CAPITOLO 7

I

«Dovrai scendere», disse l’amsir, mostrando a Jackson un punto dell’orlo, dove si scorgeva qualcosa che sembrava un sentiero. «Puoi lasciare qui quella roba. Verranno a prenderla».

Jackson lasciò cadere la roba a terra e quando l’amsir, con fare negligente, gli toccò con la punta del giavellotto la calotta di ferro, Jackson si tolse anche quella, e la depose sul mucchio. Gli restavano soltanto il dardo, ancora incastrato nella giuntura del gomito sinistro, e il laccio emostatico di pelle umana. Alzò le spalle e cominciò a scendere. Per arrivare sul fondo c’era un dislivello sei o otto volte maggiore della sua statura.

L’amsir fece qualcosa che doveva dargli un grande piacere. Si lanciò da una punta dell’orlo, piegò le ali a coppa, e volteggiò trionfalmente, in modo da poter continuare a tener d’occhio Jackson mentre scendeva. Di tanto in tanto batteva le ali un paio di volte, con eleganza, per non precipitare troppo rapidamente.

Per Jackson, la discesa non era altrettanto piacevole. Doveva arrangiarsi con una mano sola, e molto spesso era costretto a puntellarsi con la faccia o il petto nella ghiaia, per non scivolare. Un maledetto guaio, no?

Cominciò a imbattersi in chiazze della bella sostanza verdazzurra che aveva visto riempire il fondale di quel mondo, fino all’orlo. Era molliccia e fragile. Si frantumava e gli aderiva alla mano e al corpo, quando lui strusciava contro le rocce su cui cresceva. Aveva un odore forte, come la pasta per pane invecchiata, e si staccava in minuscole foglioline. Jackson non aveva mai visto nulla di simile. Sebbene dall’alto dell’orlo sembrasse bellissima, laggiù somigliava molto a qualcosa che avesse fatto vomitare qualcuno.

Scese sul fondovalle piatto, con una torsione che lo lasciò appoggiato contro le rocce, alla base dell’orlo. Da lì, c’era soltanto un declivio dolce per una dozzina di dozzine di lunghi balzi, e poi il terreno si appiattiva. Già da quell’angolo, la vista della Spina degli amsir era ostruita quasi completamente dalle case sulle palafitte. Così, la città sembrava un po’ diversa, meno dispersa e piuttosto affollata.

L’avambraccio sinistro e la mano stavano diventando di un bianco violaceo. L’amsir scese leggero a pochi passi da lui, quando si fermò per allentare il laccio sopra il gomito e si chinò a guardare il sangue che sgorgava intorno al dardo. Tentò di muovere le dita. Poi usò la mano destra per premere sulle dita rigide. Dopo un poco, riuscì ad accostare leggermente il pollice e l’indice. E gli cominciavano a dare l’impressione che li stesse tenendo sul fuoco. Strinse di nuovo il laccio di pelle.

L’amsir chiese, incuriosito: «Quanto tempo ci vorrà perché guarisca?».

«Non so. Molto tempo, credo. Te lo saprò dire dopo che qualcuno mi avrà aiutato a estrarre il dardo».

«Noi abbiamo gente capace di farlo. Ma non intendevo dire quanto ci vorrà prima che ritorni perfetto. Secondo la tua esperienza, entro quanto tempo potrà riprendere a funzionare?».

«Senti, non lo so. Sei, nove giorni. Forse dodici. Forse tre».

«Tre…», ripeté pensieroso l’amsir. Squadrò Jackson dalla testa ai piedi. «Non prima?».

«Senti, te l’ho detto…». Jackson s’interruppe e desistette. La gente non credeva mai a niente che non avesse toccato con mano, e l’amsir non aveva un dardo nel gomito. L’amsir se ne stava lì, con le trine a svolazzargli intorno nella brezza che saliva verso l’orlo, lungo il pavimento del mondo, e svaniva su per le rocce. Jackson si accorse che qualcosa era cambiato, nella faccia dell’amsir: vide che c’erano due aperture corrugate, dove sarebbero state le narici di un uomo se il suo labbro superiore fosse stato il becco di un amsir. E sentiva l’aria che usciva ed entrava, sibilando. L’amsir era sopravvento rispetto a lui e, adesso che l’aveva notato, Jackson sentiva l’odore dell’aria vecchia che fuoriusciva dalle bolle pettorali.

