CAPITOLO 18

Tanto per essere sicuro, Jackson diede un’ultima occhiata alla differenza tra l’opera di Perry e il suo disegno. Poi si girò e passò tra la folla. Molti cercavano di spingersi avanti e di guardare i due centri gemelli dell’attenzione. Gli altri lo fissavano a disagio. Alcuni sembravano infastiditi, altri avevano l’aria di non sapere esattamente cosa fare, ma nessuno capiva perché lui fosse così scosso. Riuscì a emergere dalla calca senza alcun contatto. Si asciugò il sudore dal volto e poi, guardandosi il palmo della mano sporco di carboncino, comprese che probabilmente s’era impiastricciato a dovere la faccia. Uscì e si fermò a guardare i padiglioni che garrivano allegramente nella brezza.

«Comp, voglio una nave».

«Questo è impossibile. Sarebbe disastroso. Conosci abbastanza la disciplina sperimentale per capirlo. Ascolta», disse Comp in tono suadente, «tu sei disperato. Ma è la conseguenza del fatto che non riesci a stabilire un’adeguata relazione con questa gente…».

«O sono loro che non riescono a stabilirla con me».

«Non c’è bisogno che ti agiti così. A proposito, non credo che tu sia quel grande artista che credi di essere. Credo che non ci sia una grande base razionale per scegliere fra te e l’individuo chiamato Perry. Quindi, il tuo disprezzo per il suo lavoro è fondato esclusivamente sulla tua convinzione emotiva di essere il portavoce migliore per quella certa rappresentazione della realtà. Forse hai ragione, ma una rappresentazione della realtà non vale più di un’altra. Perry potrebbe scegliere di rappresentare una parte del mondo di cui ha esperienza personale. Se lo facesse, il tuo tentativo di copiarlo, per quante attualità tu possa aver visto e per quanto possa sentirti in empatia, non sarebbe valido quanto il suo. Per questo sarebbe forse totalmente privo di valore? No, e Perry sarebbe scortese se lo affermasse. Sarebbe quasi imperdonabilmente sgarbato se lo dimostrasse in modo teatrale, come hai fatto tu. E poi, naturalmente, c’è il peccato più grave… Non sei riuscito a dimostrare quel che volevi».

«Al momento, tutto questo torna a tuo svantaggio. Ma, in effetti, sono tutte cose da cui è possibile riprendersi. Credo che tra poco troverai un modo di esprimerti soddisfacente per te e per la comunità. Be’, forse non tra poco. Ma entro un tempo ragionevole. Calmati… vai un po’ in giro. Impara quel che più ti piace. Intanto… ecco…». Gli exteroaffettori si posarono fuggevolmente su di lui e s’involarono. Era di nuovo pulito. Aveva la pelle lucida. Si massaggiò il gomito. Forse, un giorno, sarebbe divenuto completamente vuoto, dentro?

«Potrei proporre un corso sul Lancio col Bastone? O sull’arte? Voglio dire, potrei fare qualcosa, e dopo tu potresti fare un sondaggio e vedere se va bene o no. Forse basterebbe un semplice voto di maggioranza, e allora potrei aprire una scuola».

«Mi pare che l’abbiamo già insabbiato», disse Comp.

«Nessuno l’avrebbe insabbiato meglio», riconobbe Jackson. «Senti, c’è qualcun altro con cui parlare, in questo mondo, esclusi loro e quelli come loro?».

«Be’, ci sono io. Sono un conversatore inesauribile. E sono anche il docente migliore. Il numero delle cose che si possono apprendere da me è finito ma molto grande. Ti assicuro che, se lo vorrai, sarà un’occupazione che riempirà tutta la tua vita. Un campo di conoscenza in continua espansione. Al momento, per esempio, la telemetria necessaria per inviare gli exterocettori attraverso le distanze interstellari rappresenta un’utile…».

Jackson sogghignò, come aveva visto sogghignare l’Anziano. «E quando morirai, io potrò essere te».

«No! Io non morirò mai!».

«È quello che pensano tutti», sospirò Jackson. «Cosa sta facendo Ahmuls?». Si sentiva molto solo.

«Ahmuls è contento. Ecco…». Due exteroaffettori baciarono le palpebre di Jackson.

In un primo momento, credette che quanto vedeva fosse un rivoletto fuggitivo, liquido e bruno, tumultuante fra i sassi. Poi si accorse che era la veduta aerea di un’immensa pianura. Il punto di vista scese in picchiata come un falco, e Jackson piombò verso un branco di irsuti animali bruni, con le teste massicce, le spalle alte, gli occhi rossi, le corna, il lungo vello. Gli exteroaffettori gli premettero gli orecchi, e Jackson udì il tuono dei bisonti.

