista?

— Oh, no, — disse la donna, parlando come se fosse colpa di Dorrie, — non è colpa sua, ma lo ritengo un tradimento nei confronti di tutto ciò che Fem rappresenta. Non importa. Verrò a casa sua. Faremo un servizio di quindici minuti per l’edizione in videocassetta, e io scriverò un pezzo per l’edizione stampata. Se può…

— Io… — cominciò Dorrie.

— … cerchi di parlare di se stessa, anziché di lui. La sua vita. I suoi interessi. Il suo…

— Mi dispiace, ma sinceramente preferirei…

— … pensiero sul programma spaziale e così via. Dash dice che si tratta di un obiettivo americano fondamentale e che da questo dipende l’avvenire del mondo. Lei che ne pensa? Non’voglio che mi risponda adesso, voglio…

— Non voglio l’intervista in casa mia, — disse Dorrie, interrompendola, senza attendere una pausa nella conversazione.

— … che ci pensi sopra, e mi risponda davanti alla telecamera. Non le va bene a casa sua? No, non è possibile. Saremo lì tra un’ora.

Dorrie si ritrovò a parlare con un puntolino luminoso che si spegneva sullo schermo. — Puttana, — disse, quasi distrattamente. Non le dispiaceva che l’intervista si svolgesse in casa sua. Le dispiaceva di non avere una possibilità di scelta. Questo le bruciava molto. Ma non poteva farci niente, a meno di andarsene prima che arrivasse l’inviata di Fem.

Dorrie Torraway, anzi Dee Mintz, teneva molto alle sue possibilità di scelta. Una delle cose che l’avevano attirata inizialmente verso Roger, a parte il fascino del programma spaziale, e la sicurezza e il danaro che ne costituivano il corollario — e a parte lo stesso Roger, con quella sua aria simpatica da stallone — era il fatto che lui era sempre disposto ad ascoltare i suoi desideri. Gli altri uomini pensavano soprattutto a quel che volevano loro, e questo cambiava da un uomo all’altro, ma non cambiava nell’ambito dei rapporti con un dato individuo. Harold voleva sempre ballare e andare alle feste, Jim voleva sempre fare all’amore, Everett voleva fare all’amore e andare alle feste, Tommy voleva un impegno politico, Joe voleva premure materne. Roger, invece, voleva esplorare il mondo insieme a lei, e sembrava disposto a esplorarne le parti che interessavano a lei non meno delle parti che erano importanti per lui.

Non si era mai pentita di averlo sposato.

Era rimasta sola molte volte. Cinquantaquattro giorni mentre Roger era nella Stazione Spaziale Tre. Tante altre missioni più brevi. Due anni in giro per il mondo, a lavorare con l’intero sistema delle stazioni di controllo a terra, da Aquisgrana allo Zaire, senza avere una vera casa da nessuna parte. Dorrie dopo un po’ si era stancata, ed era tornata nell’appartamento di Tonka. Ma non le era dispiaciuto. Forse era dispiaciuto a Roger: quel problema non le era mai passato per la mente. Comunque, si erano visti abbastanza di frequente. Roger arrivava a casa ogni mese od ogni due mesi, e lei si dava da fare. C’era il negozio: lo aveva aperto mentre Roger era in Islanda, con l’assegno da cinquemila dollari che lui le aveva inviato in dono per il suo compleanno. C’erano le sue amiche. C’erano, di tanto in tanto, degli uomini.

Tutto ciò non era servito a riempire la sua vita, ma Dorrie non lo pretendeva neppure. Si era abituata a star sola. Era figlia unica, e sua madre non aveva mai potuto soffrire i vicini, perciò non aveva mai avuto molte amicizie. Del resto, anche i vicini non potevano soffrire sua madre, perché sua madre era una drogata, e quasi tutti i pomeriggi era come se non ci fosse, il che complicava l’esistenza di Dorrie. Ma a lei non dispiaceva: non sapeva che esistessero altri modi di vivere.

A trentun anni, Dorrie era sana, graziosa, capace di affrontare il mondo, così come era stata in passato e come sarebbe stata in futuro. Si considerava felice. Quella diagnosi non scaturiva da un tripudio di gioia interiore. Derivava dalla constatazione obiettiva che, quando voleva qualcosa, l’otteneva sempre: e quale altra definizione della felicità poteva essere più valida?

Approfittò del tempo che le restava prima dell’arrivo di Ms. Hagar Hengstrom e dei suoi collaboratori di Fem per disporre una collezione di ceramiche del suo negozio sul tavolino, davanti al divano su cui intendeva sedersi. I minuti che le restarono li dedicò al compito meno importante di spazzolarsi i capelli, controllare il trucco e indossare il suo abito nuovo con i pantaloni ornati di pizzo.

Quando suonò il campanello, Dorrie era pronta.

Ms. Hagar Hengstrom le strinse vigorosamente la mano ed entrò, con i capelli di un azzurro vivo e un sigaro nero. La seguirono la datrice di luci, la fonica, l’addetta alla telecamera e i ragazzi addetti all’ambientazione. — La stanza è piccola, — borbottò, scrutando con disprezzo l’arredamento. — Torraway si siederà là. Muovetevi.