«Vieni», disse l’amsir, con un movimento del giavellotto. «Non abbiamo tempo da perdere. Devi andare alla torre». Indicò con le punta di un’ala. Jackson capì che si riferiva alla Spina. «Dovrai camminare attraverso i campi», disse l’amsir, lanciandosi nell’aria per volteggiare guardingo intorno a Jackson. «Noi non facciamo strade».

Voi non fate molti prigionieri, pensò Jackson. È davvero un gran giorno.

Si fermarono brevemente, una volta, alla più vicina delle case su palafitte. Era fatta di una sostanza dura come il corno, ma tutta scalfita e vecchissima: sembrava che un tempo avesse avuto una quantità molto maggiore di particelle di quel suo colore giallovivo. L’amsir si lanciò più in alto, si aggrappò a una delle sporgenze con gli artigli e una mano. Poi alzò l’altra mano e tirò il cerchio oscillante della linea che collegava la casa a quella accanto. Jackson udì una campana tintinnare all’interno. Clang, pausa lunga, clang clang, pausa breve, e poi altri clang e altre pause spaziate.

Il suono si confuse negli orecchi di Jackson. Appena il filo ebbe trasmesso il messaggio dell’amsir alla casa vicina, sentì un’altra campana, là dentro, echeggiare il suono. Poi lo udì di nuovo, più debolmente, nella casa più oltre e poi, molto fioco, in distanza: procedeva sempre in direzione della Spina. L’amsir smise di tirare e attese. Dopo un po’, Jackson udì un suono che ritornava lungo le corde, dalla Spina. Quale che fosse, fu una risposta breve. L’amsir annuì soddisfatto e con il giavellotto accennò a Jackson di proseguire.

«Bene, adesso affrettati», gli gridò dall’alto. «Ti stanno aspettando».

Altri amsir s’erano accorti della loro presenza. Alcuni uscivano dalle porte delle case, si lanciavano nell’aria e scendevano volteggiando per dare un’occhiata a Jackson. Altri (donne e bambini, almeno si comportavano come avrebbero fatto le donne e i bambini dei contadini) si tenevano aggrappati agli stipiti delle porte.

Si formò una specie di processione, Jackson a terra e tutti gli abitanti in volo. Gli amsir lanciavano richiami l’uno all’altro, e ai familiari nelle rispettive case. E i familiari rispondevano. C’era un gran baccano nell’aria, e ombre e colpi di vento al suolo. Jackson provò a sconcertarli camminando sotto le case anziché intorno, ma là sotto c’era troppo letame, e non ritentò una seconda volta. Procedeva a testa china, cercando di non urtare il braccio, canticchiando una canzoncina che sua madre gli aveva insegnato e aveva amato sentirgli ripetere.

«Ah, quando sarò un Honor, / E andrò in cerca di selvaggina, / La gente della terra loderà il mio nuovo nome. / L’Anziano mi raserà / E mi darà un nuovo nome / E la gente del ferro banchetterà con la mia selvaggina. / Le bestie della sabbia / Avranno paura di me. / L’Honor del ferro / Avrà un nome nuovo!

Ritornello: Talordims zasherparda / Ishalna twan / Talordims zasherparda / Ishalna twan!».

Prima ancora che lui arrivasse ai piedi della loro Spina, gli amsir erano quasi fuori di sé per l’eccitazione; fra i richiami e le grida e il frullo delle ali, lui avrebbe potuto rovesciare la testa all’indietro e urlare con tutta la forza dei polmoni, e chi l’avrebbe sentito? Esattamente. Chi l’avrebbe sentito? A lui faceva piacere canticchiare, e poi era digustato dal modo in cui si comportavano gli amsir.

C’erano guardie all’ingresso della Spina, e ululavano e agitavano i giavellotti per deferenza verso il suo amsir, che aveva portato un umano. C’erano folle rumorose che piombavano già dall’aria e si intruppavano dietro di lui e il suo amsir e avanzavano verso l’entrata. Ma soltanto Jackson e il suo amsir vennero ammessi, e la porta si chiuse di scatto dietro di loro; rimasero per un momento in silenzio, e poi Jackson fu spinto avanti, lungo il corridoio, verso la stanza dov’erano attesi. All’improvviso c’era un gran silenzio. Jackson si sentì sospingere nella stanza, e oltre ad altri amsir di vari tipi e grandezze ce n’era uno che stava acquattato e che girò la testa sul collo storto.

«Scoprirai che siamo più svegli della tua specie. Come devo chiamarti?», chiese. «“Diavolo bagnato” è troppo rispettoso, e “Uomo” è ambiguo. Quale è il tuo nome personale?». Be’, se non era il loro Anziano, era un equivalente.