Dietro di loro, a balzi, veniva Ahmuls, silenzioso e deciso. Correva in un modo che rivelava che impegnava tutte le sue forze… ma, per Dio, come correva, con la pelle che gli si gonfiava alle spalle, sventolando dalla faccia e dalle spalle. La bocca era spalancata, e la punta della lingua era premuta contro l’angolo delle labbra.

«E la Riserva Naturale Medio-Americana», disse Comp. «Noterai che il paesaggio è stato leggermente modificato per adeguarlo alle esigenze di Ahmuls».

In effetti, le rupi affioranti di granito che adesso dividevano in segmenti il branco in movimento, e lo facevano riaffluire in una massa coesiva, prima che l’inseguimento di Ahmuls lo spaventasse di nuovo, erano coperte di licheni. Mentre passava di corsa accanto ad una di esse, Ahmuls tese una mano, ne strappò via un pezzo e se lo cacciò in bocca. Era impossibile comprendere se stava cercando di prendere gli animali per poterli uccidere, o se voleva semplicemente unirsi al branco. Ma nel disordine tumultuoso, i capi dietro di lui erano numerosi quasi quanto quelli che gli stavano davanti, e un paio di tori in preda al panico uscirono sbuffando e scalpitando da strettoie fra le rocce, rischiando di travolgerlo.

«Cosa farai, se lo schiacciassero?».

«Oh, non è un problema. Riceverebbe immediatamente adeguate cure mediche».

«Per tutto il resto della sua vita».

«È il mio dovere. Non si può permettere che i fattori accidentali interrompano il normale corso di qualcosa». Ahmuls sparì dalla vista di quei particolari exteroaffettori, quando corse dietro una rupe. «Vuoi che cambi soggettiva, oppure adesso vuoi guardare Durstine?».

Jackson aprì gli occhi, quando udì la voce di Durstine, davanti a lui: «Mi chiedevo quanto tempo sarebbe passato prima che venissi a cercarmi».

Era difficile passare dalla diretta a qualcosa che poteva vedere con i suoi occhi. Gli fu necessario un momento per organizzare il proprio cervello. Vide che lei portava una sorta di elmetto crestato, una maschera pallida e affilata sulla parte superiore del volto che lasciava scoperti solo il mento e le labbra rosse. Poi vide che era ancora vestita, a differenza dagli altri all’interno, semplicemente decorati. Durstine indietreggiò di un passo, avvolta in un turbine di veli bianchissimi che forse erano particelle di pigmento sospese nell’aria, o forse erano una stoffa meravigliosa.

Comunque, sembrava una stoffa meravigliosa, che si avvolgeva intorno al corpo, alla vita, si fissava di nuovo alle spalle e ai gomiti. Lei rise e balzò in punta di piedi, con le braccia prima allargate in linea retta con le spalle, e poi piegate ai gomiti per puntare verso di lui. Il movimento del corpo disperse l’abito in nastri di trina, rizzò la cresta della maschera e spalancò le ali bianche. Lei rise in un tintinnio argentino di gioia. «Vedi? Io sapevo esattamente cosa volevi! Sono tua, tua!», gridò, gettandosi con languore verso di lui.

Jackson ebbe appena il tempo di alzare le mani per afferrarle le spalle, e nel toccarla si sentì scuotere da un brivido. «Hai capito tutto a rovescio», disse, stordito. «Devo ammetterlo, è un risultato notevole».

«Cosa? Cosa?». Lei sussultava e si agitava sotto le sue mani. «Che cosa ti prende?».

«O tu o io», ammise Jackson, facendola girare per spingerla all’indietro attraverso la porta, per rimandarla al suo posto. Cosa avrebbe fatto Elmo Lincoln in un caso simile? «Vai. Vattene, mangani!», gridò, spingendola con forza, scagliandola indietro in un turbine di stoffa. Tremava di rabbia; e sentiva Comp che ridacchiava.

Si guardò intorno, minacciosamente. Non c’era niente intorno a lui che non fosse falso, e il cielo azzurro pieno di baluginii di ricettori. Non era stato mai, mai tanto furioso in vita sua, e Comp non la smetteva di ridere di lui. Cercò di colpire un’ape sfrecciante. Ma non era svelto come Ahmuls.

Si acquattò, rivolto verso la porta. Chi fosse uscito per primo avrebbe dovuto fare i conti con lui. Vedeva una nebbia rossa orlare la sua visuale, e nel contempo c’era quella terribile, meravigliosa chiarezza in tutto ciò che provava. Era un pretesto valido per qualunque cosa. Un uomo spinto a quel sentimento era un monarca, come lo era stato il Tyrannosaurus rex. Si mosse, con le cosce flesse e le braccia contratte come cavi metallici.