I ragazzi si precipitarono a spostare una poltrona, dalla finestra all’angolo occupato da un mobiletto, che trascinarono al centro della stanza. — Aspetti un momento, — fece Dorrie. — Pensavo di sedermi qui sul divano…

— Allora, come va con l’esposimetro? — domandò la Hengstrom. — Sally, attacca con la telecamera. Non si sa mai quel che possiamo utilizzare come sfondo per i titoli di testa.

— Dico sul serio, — fece Dorrie.

La Hengstrom la guardò. La voce non si era alzata troppo, ma il tono era minaccioso. Scrollò le spalle. — Mi lasci fare, — propose. — E se poi non le piacerà ne riparleremo. Mi racconti tutto, eh?

— Raccontare tutto cosa? — La ragazza pallida, notò Dorrie, puntava su di lei la telecamera a mano: e questo l’irritava. La datrice di luci aveva trovato una presa a muro e reggeva dei riflettori con entrambe le mani, spostandoli delicatamente per cancellare le ombre che si formavano appena Dorrie si muoveva.

— Beh, tanto per cominciare, che progetti ha per i prossimi due anni? Sicuramente non avrà intenzione di star qui ad aspettare che Roger Torraway torni a casa.

Dorrie tentò di dirigersi verso il divano, ma la datrice di luci aggrottò la fronte e le accennò di muoversi nell’altra direzione, e due dei ragazzi spinsero via il tavolino con le ceramiche. Dorrie disse: — Ho il mio negozio. Pensavo che le facesse piacere inquadrare qualcuno dei miei pezzi mentre mi intervistava…

— Benissimo, sicuro. Volevo dire personalmente. Lei è una donna sana. Ha delle esigenze sessuali. Un po’ più indietro, prego… Sandra riceve un ronzio nell’audio.

Dorrie si trovò in piedi davanti alla poltrona, e le sembrò che non vi fosse altro da fare che sedere. — Naturalmente… — cominciò.

— Lei ha una responsabilità, — disse la Hengstrom. — Che esempio intende dare alla gioventù femminile? Trasformarsi in una vecchia zitella inacidita? Oppure vivere una vita piena, naturale?

— Non so se ci tengo a discutere…

— Mi sono informata sul suo conto, Torraway. E quel che ho scoperto mi piace. Lei appartiene a se stessa… per quanto è possibile per una persona che accetta la farsa ridicola del matrimonio. Lei perché lo fa?

Dorrie esitò. — Roger è veramente una cara persona, — dichiarò.

— E con questo?

— Ecco, voglio dire, mi ha dato sempre conforto e appoggio…

Hagar Hengstrom sospirò. — La solita vecchia psicologia della schiava. Lasciamo perdere. L’altra cosa che mi rende perplessa è il fatto che si sia lasciata invischiare nel programma spaziale. Non pensa che sia una trovata maschilista?

— Ma no. Me l’ha detto il presidente in persona, — disse Dorrie, tentando di segnare qualche punto a proprio favore nell’eventualità di un’altra visita di Dash. — Ha detto che mandare un uomo su Marte era assolutamente indispensabile per il futuro della razza umana. Io gli credo. È nostro dovere…

— Ripeta, — ordinò la Hengstrom.

— Cosa?

— Ripeta quello che ha appena detto. Mandare cosa, su Marte?

— Un uomo. Oh. Capisco ciò che vuol dire.

La Hengstrom annuì tristemente. — Capisce ciò che voglio dire, ma questo non cambia il suo modo di pensare. Perché un uomo? Perché non una persona? — Lanciò un’occhiata di commiserazione alla fonica, che scosse il capo con fare comprensivo. — Bene, passiamo a qualcosa di più importante. Sa che l’equipaggio del volo per Marte dovrebbe essere formato soltanto da maschi? Cosa ne pensa?

Fu una mattinata terribile, per Dorrie. E non riuscì a fare inquadrare le sue ceramiche.


Quando Sulie Carpenter prese servizio quel pomeriggio, portò a Roger due sorprese: una cassetta dell’intervista, prestata dall’ufficio pubbliche relazioni (leggasi: censura) del progetto, e una chitarra. Prima gli consegnò la cassetta, e lasciò che Roger guardasse l’intervista mentre gli rifaceva il letto e cambiava l’acqua ai fiori.

Quando Roger ebbe finito, Sulie disse allegramente: — Tua moglie si è comportata benissimo, mi pare. Ho incontrato Hagar Hengstrom, una volta. È una donna molto difficile.

— Dorrie stava molto bene, — disse Roger. Era impossibile leggere un’espressione sul volto ricostruito o captarla nei toni piatti della voce, ma le ali di pipistrello svolazzavano irrequiete. — Mi sono sempre piaciuti, quei pantaloni.

Sulie annuì e prese nota mentalmente: le larghe strisce laterali di pizzo lasciavano scoperta una gran quantità di carne. Evidentemente gli steroidi impiantati nell’organismo di Roger facevano l’effetto dovuto. — E adesso ho un’altra cosa, — disse, e aprì l’astuccio della chitarra.

— Vuoi suonare per me.

— No, Roger. Suonerai tu.

— Non so suonare la chitarra, Sulie, — protestò lui.