II

«Il mio nome è Honor Red Jackson», disse lui al vecchio amsir accovacciato. Forse non era poi tanto vecchio. E non era esatto neppure dire che era accovacciato: stava chino, con le gambe piegate, e appoggiava parte del peso sulle punte delle ali.

«Hanno un complesso sistema di nomi», disse prontamente un altro amsir, vecchio e più magro. C’erano parecchi amsir nella stanza, incluso uno che aveva l’aria di essere un dottore. Quest’ultimo si fece avanti e gli sbirciò il gomito. Poi cominciò a esaminarlo, rigirando le ossa nude e spolpate d’un braccio umano che teneva in una mano. Jackson si augurò che capisse in fretta cosa doveva fare per estrarre il dardo.

«Honor indica la sua posizione nella comunità», stava ancora spiegando quello magro. «Significa che vive esclusivamente dando la caccia a esseri come noi. Red significa che, oltre a essere cacciatore, ha adempiuto anche il compito opzionale di uccidere un essere della sua stessa specie. Jackson vuol dire semplicemente che è figlio di un altro maschio di nome Jack. Per essere così poco numerosi, hanno una sorprendente varietà di rituali. Non so immaginare come distinguano due fratelli dall’identica posizione sociale… Con questo, non dico che non lo facciano. Sono sicuro che li distinguono».

L’Anziano amsir borbottò a quello magro: «Ti prego, non fornirmi altre etichette. Forse loro dovranno distinguere, ma noi non ne abbiamo mai tanti da doverlo fare. Dimmi che cosa è, non che cosa rappresenta».

«Te lo sto appunto dicendo. È significativo che sia così giovane, che abbia le cicatrici recenti di un combattimento con uno della nostra specie, il che indica che ha ucciso uno dei nostri, e poi le cicatrici ancora più recenti del combattimento con uno della sua specie. Questo è strano, ed è avvenuto prima che compisse un gesto ancora più strano e si arrendesse volontariamente». L’amsir magro guardò Jackson con fierezza, come se l’avesse portato lì lui.

«Più è strano, meglio è», scattò l’Anziano. «Con quelli normali non abbiamo avuto fortuna».

«È esattamente quel che intendevo», ribatté il consulente.

«E allora perché non l’hai detto subito?».

«Pfah! L’ho detto».

«Soltanto dopo. Esci. Attendi che ci sia bisogno di te». L’Anziano indicò con la testa la porta, e l’istruttore uscì. L’Anziano rivolse tutta l’attenzione verso l’estremità della stanza in cui si trovava Jackson. «Tu, dottore… Avanti». Si avvicinò di qualche passo; non sembrava più vecchio, adesso che era meglio illuminato dalla luce che entrava dalle strette feritoie della Spina. Le trine sbrindellate e l’ala accartocciata, notò Jackson, erano ridotte così a causa di qualche lesione. Era coperto di cicatrici e di chiazze. Sembrava che fosse stato preso e sbattuto con forza contro qualcosa di molto duro, che avesse perduto molti brandelli di pelle e si fosse fratturato parecchie ossa. Ma appariva autorevole come un Anziano, e questo turbava Jackson. Non gli andava l’idea che qualcuno fosse tanto carogna, lì dentro, da essere un Anziano, e nel contempo non fosse neppure un po’ rimbambito.

«Tu, Jackson… Io sono superiore a tutti gli altri, qui. Nessuno degli esseri della mia specie ti dirà che abbiamo tempo, quindi dammi risposte svelte e precise. Mi è stato riferito che tu eri pronto ad arrenderti quando ti ha trovato il giovane che sta accanto alla porta. Questa è una cosa nuova. Spiegati».

Il dottore posò una mano sul bicipite di Jackson, l’altra sull’avambraccio, e strinse nel becco l’estremità piumata del dardo piantato nel gomito. I suoi artigli strusciarono sul pavimento metallico per far presa.

Jackson pensò che fosse meglio non badargli. «Non mi piaceva dove stavo», disse all’Anziano. «Ho deciso di andare a scoprire quali erano le menzogne. E magari di inventarne altre tutte mie, se fosse stato necessario».

«Pfu. Le menzogne richiedono vita. Tu non vivrai».

«Vivrò fino al momento in cui morirò. Oh, diavolo!», urlò, quando il dottore ritrasse la testa di scatto, torcendogli il braccio. Il dardo si sfilò dalla ferita, restò appeso per un istante nel becco del dottore, fino a quando questi non lo lasciò cadere. La mano si chiuse alla meglio sopra il gomito: le dita dell’amsir non erano abbastanza lunghe per cingere il braccio. Jackson cercò di aiutarlo, mentre la vista gli si offuscava.

