CAPITOLO 8

I

Oh, pensò Jackson. Si sentiva debole e schifato. Alzò gli occhi verso la porta dell’oggetto, poi guardò la scaletta. Gli pareva che anche un uomo esausto, stordito, sfinito dalla mancanza di cibo e di sonno e con un braccio inservibile avrebbe potuto salire. Tutto considerato. Guardò di nuovo la porta. Ma quella maledetta cosa non aveva maniglia. Bene. Si mosse e si avviò verso la scala.

Da quel punto, proprio sotto l’Oggetto, poté vedere due cose. Innanzi tutto era molto grande, e inoltre era lì da tanto tempo che i tre spuntoni su cui poggiava erano quasi diventati parte del suolo. Non sembrava più che fosse posato sul terreno. Aveva l’aspetto dei muri delle casupole intorno alla sua Spina, o della stessa Spina, in quanto a questo, come se fosse stato spinto dal basso in alto, Il suolo era un po’ rigonfio intorno agli spigoli, come se magari, di lì a una dozzina di dozzine d’anni, fosse destinato a smettere di reagire a quella crescita e a spianarsi, finalmente.

Jackson posò la mano illesa sul terzo gradino. Diede un lieve strattone, seguito da un altro più forte. La scaletta non cedette. Si vedeva che usciva dal fianco dell’Oggetto, lassù, immediatamente al di sotto della porta. E si vedeva una specie di snodo a ogni gradino, come se la scala fosse fatta per venire issata e ripiegata entro uno spazio ristretto. O per venire sospinta all’esterno con un calcio e lasciata a pendere lì fuori, quando era necessario. Ma se quelli erano cardini, non cedevano affatto. Jackson accostò l’orecchio alla scaletta, che aveva la stessa temperatura della sua pelle, e sentì qualcosa che ronzava. Bene, tutto ciò che poteva parlare doveva avere anche un cuore.

Jackson guardò il gruppetto degli amsir. Lo osservavano tutti con interesse considerevole. E c’erano altri amsir che si radunavano lassù: passanti e sfaccendati che avevano notato il nuovo essere in procinto di affrontare la porta parlante.

Uno di essi scese in picchiata, portandosi sopra la testa di Jackson. «Aah, Diavolo Bagnato! Arrampicati! Arrampicati!». Si librò all’altezza della porta e simulò tentativi falsamente disperati di aggrapparsi, finché riuscì a mantenersi a quella quota; poi ricadde, raddrizzò le ali, e le batté, risalendo di nuovo nell’aria. Jackson pensò che la beffa sarebbe stata molto più riuscita se l’amsir avesse veramente osato toccare la porta.

Jackson spiccò un salto, si aggrappò alla scaletta, puntò un piede sul gradino più basso e cominciò a salire.

Era strano: il metallo non era né freddo né caldo. Sebbene fosse costretto a servirsi solo delle gambe e di un braccio, non era faticoso come quando aveva dovuto scendere slittando e scivolando dall’orlo di quel mondo. Anzi, si sentiva piuttosto a suo agio. Un uomo poteva impiegare il suo tempo in cose molto peggiori che non salire una scaletta. Ma avrebbe voluto sapere cos’era l’Oggetto.

Ben presto arrivò abbastanza in alto per vedere gli amsir sotto di sé, a terra. Lo osservavano tutti, con le facce levate come griglie, per seguire la sua scalata, come se ognuno dei loro corpi fosse una Spina, e lui fosse il Sole.

Fino a quel momento, la scala era ragionevolmente distaccata dal fianco dell’Oggetto. Ma più Jackson saliva, più la curvatura dell’Oggetto si accostava alla scaletta che pendeva verticalmente. Ormai i suoi occhi erano a poche dita dalla fiancata: e vide qualcosa che non lo rallegrò affatto. C’erano macchie di grasso che riflettevano la luce nei colori dell’iride, lasciate da tutte le mani che s’erano strofinate lì, prima che lui venisse ad appoggiare il suo peso sul metallo ronzante.