La ragazza rise. — Ho parlato con Brad, — disse, — e credo che resterai sorpreso. Non sei semplicemente diverso, vedi, Roger. Sei migliore. Le tue dita, per esempio.

— Cos’hanno le mie dita?

— Beh, io suono la chitarra da quando avevo nove anni, e se smetto per un paio di settimane i calli scompaiono e devo ricominciare daccapo. Le tue dita non hanno bisogno dei calli: sono abbastanza dure e salde per premere le corde in modo perfetto, fin dalla prima volta.

— Magnifico, — disse Roger. — Ma non so neppure di cosa stai parlando. Perché devo premerle?

— Così. Senti. — Sulie strimpellò un accordo in sol, poi in re e poi in do.

— Adesso prova tu, — disse. — Devi stare attento a una cosa soltanto: non usare troppa forza. La chitarra è fragile. — E gli porse lo strumento.

Roger passò il pollice sulle corde, come aveva visto fare da lei.

— Benissimo. — Sulie applaudì. — Adesso un sol. L’anulare sul terzo tasto della corda alta del mi… là. L’indice sul secondo tasto del mi. Il medio sul tasto del mi basso. — Gli guidò le mani. — Adesso suona.

Roger strimpellò e alzò la testa verso di lei. — Ehi, — disse. — Mica male.

Sulie sorrise e lo corresse. — Non «mica male». Perfetto. Ora, questo è un do. Indice sul secondo tasto della corda del si, il medio qui, l’anulare lì… Bene. E questo è un accordo in re: indice e medio sulle corde del sol e del mi, là, l’anulare un tasto più in giù sul si… Perfetto, di nuovo. Adesso dammi un sol.

Con sua grande sorpresa, Roger strimpellò un sol perfetto.

La ragazza sorrise ancora: — Visto? Brad aveva ragione. Appena impari un accordo, lo conosci: il 3070 lo ricorda per te. Basta che tu pensi «accordo in sol», e le tue dita lo eseguono. Adesso, — aggiunse, in tono di rammarico burlesco, — sei di circa tre mesi più avanti di dove mi sono ritrovata io la prima volta che ho provato a suonare la chitarra.

— È molto divertente, — disse Roger, provando tutti e tre gli accordi, uno dopo l’altro.

— È solo l’inizio. Adesso strimpella quattro battute: sai, dum, dum, dum, dum. Con un accordo in sol… — Sulie ascoltò, poi approvò con un cenno del capo. — Benissimo. Adesso fai così: sol, sol, sol, sol, sol, sol, sol, sol, la, la, sol, sol, sol, sol, sol, sol… Bene. Adesso ancora, ma questa volta, dopo la, la, fai re, re, re, re, re, re… Benissimo ancora. Adesso eseguili tutti e due, uno dopo l’altro…

Roger suonò, e Sulie cantò con lui: — Kumbaya, my lord. Kumbaya! Kumbaya, my lord. Kumbaya…

— Ehi! — esclamò Roger, felice.

Sulie scosse il capo, fingendosi avvilita. — Sono passati tre minuti da quando hai preso in mano per la prima volta la chitarra, e sei già un discreto accompagnatore. Ecco, ti ho portato un testo sugli accordi e qualche pezzo facile. Quando tornerò, dovresti essere già capace di suonarli tutti, e comincerò a insegnarti il pizzicato, il glissando e il martelletto.

Gli mostrò come si faceva a leggere la tabulatura di ogni accordo e lo lasciò soddisfatto, intento a decifrare le prime sei modulazioni del fa.

Appena uscì dalla stanza di Roger, si fermò per togliersi le lenti a contatto, si soffregò gli occhi e si diresse verso l’ufficio del direttore. La segretaria di Scanyon le fece cenno di passare.

— È soddisfatto della sua chitarra, generale, — riferì Sulie. — Un po’ meno soddisfatto di sua moglie.

Vern Scanyon annuì, e girò una manopola dell’apparecchio che stava sulla scrivania: dal microfono situato nella stanza di Roger arrivò il suono degli accordi per «Kentucky Babe». Scanyon lo spense. — So della chitarra, maggiore Carpenter. E la moglie?

— Temo che lui la ami, — disse Sulie, lentamente. — Va tutto bene, fino a un certo punto. Oltre quel punto, credo che siamo nei guai. Io posso tenerlo su di morale finché resta qui, ma poi se ne andrà per parecchio tempo e… non sono sicura.

Scanyon scattò, brusco: — Sputi l’osso, maggiore!

— Credo che sentirà la mancanza di sua moglie e noi potremo rimediare solo in parte. Va già abbastanza male adesso. L’ho osservato mentre guardava quella cassetta. Non muoveva un muscolo, concentrazione assoluta: non voleva che gli sfuggisse nulla. Quando sarà a sessanta milioni di chilometri da lei… Beh, ho registrato tutto, generale. Eseguirò una simulazione con il computer, e dopo, forse, potrò essere più precisa. Ma sono preoccupata.

Lei è preoccupata! — sbottò Scanyon. — Dash vorrà la mia testa se porto Torraway lassù e quello crolla.

— Cosa posso dirle, generale? Mi lasci eseguire la simulazione. Allora, forse, potrò dirle cosa possiamo fare.