«Io credo che tu pensassi di poter dare la caccia a noi come noi la diamo a voi», disse l’Anziano. «Credo che fossi convinto che c’era un altro mondo dove gli esseri come noi erano le prede. Credo che pensassi di conoscere un modo di procurarti la roba da respirare. Sei giovane. I tuoi giudizi sono romantici. Credevi che, siccome eri un po’ strano e facevi paura ai tuoi simili, avresti fatto paura anche a noi».

Jackson continuò a stringersi il braccio, barcollando ad occhi chiusi. Ma aveva lo spazio sufficiente, dentro, per pensare quanto era meraviglioso il fatto che tutti, amsir inclusi, credevano di sapere tutto solo perché sapevano qualcosa.

«Bene, non è affatto così, essere», continuò l’Anziano, mentre il dottore stappava una boccetta di pietra, piena di qualcosa che sembrava acqua ma bruciava come il fuoco sul gomito insanguinato, e poi cominciava ad avvolgere una lunga, stretta striscia di pelle sottile attorno al braccio, dalla spalla al polso. «Sotto certi aspetti, tu stai a noi come gli esseri come noi stanno a voi. Noi non possiamo respirare la sostanza che c’è intorno ai vostri campi. Ad ogni boccata si assorbe il pulviscolo di quello che voi coltivate. Moriamo, bellamente, diresti tu, al primo respiro. I nostri muscoli si contraggono fino a spezzare le ossa, la spina dorsale si frattura, una lanugine verde riempie i nostri polmoni. Almeno così dicono i nostri istruttori, perché da moltissimo tempo non abbiamo più tentato di farlo.

«Ah! Noi moriamo se respiriamo l’aria che passa sulla roba che voi mangiate. Questo è ciò che mangiamo noi». Tese un’ala, indicando un angolo dov’era ammucchiata la sostanza azzurra e friabile che Jackson aveva visto nei campi. «È roccia. È il nutrimento per le creature delle ali e dello spirito. Tu puoi mangiare la roccia? Nessuno della tua specie c’è mai riuscito. Morirai bellamente. Il tuo stomaco si contrarrà, le ossa spunteranno dalla pelle. Verso la fine cercherai di azzannarci, e noi ti cacceremo a calci. Morderai te stesso. Tenterai di ritornare alla tua Spina velenosa, e noi ti rimanderemo a calci al tuo lavoro. Vivrai in tutto trenta giorni, forse, o forse meno. Forse forse vivrai un po’ di più. E forse forse forse sarai di nuovo felice prima di morire. Dipende: se saprai fare le cose in fretta e bene. Dipende: da quanto sei strano, e soprattutto se sarai più fortunato di tutti gli altri esseri della tua specie che abbiamo avuto qui. E adesso», concluse, indicando con la testa il braccio fasciato di Jackson, «tra quanto credi di poterlo usare per lavorare?».

Jackson provò ad alzare il braccio. Pulsava dolorosamente, e sembrava fatto di una stecca massiccia d’osso. «Grazie, dottore», disse all’amsir che se ne stava in disparte e l’osservava con aria critica.

Jackson tentò di muovere la mano. Non ci riuscì. Cominciò a batterla contro la coscia, per ristabilire la circolazione nelle dita. «Che genere di lavoro?», chiese all’Anziano.

«Te lo mostrerò». L’Anziano indicò la porta. «Svolta a destra, appena uscito».

III

Jackson obbedì. L’Anziano e il giovane che l’aveva catturato lo seguirono. Anche il dottore fece per andargli dietro, ma l’Anziano voltò la testa e disse: «Tu no». Il dottore si affrettò a girare su se stesso e si diresse frusciando verso la luce, nella direzione da cui era entrato Jackson.

Il corridoio si addentrava nella Spina degli amsir. Era stretto, e di tanto in tanto c’erano luci accese dietro pannelli traslucidi, nel soffitto. Era come camminare attraverso le costole di qualcosa; ogni tanto arrivavi a una centina ovale che saliva lungo le pareti e attraversava il soffitto. C’era sempre una porta accuratamente ripiegata contro la parete. A metà percorso, tra due di quelle porte, ce n’era un’altra abbastanza simile, ma inserita nella parete alla sinistra di Jackson. Quelle erano chiuse; qualche volta, dietro c’era una luce che filtrava attraverso una finestrella ovale, e qualche volta non c’era. Qualche volta uscivano particolari suoni di macchine in funzione; qualche volta c’era soltanto il suono generale della Spina, più forte e sano della Spina di Jackson. Ma nessuna delle porte gli diceva nulla.