Oh, pfu, si disse, e continuò a salire, fino a quando arrivò in cima alla scaletta. E lì c’era una porticina aperta, non troppo spessa e non troppo sottile, montata su cardini robusti, situata sotto la fessura, come per proteggerla contro ogni cosa che potesse venire lanciata dal basso. Quando la scaletta veniva ritirata, probabilmente lo sportello si chiudeva, senza lasciare segni più vistosi della porta sovrastante. Quando i suoi occhi arrivarono allo stesso livello, Jackson notò che c’era l’osso spolpato di un dito incastrato nella fenditura tra lo sportello aperto e il fianco dell’Oggetto. E nello stesso istante una voce, sopra la sua testa, ringhiò cavernosamente: «Ouwwetenshowneh. Qhhvvesshtaa pwourrtaah shii awpprreeh shwoulou peer l pehrrsowwnnuhlleh himmahnoh. Thwouhttii l auhlttriih shauhrannhoh dhaysstrouhttih ihndiishchriihminhautammennteh».

Jackson guardò la porta. Non accadde nulla. La porta cominciò a ripetere: «Ouwwetenshouwneh. Qhhvvesshtaa pwourrtaah…».

Jackson ridiscese la scaletta.

«È sconvolgente, no?», chiese l’Anziano.

«Sembra uno stomaco che parla», rispose Jackson. Si girò a guardare l’istruttore. «Cosa dice, secondo lui?». L’Anziano seguì la sua occhiata e alzò la punta di un’ala. L’amsir istruttore si fece avanti, fremendo per l’impazienza di parlare.

«Non lasciarti fuorviare dai ringhi e dai rombi. Li ho ripetuti a me stesso a tutte le velocità e con tutti i toni di voci, e li ho fatti ripetere da molti miei subordinati in modi diversi secondo le mie istruzioni. Ho fatto giudicare i diversi effetti da un gran numero di testimoni, e questi sono pervenuti a conclusioni unanimi circa il significato di questo tipo di linguaggio. Si ritiene», continuò, in tono fiero e deciso, «che innanzi tutto la porta emetta un suono corrispondente alla nostra espressione “prestate ascolto”. Segue poi un suono che è sicuramente la parola “oggetto”. Quindi ce n’è uno che equivale al nostro “portello”…».

«Stai zitto», disse Jackson, suscitando lo sgomento di alcuni e il divertimento dell’Anziano. «Vuoi dire che è solo un modo strano di parlare normalmente».

L’istruttore guardò Jackson come se fosse sul punto di mettersi a piangere, quasi fosse un contadino la cui figlia se ne fosse appena andata via ridendo insieme a un Honor. «È esatto».

«Vorrei capire bene. Parla come noi, ma ha una bocca strana, è così?».

«Sembra che sia così», disse l’Anziano.

«Bene, state a sentire», disse Jackson. «È una gran cosa. Ci sono gli esseri della vostra specie e ci sono gli esseri della mia specie, e adesso, all’improvviso, c’è una terza specie. E se è tutto collegato alle cose che sono qui fin dal principio del tempo, allora può darsi che questo Oggetto parli per conto di ciò che ha fatto cominciare il tempo. Può darsi che sia quello che ha fatto cominciare il tempo».

«Senti, fetente d’un Diavolo Bagnato… Non immischiarti di teologia!».

Il giovane amsir che l’aveva condotto lì aveva continuato a oziare per tutto quel tempo senza dire una parola. Jackson si sentì torcere dentro, nell’udirlo sbottare così, all’improvviso. Tuttavia, girò gli occhi verso il giovane con abbastanza calma da impressionarlo. «E adesso, cosa stai dicendo?».

«Lascia stare», disse l’Anziano al giovane guerriero. Forse era un affettuoso surrogato di «Stai zitto!». «È solo un essere ignorante. Senti, credo che qui sia tutto normale, quindi puoi andare a casa e dire al tuo stormo che adesso sei ben superiore a molti per quanto hai fatto oggi. Vai a casa. Subito».

Il giovane amsir si lanciò nell’aria. «Sono stato ricompensato!», disse con gratitudine all’Anziano, prima di avventarsi in verticale, come un dardo scagliato verso il Sole, gridando a piena voce: «Io sono superiore a molti! Io sono superiore a molti!». In alto, molto in alto, si avventò in orizzontale, e poi piombò in un lungo angolo verso una delle case su palafitte, continuando a gridare. Jackson udì la sua voce perdersi in lontananza.

L’Anziano guardò Jackson e si scrollò. «Dovrai stare attento a due o tre cose, oltre alle condizioni del tuo stomaco. Una è il fatto che, se ti urterai troppo con le superstizioni, qui non vivrai abbastanza a lungo per morire di fame. E non c’è molta speranza che qualcuna delle poche persone illuminate possa fare qualcosa per aiutarti».