Sulie sedette senza essere invitata e si passò le mani sulla fronte. — Vivere una doppia vita è pesante, generale, — dichiarò. — Otto ore come infermiera e otto ore come psichiatra non sono una cosa divertente.

— Dieci anni di servizio nell’Antartide è meno divertente ancora, — si limitò a osservare Vern Scanyon.


Il jet presidenziale raggiunse l’altitudine di crociera di 31.000 metri e accelerò al massimo… Mach 3 e qualcosa, una velocità grottescamente superiore anche a quella prevista per il CB-5 presidenziale. Ma Deshatine aveva fretta.

La Conferenza al Vertice di Midway si era conclusa con un insuccesso. Disteso sul divano con gli occhi chiusi, fingendo di dormire per non essere scocciato dai senatori che l’avevano accompagnato, Dash esaminò lugubremente le possibilità di scelta. Non erano molte.

Non aveva sperato molto dalla conferenza, che comunque era incominciata bene. Gli australiani avevano dichiarato che avrebbero accettato una collaborazione limitata della Nuova Asia Popolare per lo sviluppo dell’entroterra, purché venissero fornite adeguate garanzie, eccetera eccetera. I delegati della Nuova Asia Popolare si erano consultati sottovoce e avevano annunciato che sarebbero stati lieti di fornire le garanzie, poiché il loro unico, vero scopo consisteva esclusivamente nel contribuire a sopperire alle esigenze vitali di tutta la popolazione mondiale, considerata come un tutto unico indipendentemente dagli antiquati confini nazionali, eccetera. Dash aveva zittito i mormoni dei suoi consiglieri e aveva dichiarato che l’America si interessava alla conferenza solo per assicurare assistenza e buoni uffici ai due cari vicini, e non voleva nulla per sé, eccetera; e per un po’, per quelle due ore, era sembrato che la conferenza potesse portare a un risultato concreto, positivo.

Poi avevano cominciato a discutere i dettagli. Gli asiatici offrivano un’Armata del Suolo forte di un milione di uomini, più una quantità di navi cisterna che ogni settimana avrebbero portato dodici milioni di litri di liquame estratto dalle fogne di Shangai. Gli australiani avevano accettato il fertilizzante, ma avevano parlato di un massimo di cinquantamila asiatici per coltivare la terra. Inoltre, avevano fatto educatamente osservare, che siccome sarebbero stati sfruttati il suolo australiano e la luce solare australiana, quello che sarebbe cresciuto sarebbe stato grano australiano. Il rappresentante del Dipartimento di Stato aveva ricordato a Dash gli impegni americani con il Perù, e con una stretta al cuore Dash si era alzato per insistere nel chiedere almeno una concessione del 15 per cento del prodotto ai buoni vicini del continente sudamericano. E avevano incominciato a saltare i nervi, un po’ a tutti. L’incidente che aveva fatto precipitare la situazione era stato causato da un aereo spola della Nuova Asia Popolare, che era incappato in uno stormo di albatross a zampe nere mentre decollava dalla pista di Sand Island ed era precipitato in fiamme su un’isoletta della laguna, sotto gli occhi dei membri della conferenza raccolti sul giardino pensile del Holiday Inn. Allora erano cominciate a correre parole grosse. Il membro giapponese della delegazione della Nuova Asia Popolare aveva trovato il coraggio di dire ciò che fino a quel momento si era limitato a pensare: la pretesa americana di tenere la conferenza sul luogo di una delle battaglie più famose della seconda guerra mondiale era un deliberato affronto agli asiatici. Gli australiani avevano osservato che, siccome loro erano riusciti benissimo a controllare le popolazioni degli uccelli selvatici, non capivano come mai gli americani non fossero stati capaci di fare altrettanto. E dopo tre settimane di preparativi e due giorni di speranza, il solo risultato era stato un gelido comunicato per annunciare che le tre potenze avevano convenuto di proseguire le discussioni. Chissà quando. Chissà dove. Non molto presto.

Ma la verità, ammise Dash mentre si agitava irrequieto sul divano, era che quel confronto era avvenuto faccia a faccia. Qualcuno avrebbe dovuto cedere, e nessuno era stato disposto a farlo.

Si alzò e chiese il caffè. Quando glielo portarono, arrivò anche un biglietto scarabocchiato sulla carta intestata della Casa Bianca Volante, e firmato da uno dei senatori: «Signor Presidente, prima di atterrare dobbiamo sistemare la proclamazione delle aree disastrate.»

Dash appallottolò il foglio. Era il senatore Talltree, che aveva un sacco di lagnanze da presentare. Il lago Altus si era ridotto al venti per cento delle sue dimensioni normali, il turismo nelle Arbuckle Mountains era finito perché le cascate Turner non gettavano più acqua, la Fiera Statale di Sooner era stata abolita a causa delle tempeste di polvere. L’Oklahoma doveva venir dichiarata «area disastrata». Lui aveva da pensare a cinquantaquattro stati, rifletté Dash, e se avesse dato ascolto a tutti i senatori e a tutti i governatori, avrebbe dovuto proclamare cinquantaquattro aree disastrate. In realtà, vi era un’unica area disastrata. Si dava soltanto il caso che fosse grande quanto il mondo.

E io che me lo sono cercato, questo lavoro, si disse, quasi con stupore.