Timida e diffidente, Pall uscì dalla Spina. «Non arrabbiarti, Jackson», disse. «Lo so che sei sconvolto». Allungò la mano e gli toccò il pugno. «So cosa provi. Trattavano così anche me. Ma ho imparato a ignorarlo. E non mi sono arresa. Ho continuato a cercare di migliorarmi, e un giorno…». Abbassò gli occhi. «Quello che devi fare», spiegò, di slancio, «è… be’, imparare a esprimerti. Esprimere te stesso. Vedi, se impari ad avere fiducia in te stesso, in ciò che sei, se sei sicuro di quel che sei, allora… Be’, hai visto cos’è successo. Se hai fiducia… e amare qualcuno può darti quella fiducia, e anche soltanto ammirare molto qualcuno può darti molta fiducia… bene, allora puoi tirare diritto e fare tutto quello che fanno gli altri, pur continuando a esprimere te stesso, quindi vedi, ecco, è così che puoi far parte del gruppo e continuare a essere te stesso. Voglio dire, conoscere te stesso ti permette di far parte di un gruppo. E hai visto come mi hanno accettata, finalmente. Be’, ciò lo rende molto bello, perché d’ora innanzi saprò sempre che essere parte di un gruppo è l’unica cosa che ti permette di essere te stesso. E io posso darti la stessa cosa. Lasciami stare con te. Ti farà bene».

Jackson alzò lo sguardo verso la spirale di baluginii. «Lo vedi?», chiese. «Lo senti?».

«Certamente. Ti piacerebbe vedere una attualità in diretta di Petra Jovans?».

Jackson rabbrividì. «No. Non mostrarmi mai Petra Jovans».

Pall gli prese la mano e se la portò alla bocca. «Ti prego, Jackson», disse. «Io ti comprendo veramente».

Gesù santo, pensò lui. E poi pensò: per me stesso, io sono l’unico uomo sano di mente concepibile. E lei è abbastanza matta per assecondarmi, se la porto con me. «Oh, vieni», disse, tenendola per il polso, e allontanandosi dalla Spina.

Pall gli trottò graziosamente al fianco. «Dove andiamo?».

«Non lo so». Jackson passò tra i padiglioni, si avviò tra i campi. C’era una specie di sentiero fiancheggiato dalle siepi, e lo percorse. Gli exterocettori li accompag narono.

«Magnifico!», stava dicendo Comp. «La ricerca del Nuovo Eden! L’uomo e la sua compagna, nell’interminabile viaggio verso…».

«Merda», disse Jackson.

Pall lo fissò. «Perché?».

Perché? Doveva essere sempre per qualcosa, no? Jackson scosse la testa. «Vuoi sapere davvero? Vuoi davvero che io mi esprima, giusto?».

Lei annuì. «Certamente».

D’accordo. Jackson esordì: «Il pavimento del mondo è increspato come il fondale di un oceano e si estende fino agli orli. Gli orli si ergono alti e crudeli. Al tramonto, l’orizzonte occidentale è la parete più lontana del cratere. È nero. Nerazzurro…».

«Magnifico! Meraviglioso!», mormorò Comp al suo orecchio, in tono d’ammirazione. «Perdonami. Credevo che avresti prodotto soltanto una specie di cliché. Qualunque tuo cliché sarebbe ammirevolmente drammatico, certo, di grande richiamo. Ma non devi credere neppure per un istante che io non sappia apprezzare il suono crudo e onesto della verità viscerale. Non ha un pubblico altrettanto numeroso, certo, ma va benissimo. Non scendere a compromessi. Non inzuccherarlo solo perché vuoi che piaccia a lei. Toni echeggiami, ragazzo! Racconta com’era!».

«…E tu al mio fianco nel deserto», mormorò Jackson, mentre Pall gli trottava al fianco, con gli occhi lucenti come exterocettori. Jackson disse: «La luce del sole colpisce all’orlo superiore del cratere, che è color ruggine. Forma un lungo arco color ruggine che sembra abbassarsi a sinistra e a destra, come una muraglia, o un arco, o la scia di qualcosa che è saettata a tua insaputa da un orizzonte all’altro, e tu puoi vedere soltanto quella scia. Ci sono rocce, sul fondo del cratere. La luce del sole che le investe, un attimo prima di spegnersi, le colora d’arancio. Lassù si librano le stelle, dure e brillanti».

«Questo è l’orizzonte verso il quale ti dirigi, quando vai a caccia di amsir».

«In principio, io seguivo quell’uccellaccio…».


FINE
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