«Qui abbiamo una situazione molto delicata», spiegò l’istruttore. «Vedi, noi sappiamo che ci sono due Spine, due mondi, due specie di esseri, e sappiamo che furono tutti creati nello stesso tempo. Gli uni devono essere buoni, gli altri malvagi. Ma, vedi, oltre questo punto ci lasciamo alle spalle la logica razionale e sconfiniamo nelle questioni di fede.

«Un grande profeta, che da giovanissimo io ebbi il privilegio di ascoltare in uno dei suoi ultimi sermoni, c’insegna che, poiché dobbiamo valutare in base alla fede il valore della nostra Spina, può essere altrettanto logico ritenere che ogni individuo crei da sé il bene o il male. Ma proprio per questo, il grande profeta venne fatto precipitare da una grande altezza, con le ali spezzate, da coloro che rifuggono da tali complicazioni etiche. La concezione più semplice consiste nel sapere che il mio mondo è buono e il tuo è malvagio, e che quindi la nostra gente è buona perché vive nel posto del bene.

«Noi che stiamo parlando qui, adesso, siamo tutti esseri ragionevoli… Ti riconosciamo un certo acume. Essendo ragionevoli, sappiamo che probabilmente è solo per un accidente della creazione che la tua specie e la mia non possono vivere l’una nel mondo dell’altra. Ma ti renderai conto che è molto difficile capirlo, per coloro che sono suscettibili e incolti».

«E puoi anche renderti conto», aggiunse l’Anziano, «di quanto sia stato coraggioso quel giovane: pur essendo tanto emotivo, ha corso il rischio di attendere ai margini del tuo mondo che una cosa indicibile malefica e ripugnante come te entrasse in contatto con lui. E questo escludendo il rischio di morte… Ma, del resto, nessuno crede nella morte». L’Anziano guardò Jackson con aria significativa.

Jackson si limitò a ricambiare l’occhiata. Innanzi tutto, non sapeva neppure cosa significasse «teologia». Fu l’apprendista istruttore a intervenire: «Guardatelo! Non dà segno di comprendere! Propongo la tesi che questi esseri non hanno il concetto del male originale!».

«E quindi sono innocenti?», esclamò furioso l’istruttore. «Taci! Taci!». Agitò le ali, saltellando convulsamente su un piede e sull’altro e sollevando un polverone. Era molto vecchio e irrigidito, e non impressionò molto Jackson, ma l’apprendista rabbrividì e si ritrasse a testa china. Si comportava come se fosse caduto mentre correva intorno alla Spina dietro Red Filson… L’instancabile, saggio, morto Red Filson. Ciò che ti rende stupido, pensò Jackson, è ciò che ti fa paura.

II

«Vedi», disse l’Anziano a Jackson, «noi riteniamo di dover scoprire quello che c’è dentro l’Oggetto. Lo riteniamo, con diverse misure di partecipazione». Lanciò un’occhiata all’istruttore, che era occupatissimo a passarsi le dita fra le trine per districarle. «Lo riteniamo per ragioni diverse, molto vicine ai nostri sentimenti. Ma è la nostra unica chiave della natura e della finalità della Creazione. Abbiamo studiato la Spina per molte generazioni, certo, ma è soltanto una macchina. Abbiamo scoperto solo come funziona e quali parti sembrano sul punto di usurarsi. Sembra che se ne stiano usurando parecchie. L’Oggetto, invece, parla. Forse dentro c’è qualcosa. Forse si potrebbe parlare al qualcosa che c’è dentro, con la bocca adatta».

«E con che tipo di linguaggio?», chiese Jackson.

L’Anziano annuì. «Ben detto. Nessuno afferma che non ci saranno problemi. Nessuno afferma che sarà facile trovare la soluzione. Ma dobbiamo pure cominciare. La situazione non migliora. Può soltanto peggiorare. Non possiamo permettere che continui così. Oh, vi sono molti della nostra specie che non se ne curerebbero mai fino all’ultimo momento, quando il cielo cadesse loro sulla testa. A loro interessa soltanto avere cibo da mangiare, acqua da bere, spazio per volare. E queste cose ci sono sempre state, quindi non immaginano che potrebbero finire. Ma noi sappiamo che la Spina può finire. Quindi, possono finire anche tutte queste cose… può venire l’ultimo giorno, per questo mondo.