Pensare all’Oklahoma gli ricordò Roger Torraway. Per un momento ebbe l’idea di chiamare il pilota per dirottare l’aereo verso Tonka. Ma la riunione con i Capi di Stato Maggiore non poteva essere rinviata. Sarebbe stato costretto ad accontentarsi del telefono.


Non era veramente lui a suonare la chitarra, pensò Roger, ma era il 3070 che ricordava tutti i movimenti e comandava alle sue dita di fare ciò che decideva il suo cervello. Aveva impiegato meno di un’ora ad imparare tutti gli accordi del testo, e ad usarli con scioltezza. Qualche altro minuto per registrare nella banca dei dati il significato dei segnali del tempo: poi i suoi orologi ulteriori si erano impadroniti dei tempi e non aveva più dovuto preoccuparsene. Per quanto riguardava la melodia, imparò quale tasto su ogni corda corrispondeva ad ogni nota su un rigo musicale; una volta impressa sui nuclei magnetici, la corrispondenza tra la musica stampata e la corda pizzicata era stabilita per sempre. Sulie impiegò dieci minuti a mostrargli quali note dovevano essere diesis e quali bemolle: e da quel momento la galassia di diesis e di bemolle sparsi sul rigo al segno di chiave non gli incusse più spavento. Il pizzicato: per i sistemi nervosi umani, occorrono due minuti per imparare il principio e cento ore di esercizi prima che diventi automatico: pollice sulla corda del re, anulare sul mi alto, medio sul si, pollice sul la, anulare sul mi, medio sul si e così via. Ma due minuti d’apprendimento bastarono a Roger. A partire da quel momento i circuiti comandarono le sue dita, e l’unico limite al suo tempo fu costituito dalla velocità con cui le corde potevano produrre una nota senza spezzarsi.

Roger stava suonando a memoria un recital di Segovia, dopo averne ascoltato il nastro una sola volta, quando arrivò la telefonata del presidente.

Un tempo, Roger si sarebbe sentito invaso dalla soggezione e dalla gioia, ad una chiamata del presidente degli Stati Uniti. Adesso era una seccatura: lo costringeva ad abbandonare la sua chitarra. Ascoltò appena ciò che aveva da dire il presidente. Fu colpito dalla preoccupazione che leggeva sul viso di Dash, dai segni profondi che solo pochi giorni prima non c’erano, dagli occhi infossati. Poi si accorse che i suoi circuiti interpretativi esageravano ciò che vedeva per richiamare la sua attenzione sui cambiamenti; escluse i circuiti di mediazione e vide Dash com’era in realtà.

Comunque, era divorato dalla preoccupazione. La voce era tutta calore e cameratismo quando chiese a Roger come andavano le cose. Aveva bisogno di qualcosa? Era necessario prendere a calci qualcuno per sistemare le cose? — Va tutto benissimo, signor presidente, — disse Roger, che si divertiva a lasciare che i suoi occhi trasformassero il presidente in un Babbo Natale, con la barba bianca e il berretto rosso orlato di pelliccia, e un sacco di doni intangibili sulle spalle.

— È sicuro, Roger? — insistette Dash. — Non dimentichi quel che le ho detto: qualunque cosa voglia, basta che la chieda a me.

— Le farò un fischio, — promise Roger. — Ma vado benissimo. Aspetto con ansia il lancio. — E aspetto che tu molli il telefono, pensò, annoiato dalla conversazione.

Il presidente aggrottò la fronte. Gli interpretatori di Roger cambiarono immediatamente l’immagine: Dash era ancora Babbo Natale, ma nero come l’ebano e con zanne enormi. — Non è troppo sicuro di sé, per caso? — domandò Dash.

— Beh, e come potrei accorgermene, se lo fossi? — chiese Roger in tono ragionevole. — Ma non credo. Lo domandi allo staff, qui: quelli possono informarla sul mio conto molto meglio di me.

Riuscì a concludere la conversazione dopo un breve scambio di frasi; sapeva che il presidente era insoddisfatto e vagamente turbato, ma non gli importava troppo. Le cose che gli importavano diventavano sempre meno numerose, pensò Roger. E poi era stato sincero: aspettava veramente il lancio con ansia. Avrebbe sentito la mancanza di Sulie e di Clara. In fondo alla sua mente era lievemente preoccupato dei pericoli e della durata del viaggio. Ma era euforico al pensiero di ciò che avrebbe trovato al suo arrivo lassù: il pianeta di cui era diventato l’abitante ideale.

Riprese la chitarra e ricominciò con Segovia, ma non riuscì bene come avrebbe desiderato. Dopo un po’ si rese conto che il dono del timbro assoluto era anche uno svantaggio: la chitarra di Segovia non era stata intonata a un perfetto la 440, era bemolle di qualche Hertz, e la sua corda del re era quasi di un quarto di tono relativamente ancora più bemolle. Scrollò le spalle — le ali di pipistrello svolazzarono, a quel gesto — e posò lo strumento.

Per un momento restò seduto sulla poltrona che usava per suonare, con lo schienale diritto e senza braccioli, e lasciò campo libero ai propri pensieri.

Qualcosa lo turbava. E quel qualcosa si chiamava Dorrie. Suonare la chitarra era piacevole e rilassante, ma oltre quel piacere v’era una fantasticheria: lui stesso, seduto sul ponte di una barca a vela, insieme a Dorrie e a Brad, si faceva prestare con disinvoltura la chitarra di Brad e li sbalordiva tutti.

Misteriosamente, tutti i processi della sua vita culminavano in Dorrie. Suonare la chitarra aveva lo scopo di allietare Dorrie. L’orrore del suo aspetto stava nel fatto che avrebbe deluso Dorrie. Tutte queste cose avevano perduto in parte la loro carica di sofferenza, ed egli poteva esaminarle con una serenità che solo poche settimane prima sarebbe stata impossibile: ma erano ancora lì, sepolte profondamente dentro di lui.

Tese la mano verso il telefono, e poi la ritrasse.

Chiamare Dorrie non era abbastanza. Aveva già provato.

Ciò che voleva veramente era vederla.

Naturalmente era impossibile. Non era autorizzato a lasciare il palazzo del progetto. Vern Scanyon si sarebbe infuriato. Le sentinelle l’avrebbero bloccato sulla porta. La telemetria avrebbe rivelato immediatamente ciò che stava facendo: la sorveglianza elettronica a circuito chiuso l’avrebbe individuato ad ogni passo, tutte le risorse del progetto sarebbero state mobilitate per impedire che se ne andasse.

E chiedere l’autorizzazione era inutile. Neppure chiedendola a Dash: il massimo che poteva accadere era che il presidente impartisse un ordine e che Dorrie venisse recapitata nella sua stanza, costretta e furibonda. Roger non voleva che Dorrie venisse costretta a venire da lui, ed era sicuro che non gli avrebbero permesso di andare da lei.

D’altra parte…

D’altra parte, rifletté, che bisogno aveva del permesso?

Pensò per un minuto, assolutamente immobile sulla seggiola.

Poi ripose meticolosamente la chitarra nell’astuccio e si mosse.

Per prima cosa si chinò verso la parete, strappò una presa di corrente e vi infilò un dito. L’unghia di rame era solida come una moneta. Le valvole saltarono. Le lampade della stanza si spensero. Il dolce fruscio e gli scatti delle bobine dei registratori rallentarono e cessarono. La stanza divenne buia.

C’era ancora calore, e come luce era sufficiente, per gli occhi di Roger. Vedeva abbastanza bene per potersi staccare di dosso i cavi della telemetria. Uscì dalla porta prima ancora che Clara Bly, intenta a versare la panna in una tazza di caffè, si voltasse verso il ronzio del quadro dei monitor.

Roger aveva ottenuto un risultato migliore di quanto sperava: anche nel corridoio le luci si erano spente. C’erano alcune persone, lì fuori, ma nell’oscurità non potevano vedere nulla. Roger le superò e scese la scala di sicurezza a quattro gradini alla volta, prima che gli altri si accorgessero della sua fuga. Il suo corpo funzionava con scioltezza ed eleganza. Le lezioni di ballo imposte da Kathleen Doughty avevano dato buoni frutti: Roger scese le scale a passo di danza, varcò una porta con un plié, balzò lungo un corridoio e uscì nella fredda aria notturna prima che l’agente del servizio di sicurezza alla porta alzasse la testa dal televisore.

Roger era all’aperto, e correva sulla superstrada, verso la città di Tonka, a settanta chilometri orari.

La notte era rischiarata da luci che egli non aveva mai visto. In alto c’era una massa compatta di nubi, cumuli-strati che arrivavano veloci dal nord e dense nuvole più alte: tuttavia, riusciva a scorgere fiochi bagliori là dove filtravano le radiazioni delle stelle più fulgide. Ai lati della strada, la prateria dell’Oklahoma brillava lugubremente dello scarso calore residuo assorbito durante il giorno, punteggiata da chiazze luminose là dove c’erano case o fattorie. Le macchine, sulla superstrada, erano seguite da grandi piume di luce, luminose nel punto in cui uscivano dai tubi di scappamento, più rosse e cupe quando le nubi di gas caldo si espandevano nell’aria gelida. Quando entrò in città, Roger vide ed evitò i rari pedoni, tutti simili a luminose figure di Halloween, che splendevano cupamente del calore irradiato dei loro corpi. Gli edifici intorno avevano catturato un po’ di calore, alla fine della giornata, e altro ne riversavano dal riscaldamento centrale: e splendevano come lucciole.

Si arre’stò all’angolo della strada di casa sua. C’era una macchina con due uomini a bordo, parcheggiata di fronte alla porta. Un segnale d’allarme gli lampeggiò nel cervello, e la macchina diventò un carro armato, con l’howitzer puntato contro la sua testa. Non era un problema. Roger cambiò rotta e attraversò correndo i cortili posteriori, scalando staccionate e insinuandosi attraverso i cancelli; e arrivato a casa sua estroflesse le unghie di rame e si arrampicò su per il muro esterno.

Era ciò che voleva fare. Non soltanto evitare gli uomini a bordo della macchina ferma lì fuori, ma realizzare una fantasia: il momento in cui avrebbe fatto irruzione nella stanza di Dorrie passando dalla finestra, per sorprenderla… a far cosa?