«Vi sono alcuni di noi che non possono vivere contenti, sapendo questo, anche se forse sappiamo che potremo morire contenti molto tempo prima che diventi davvero necessario trovare le soluzioni da noi cercate. C’è una certa inquietudine, in certe menti, che sembra non comprendere il trascorrere del tempo. Quello che un giorno sarà reale per tutti, oggi è già reale, per loro».

Jackson ascoltava educatamente.

«Ora, io non ti voglio male, ragazzo. Se qui avessimo cibo che tu potessi mangiare, te lo darei… purché ritenessi che tu lavoreresti con impegno per aprire la porta, come lo faresti se stessi morendo di fame. Altri possono volerti male, ma io no. Io capisco che dentro, in fondo, siamo molto simili. E mi piace l’idea che tu sia strano. Anch’io sono strano, tra i miei». Indicò l’Oggetto. «È là che sono rimasto così storpiato.

«Non ero capace di starmene tranquillo. Tentai di arrampicarmi su per una delle sue gole, ma ero troppo goffo. Come tutti noi che non abbiamo bisogno del terreno per vivere, siamo goffi quando strisciamo. La goffaggine mi salvò la vita. Caddi al suolo. Il fuoco eruttò dalla gola… Per buttarmi fuori, immagino. Ma io mi stavo già trascinando via. Comunque, mi afferrò e mi buttò lontano. Ah: dissero che era la punizione per la mia stoltezza. Giacevo a terra urlante, e gli altri si raccolsero intorno a me ridendo e gridando. Allora capii che dovevo dominarli, altrimenti non avrei più potuto vivere qui.

«Devo molto all’Oggetto. Devo molto al fatto di essere strano. E dico a te, essere strano, che per te sarà meglio dovergli molto.

«Farò tutto ciò che dovrà essere fatto per costringerti a dare il massimo. Ti ricorderò, se non ci hai già pensato da solo, che tratta gli esseri della tua specie meglio di quanto tratti quelli della mia. La mia specie non può arrampicarsi sulla scaletta, né toccare la porta. Quando uno di noi ci si prova, dalla porta esce qualcosa che gli appiattisce le viscere, gli fa bollire gli occhi, lo scaglia immediatamente a terra, morto. Agli esseri della tua specie permette di morire di fame nel tentativo di entrare attraverso la gola o di forzare la porta».

L’Anziano gemette, dolorosamente. «C’è un’altra cosa. Dovrebbe darti speranza. Se l’Oggetto fu creato insieme alla Spina all’inizio del tempo, fu fatto, come la Spina, per esseri con un corpo come il tuo». L’Anziano si guardò per un attimo le mani tridattile che gli spuntavano dalle ali. «Quindi, ciò che c’è dentro e fa quel rumore probabilmente non ti tratterà come un nemico. Forse ti aiuterà. Perché non credere che là dentro ci sia cibo adatto a te? Che funzione ha un amico, se non offrire ospitalità? E credo che tu te la caverai bene. Sei molto simile a me, e se il mio corpo fosse come il tuo, credo che io me la caverei bene».

Ci scommetto che la pensi proprio così, si disse Jackson. «Vedi, credo che tu abbia ragione quando dici che siamo molto simili. C’è qualcuno che vive nella nostra Spina… Credo che potresti trascorrere molte ore felici con lui. A parlare. A confrontare i problemi. A scambiare pensieri».

Ma l’Anziano amsir sembrava non capire. Guardava Jackson come Jackson guardava coloro che usavano parole come «teologia». Bene, concluse Jackson, si poteva parlare, parlare e parlare di quanto si somigliavano sotto la pelle… Ma se eri diventato l’Anziano degli amsir, non potevi credere davvero che ci fosse qualcun altro meraviglioso come te.

Quand’ero bambino, pensò Jackson, credevo che ci fosse un mondo solo, e che l’unica cosa possibile in quel mondo fosse la caccia. Girò gli occhi sugli amsir, il cibo azzurro che non poteva mangiare, le case su palafitte, il cielo pieno di esseri svolazzanti, e l’Oggetto. Vorrei, pensò, vorrei essere ancora come quei contadini e quegli Honor, convinti che non ci sia nient’altro.