Nella realtà, la sorprese mentre stava seguendo un film in seconda serata alla televisione. Aveva i capelli impiastricciati di crema colorante, ed era a letto, appoggiata ai cuscini, e mangiava tutta sola un piatto di gelato.

Quando egli spinse la finestra che non era bloccata ed entrò strisciando, Dorrie si girò verso di lui.

E urlò.

Non fu soltanto un grido: fu un’immediata crisi isterica. Dorrie rovesciò il gelato e schizzò giù dal letto. Il televisore cadde e si schiantò sul pavimento. Singhiozzando, Dorrie si appoggiò contro la parete più lontana, con gli occhi convulsamente chiusi, coprendoseli con i pugni.

— Scusami, — disse impacciato Roger. Avrebbe voluto avvicinarsi, ma il buon senso lo trattenne. Dorrie appariva molto indifesa e attraente, con quel giubbino trasparente e quelle mutandine da bikini.

Scusami,ansimò lei; lo guardò, distolse gli occhi e, brancolando, si avviò verso il bagno, sbattendosi la porta alle spalle.

Bene, pensò Roger, non aveva torto: si rendeva conto di quanto doveva essere sembrato grottesco, quando era entrato dalla finestra così all’improvviso. — Avevi detto che sapevi com’ero, — le gridò.

Dal bagno non giunse nessuna risposta: solo, un attimo dopo, lo scorrere dell’acqua. Roger si guardò intorno. La stanza era esattamente com’era sempre stata. Gli armadi erano pieni dei suoi abiti e degli abiti di Dorrie, come sempre. Negli spazi dietro ai divani, come sempre, non c’erano amanti nascosti. Roger non era molto orgoglioso di frugare l’appartamento come un cornuto medievale, ma non smise fino a quando fu certo che Dorrie era sola.

Il telefono squillò.

I riflessi fulminei spinsero Roger a staccare il microfono dalla nicchia quasi prima che risuonasse il primo ronzio, con tanta rapidità e brutalità che gli si deformò nella mano. Lo schermo scintillò e poi si spense di nuovo, poiché i circuiti erano collegati al sonoro. — Pronto? — fece Roger. Ma nessuno rispose: lui stesso aveva fatto in modo che nessuno potesse più servirsi di quell’apparecchio.

— Cristo, — disse. Non aveva avuto un’idea chiara di come sarebbe andato quell’incontro, ma era evidente che era incominciato molto male.

Quando Dorrie uscì dal bagno non piangeva: ma non parlò neppure. Andò in cucina senza guardarlo. — Voglio una tazza di tè, — disse, girando appena la testa.

— Non preferisci che ti prepari qualcosa da bere? — offrì Roger, speranzoso.

— No.

Roger sentì i suoni del bricco elettrico che veniva riempito, il fievole sussurro quando cominciò a sobbollire e, molte volte, un colpo di tosse. Ascoltò più intensamente e udì il respiro di sua moglie diventare più lento e regolare.

Sedette sulla poltrona che era sempre stata la sua preferita e attese. Le ali gli davano fastidio. Sebbene si innalzassero automaticamente sopra la sua testa, non poteva appoggiarsi alla spalliera. Si aggirò irrequieto nel soggiorno. La voce di sua moglie gli arrivò oltre la porta: — Vuoi un po’ di tè?

— No, — disse Roger. Poi aggiunse: — No, grazie. — In realtà gli sarebbe piaciuto moltissimo, non perché sentisse il bisogno di liquidi o sostanze nutrienti, ma per avere la sensazione di partecipare insieme a Dorrie ad un evento normale, compiuto tante volte in passato. Ma non ci teneva a rovesciarselo addosso proprio davanti a lei, e non aveva fatto molti esercizi con tazza e piattini e liquidi.

— Dove sei? — Dorrie esitò sulla porta, con la tazza in mano, e poi lo vide. — Oh. Perché non accendi una lampada?

— Non voglio. Tesoro, siedi e chiudi gli occhi per un momento. — Gli era venuta un’idea.

— Perché? — Tuttavia ella obbedì, sedette su una poltrona a fianco del falso caminetto. Roger sollevò la poltrona, con lei sopra, e la girò in modo che Dorrie fosse rivolta verso il muro. Si guardò intorno, cercando dove poteva sedersi: non c’era niente, o almeno niente che si accordasse con la sua nuova geometria, cuscini sul pavimento e divani, tutti scomodi per il suo corpo e le sue ali. Ma d’altra parte, sapeva che non aveva particolarmente bisogno di sedersi. Alla sua muscolatura artificiale non occorreva quel genere di distensione.

Perciò rimase in piedi dietro a Dorrie e disse: — Mi sentirei meglio se tu non mi guardassi.

— Lo capisco, Roger. Mi avevi spaventata, ecco tutto. Se non avessi fatto irruzione in quel modo dalla finestra! D’altra parte, io non avrei dovuto sentirmi così sicura di poterti vedere, voglio dire così, senza… senza farmi prendere da una crisi isterica, ecco quel che voglio dire.

— Lo so, che aspetto ho, — disse lui.

— Comunque sei sempre tu, non è vero? — chiese Dorrie al muro. — Anche se non ricordo che tu abbia mai scalato un edificio per infilarti nel mio letto.

— È facile, — disse Roger, approfittando di quello che era quasi un tentativo di scherzare.

— Bene, — disse lei, interrompendosi per sorseggiare il tè, — dimmi. Cos’è successo?

— Volevo vederti, Dorrie.

— Mi avevi vista. Al telefono.

— Non volevo vederti al telefono. Volevo stare nella stessa stanza con te. — Lo desiderava, e più ancora toccarla, sfiorarle la nuca e premere e accarezzare i tendini perché si rilassassero, ma non osava. Invece si chinò e accese la fiamma a gas nel caminetto, non tanto per il calore, quando per avere un po’ di luce, per aiutare Dorrie. E perché facesse un po’ di allegria.

— Non dobbiamo farlo, Roger. C’è una multa di mille dollari…

Egli rise. — Non per te e per me, Dorrie. Se qualcuno ti dà noia, chiama Dash e digli che io ho detto che mi stava bene.

Sua moglie prese una sigaretta da una scatola sul tavolino e l’accese. — Roger, caro, — disse lentamente. — Non sono abituata a tutto questo. Non mi riferisco solo al tuo aspetto. Questo lo capisco. È difficile, ma almeno sapevo come sarebbe andata, prima ancora che accadesse. Anche se non pensavo che toccasse a te. Ma non sono abituata al fatto che tu sia così… non so, importante.

— Non ci sono abituato neppure io, Dorrie. — Roger ripensò ai telecronisti e alle folle acclamanti quando era tornato sulla Terra dopo aver salvato i russi. — Adesso è diverso. Ho l’impressione di portare qualcosa sulle spalle… il mondo, forse.

— Dash dice che è proprio ciò che stai facendo. Metà di quel che dice è retorica, ma non penso che questo lo sia. Sei un uomo veramente importante, Roger. Sei sempre stato famoso. Forse è per questo che ti ho sposato. Ma era un po’ come se tu fossi stato un divo del rock, capisci? Era emozionante, però tu potevi sempre piantarla, se te ne stancavi. Ma questa volta, non credo che tu possa smettere.

Dorrie spense la sigaretta. — Comunque, — disse, — tu sei qui, e al progetto probabilmente saranno impazziti.

— Posso sistemare tutto.

— Sì, — disse lei, pensierosa. — Credo di sì. Di cosa dobbiamo parlare?

— Brad, — disse Roger. Non ne aveva avuto l’intenzione. La parola gli uscì dalla laringe artificiale, modellata dalle labbra ristrutturate, senza interventi da parte della sua mente conscia.

Sentì Dorrie irrigidirsi. — Che c’entra Brad? — domandò lei.

— C’entra che vai a letto con lui, ecco che c’entra Brad, — disse Roger. La parte posteriore del collo di Dorrie luceva cupamente, adesso, ed egli sapeva che se avesse potuto vederle la faccia avrebbe scorto l’intrico rivelatore delle vene. Le fiamme a gas che danzavano nel caminetto gettavano un piacevole arcobaleno di colori sui suoi capelli scuri: Roger osservò quel gioco, attentamente, come se non avesse importanza ciò che diceva a sua moglie, o che lei gli diceva.

Dorrie fece: — Roger, davvero, non so che fare. Sei arrabbiato con me?

Lui guardò in silenzio la danza dei colori.

— Dopotutto, Roger, ne avevamo già parlato anni fa. Tu hai avuto delle relazioni, e le ho avute anch’io. Avevamo detto che non erano importanti.

— Sono importanti, quando fanno male. — Roger ordinò alla vista di bloccarsi, e accolse l’oscurità come un aiuto al suo pensiero. — Gli altri erano diversi, — disse.

— Diversi come? — Dorrie era indignata, adesso.

— Diversi perché ne parlavamo, — continuò lui, ostinato. — Quando io ero ad Algeri e tu non sopportavi quel clima, era una cosa. Quello che hai fatto quando sei tornata a Tonka e quello che io ho fatto ad Algeri non ha influito sui nostri rapporti. Quando io ero in orbita…

— Non sono mai andata a letto con nessuno, quando tu eri in orbita!

— Lo so, Dorrie. Pensavo che era molto bello da parte tua. Lo pensavo, perché non sarebbe stato giusto, vero? Voglio dire, io di occasioni ne avevo poche. Il vecchio Yuli Bronin non era il mio tipo. Ma adesso è diverso. È come se fossi di nuovo in orbita, ma è peggio. Non c’è neppure Yuli! Non solo non ho una ragazza, non ho neppure l’armamentario per combinare qualcosa, se anche la ragazza l’avessi.

Dorrie rispose, depressa: — Tutto questo lo so. Che cosa posso dirti?

— Puoi dirmi che sarai una buona moglie! — ruggì il cyborg.

Questo la spaventò: Roger aveva dimenticato cosa poteva sembrare la sua voce. Dorrie si mise a piangere.

Tese la mano per sfiorarla, ma poi la lasciò cadere. A che serviva?

Oh Cristo, pensò. Che pasticcio. Lo consolava solo il pensiero che il colloquio si era svolto lì, nell’intimità di casa loro, non pianificato in anticipo, e segreto. Sarebbe stata insopportabile la presenza di chiunque altro: ma noi, naturalmente, avevamo intercettato ogni parola.

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