Era molto stanco. «Dormirò un po’», disse. Si sdraiò, si raggomitolò, e chiuse gli occhi mentre il braccio pulsava.

III

Caspita, il braccio faceva male. Si soffregò gli occhi, li aprì, e lo guardò. La mano era gonfia, in un cerchio pastoso intorno all’orlo inferiore della fasciatura. Quando si toccò la spalla, trovò un altro gonfiore. Si rotolò nella polvere, avvicinandosi all’Oggetto, si strofinò i capelli e la faccia, si passò la mano sulla bocca aperta e si leccò i denti. Vide che era di nuovo mattina. Aveva la pelle secca. Non riusciva a muovere i muscoli della faccia. Si mise seduto e vide l’Anziano amsir accanto a lui. «Uh! Vegliavi sul mio riposo?».

«Anche sul mio. Mi chiedevo che effetto avrebbe avuto un lungo riposo sulla tua riserva d’energia. Non sembri molto più sveglio».

Jackson si mosse. Aveva pianificato tutto. Adesso doveva girare dietro l’Anziano, agganciargli le braccia sotto le ali, per quel che poteva servirgli il braccio sinistro, e piantare il pollice destro contro la parte anteriore della gola dell’Anziano, stringendogli le altre dita intorno al collo. E così, pensava, avrebbe potuto cominciare a sistemarsi un po’ meglio. Non sapeva esattamente cosa avrebbero potuto fare gli amsir, ad esempio, per procurargli qualcosa da mangiare; ma lì c’era un intero mondo, pieno di esseri coraggiosi, forti, chiacchieroni, commestibili, abituati a fare tutto quel che ordinava l’Anziano. E se l’Anziano doveva fare quel che gli diceva Jackson…

Ma l’Anziano aveva avuto la preveggenza di impastoiare le caviglie di Jackson con una striscia di cuoio, mentre dormiva, e Jackson cadde.

L’Anziano sorrise. «Tra pochi giorni non sarà più necessario fare niente del genere. Allora ti sveglierai con un solo pensiero. Se è necessario, ti ricordo che la colazione è dentro l’Oggetto. Così ti darai da fare con impegno».

Mentre stava lì a terra, con la mente attraversata da mille pensieri, Jackson disse: «Credo più in te, come colazione, che in tutte le ipotesi sul contenuto di quel coso».

L’Anziano rispose: «È davvero sorprendente quello che potrai credere tra qualche giorno. Non è una condizione piacevole. Credo che proverai disgusto per te stesso. Non credo che ti piacerà più di quanto piacerebbe a me. Ti abbiamo lasciato dormire. Eccoti un po’ d’acqua», soggiunse, porgendo una piccola bolla di cuoio sigillato. «Questa possiamo dartela. Non ci scandalizzeremo… Io non mi scandalizzerò se te ne verserai un po’ sulla pelle. Il braccio ti fa male?».

«Grazie».

L’amsir fece un cenno e il dottore, che era alle spalle di Jackson, si fece avanti. Sciolse la fasciatura mentre Jackson beveva e fissava l’orlo del mondo attraverso le palafitte delle case. Quando il dottore ebbe finito di cambiare la fasciatura al braccio e tappò la bottiglia di liquido che bruciava, disse: «Il tuo braccio non guarisce. Lo perderai».

«Lo sapevo anche ieri», disse Jackson. Gettò a terra la bolla d’acqua. «Ecco qualcosa che puoi usare per indurmi a lavorare», disse all’Anziano. «Forse nell’Oggetto c’è qualcosa che può guarirmi il braccio. Una specie di vero dottore. Perché no? Se lì dentro c’è un banchetto che mi attende, può esserci anche la guarigione».

L’Anziano stava slegando la cinghia che bloccava le caviglie di Jackson; le ali l’impacciavano un po’, e si muoveva goffamente, ma ci riuscì. Jackson notò che c’erano due lancieri nelle vicinanze. Prima non contava che ci fossero o no, perché quando tenti uno scherzo del genere non stai a calcolare i rischi. Ma lui s’era lasciato sfuggire l’occasione, e adesso li notò. Restò immobile.

«E se non c’è la guarigione, perché non deve esserci qualunque altra cosa?», stava dicendo l’Anziano, mentre lavorava. «Davvero, perché no? Perché non dovrebbero esserci femmine, e tutti gli altri piaceri di tuo gusto? Perché non armi? E tu hai pensato che là dentro ci sono armi, no?». L’Anziano alzò la testa, con una luce furbesca negli occhi. «Oh, non ci hai pensato!».

L’Anziano si scrollò. «E perché no? Perché no? Se risolvi un mistero dell’inizio del tempo, perché non dovrebbero contenere tutta la sapienza, tutte le ricompense per un individuo strano e astuto? Allora potrai guardarci dall’alto di quella porta, tutte le mattine, e beffarti di noi. Pfu! Lascia che mostri la risposta». Mosse la punta di un’ala, e due lancieri spinsero avanti qualcosa, dalla direzione della Spina.

L’essere sorrise con fare accattivante a Jackson. Sorrise ai lancieri, sorrise all’Anziano, all’istruttore, a tutto. Jackson non aveva visto mai nulla che sembrasse tanto facile di compiacere.

Era un peccato che non avesse un aspetto, molto gradevole. Era alto all’incirca quanto lui e camminava, per così dire, come un uomo. Ma era difficile dirlo, perché era tanto floscio. Sembrava di pasta da pane, e aveva lo stesso colore. Non c’era una parte del corpo dove la pelle non pendesse in pieghe flaccide, eccettuata la sommità della testa, dove c’erano piccoli pseudopodi carnosi, semieretti, nel punto in cui sarebbe incominciata la cresta di trina di un amsir. Il resto della pelle grondava sull’intelaiatura di ossa e di carne, chiudeva parzialmente gli occhi, penzolava intorno ai rudimenti degli orecchi, formava una gorgiera floscia intorno al collo, pendeva in una breve mantellina dentellata intorno al petto e alla parte superiore delle braccia, formava un’altra piega sotto la vita e ricadeva sulle gambe. Se era di pasta da pane, era stato impastato da una massaia amsir con troppa acqua per preparare chissà quale dolciume.

E tutto questo lo deliziava. Le mani molli, con il mignolo più lungo delle altre dita, giocherellavano continuamente sulle cosce, le spalle e la faccia. Sembrava che amasse giocare con la propria bocca. Sorrideva tirandosi le labbra verso l’alto con gli indici, e lo faceva molto spesso.

L’Anziano guardò Jackson di sottecchi. Jackson stette al gioco. «E va bene… Che cos’è?», chiese.

«Oh, questo è Ahmuls», disse l’Anziano. «È un tipo d’essere che nasce tra noi di tanto in tanto. Lui è uno dei pochissimi che non sono morti molto, molto piccoli. Ecco, sua madre era una sciocca, e gli voleva bene. E ora le sono molto riconoscente. Capirai il perché. Ahmuls è molto amabile», disse l’Anziano, mentre l’essere gli si accostava, continuando a giocherellare. L’Anziano gli accarezzò la guancia. «Buongiorno Ahmuls. Ti voglio bene».

«Buongiorno. Ti voglio bene», disse Ahmuls, piuttosto chiaramente. Canterellò soddisfatto e accarezzò la guancia dell’Anziano.

«Ahmuls, questo è Jackson», disse l’Anziano, indicando.

«Jackson…», disse pensierosamente Ahmuls, aprendosi gli occhi con i pollici e gli indici e concentrandosi.

«Ahmuls, voglio che tu mostri una cosa a Jackson».

«Oh, sì».

«Molto bene», disse l’Anziano, carezzandolo di nuovo. «Ahmuls, colpiscimi quello». Indicò uno dei pali d’una casa, a una dozzina di dozzine di lunghi passi di distanza. Poi aggiunse, rivolgendosi a Jackson: «Come molti individui strani, Ahmuls doveva essere qualcosa di speciale, per non andare a fondo. È molto fiero delle cose che ha imparato a fare da solo. Dimostrano che lui si vuole bene, e poiché tutti noi ci vogliamo molto bene, quando facciamo qualcosa per questo genere d’amore siamo meravigliosi. Ahmuls…?». L’Anziano guardò l’essere con aria interrogativa.

Ahmuls si girò verso uno dei lancieri, tendendo il braccio flaccido. Non disse «per favore», né «ti voglio bene». Il suo gesto improvviso fu una richiesta sufficiente. Il lanciere non sembrò offeso. Lanciò il giavellotto, e Ahmuls l’afferrò a mezz’aria, con il pollice in basso e il braccio incrociato davanti al petto, ancora voltato di tre quarti rispetto al bersaglio. Poi, quando Jackson poté vederlo di nuovo chiaramente, Ahmuls si stava già riequilibrando in avanti, con i muscoli rilassati, e il giavellotto volava nell’aria in una linea assolutamente retta, ronzando. Jackson non aveva mai visto un oggetto che non s’incurvasse verso il basso, al termine del lancio. A una dozzina di dozzine di lunghi passi di distanza, la punta del giavellotto si piantò nel sostegno della casa con un klat!, una sferzata dell’asta metallica, e poi uno scricchiolio quando l’asta si spezzò, staccandosi dalla punta incastrata inamovibilmente. Nella casa ci fu un ribollire di esclamazioni indignate, e teste e corpi apparvero sulla soglia. Poi una voce scese dall’alto, compiaciuta non meno che scandalizzata. «Oh, Ahmuls!». E Jackson aveva visto cosa poteva fare l’amore.

L’Anziano disse: «Io voglio bene ad Ahmuls», e Ahmuls sorrise e sorrise.

Pfu!, pensò Jackson.

L’Anziano si fece avanti, afferrò dolcemente il braccio di Ahmuls. «Guarda, Jackson». Tese la pelle per un momento solo: e c’era il contorno di un braccio umano, prigioniero sotto quella carne che sembrava pasta cruda.

«Vedi», continuò l’Anziano, rivolgendosi a Jackson. «È anche per questo che voglio bene ad Ahmuls. Ma lascia che ti mostri un’altra cosa. Ahmuls, sali la scala. Mostra a Jackson che tu puoi salire la scala, Ahmuls».

Ahmuls riaprì di nuovo gli occhi, cercò, trovò le due cose che doveva. «Jackson», disse. «Scala». Soddisfatto, arrivò accanto all’Oggetto in due passi, a metà della scaletta in un balzo, e subito dopo fu in cima.

Restò con i piedi stretti sul gradino più alto, e la sola cosa che gli impediva di cadere riverso era il fatto che stava inclinato in avanti con le braccia protese, schiacciato con la faccia contro la superficie curva. Mentre la porta borbottava, strofinò la faccia sul metallo e mosse le palme appiattite in piccoli movimenti carezzevoli. Jackson alzò la testa con uno scatto del collo che gli ricordò dolorosamente la ferita al braccio, e sentì Ahmuls dire, con un filo di voce: «Ti voglio bene».

«Adesso scendi, Ahmuls», gridò l’Anziano. «Dunque, come vedi», disse a Jackson, «la porta crede che Ahmuls sia un essere della tua specie, perché non lo uccide. Certo, Ahmuls è molto stupido, quindi non c’è speranza che riesca mai ad aprire la porta. Ma è meglio per te, se ci pensi bene, perché se Ahmuls non fosse stupido, tu non mi serviresti. Comunque, Ahmuls entrerà con te, se aprirai la porta. Ne sa abbastanza per colpirti, se ti vede prendere un’arma. Gli è stato detto e ripetuto molte volte. Capisce qualcosa, se gliela si ripete diverse volte. Dentro è troppo viscoso per dimenticarla, dopo».

Ahmuls era tornato dall’Anziano. Si scambiarono altre carezze. «Ti voglio bene», dissero entrambi.

Jackson li studiava.

L’Anziano disse a Jackson: «C’è soltanto un modo in cui potresti impedire ad Ahmuls di attendere vicino a te sulla scala, mentre provi ad aprire la porta, e di seguirti all’interno. Dovresti storpiarlo adesso. Ho ancora bisogno di te, e non ho sostituti per Ahmuls. Non verresti punito, e avresti maggiori possibilità, se riuscissi a entrare. Quindi sono disposto a lasciarti tentare la sorte, adesso».

Jackson scrollò la testa e si avvicinò ad Ahmuls. Guardò diritto negli occhi socchiusi, mentre carezzava la guancia spugnosa. «Ti voglio bene».

Ma Ahmuls non ci cascò. Gli afferrò la mano con qualcosa che sembrava una macchina a cinque dita avvolta entro una coperta. Chissà come, il senso del tatto portò un messaggio al cervello di Ahmuls. «Niente buono», disse strofinando la mano di Jackson, prima di scostargli il braccio. «Molle».

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