Il corridoio s’incurvava un po’ di qua e un po’ di là; qualche volta girava bruscamente. Dai suoni che diventavano più forti e poi cominciavano ad attutirsi alle sue spalle più o meno con lo stesso ritmo, Jackson intuì che era una specie di sentiero, usato per attraversare la Spina senza doverle girare attorno. Per tre volte arrivarono a scalette che occupavano quasi la metà dello spazio del corridoio e sparivano oltre botole rotonde del soffitto. Due erano chiuse, e i gradini erano opachi e lisci. Sopra la terza scala c’era un’apertura nera e rotonda, e i gradini erano tutti scalfiti. C’erano chiazze lustre sulla parete, accanto alla scala, dove le ali degli amsir s’erano strusciate chissà quante volte. Jackson cercò di immaginare un amsir che saliva una di quelle scalette, mentre guardava come dovevano muoversi adagio per girarle intorno e continuare a procedere per il corridoio. Quel posto non era molto comodo per loro. Bene, non era comodo neppure per lui, ma non c’era altro.

Arrivarono in un’alta camera che si apriva sull’esterno. C’erano altri due amsir: un giovane grassottello e l’istruttore.

«Glielo mostri adesso?», chiese quest’ultimo all’Anziano.

«Non diventerà certo più forte con il passare dei giorni».

«No… O, almeno, non è mai stato così per nessuno di loro. Ma, vedi, hanno la capacità di accumulare energia. È sorprendente, a pensarci bene. Almeno, non abbiamo mai visto nessuno di loro portarsi il cibo nel deserto, e sappiamo senza ombra di dubbio che qui sono riusciti a funzionare senza nutrimento per periodi considerevoli. E invece, stentiamo a trovare individui della nostra specie capaci di resistere senza cibo per un giorno soltanto…».

«Ciò cui si riferisce il dotto che mi è tanto superiore», interruppe il giovane amsir che era con l’istruttore, «è che forse questi esseri barattano il tempo con l’energia. Forse passano in una sorta di stato di sopravvivenza che permette una protrazione del consumo d’energia mantenendo un basso livello di attività fisica e mentale. Come hai appreso dai discorsi del dotto, ci terrebbe moltissimo a cercare di stimolare uno di questi esseri, per esempio con la sofferenza, in base alla supposizione che questo lo costringa a rientrare in una fase più energica… Forse di durata più breve, ma molto più produttiva di risultati complessivi…».

Nessuno ascoltava con interesse, neppure l’amsir istruttore che stava facendo il suo meglio per non prestare attenzione o, almeno, per darsi l’aria di pensare ad altro. Guardava le pareti, il pavimento e il soffitto, mentre la voce del novizio si affievoliva. Jackson non voleva sentir parlare di sofferenza, qualunque cosa fosse una «fase». Il giovane amsir che l’aveva catturato stava guardando il novizio dell’istruttore allo stesso modo in cui un Honor avrebbe guardato un contadino della sua stessa età, anche se non lo squadrava con l’intento di ucciderlo. Finalmente, l’Anziano disse: «Silenzio». Lo disse gentilmente, e il novizio dell’istruttore tacque. L’Anziano guardò Jackson e chiese: «Nel posto da dove vieni tu, i giovani fanno molto moto?».

«Solo per andare a caccia. L’agricoltura non ha bisogno di cure. La Spina irriga i campi con l’acqua, e gli aratri vanno diritti, qualunque cosa si cerchi di fare».

«Bene, noi siamo migliori di voi», disse l’Anziano. «State zitti tutti e due», aggiunse, rivolgendosi all’istruttore che aveva appena cominciato ad aprire il becco. «Questo è già un esperimento sufficiente così com’è, per quanto mi riguarda». Sospinse Jackson verso la porta, con la punta di un’ala. «Esci e guarda», disse.

Dalla soglia, Jackson si ritrovò a guardare qualcosa che sembrava una piccola Spina. Si ergeva nell’aria, affusolata, ed era alta una dozzina di volte più di un uomo. Ma era irta di spuntoni, e c’erano altri spuntoni inclinati verso il basso… Era posata su tre di essi. E aveva aperture simili a gole spalancate verso il suolo. Era fatta dello stesso tipo di metallo della Spina: ma con quella forma, con quegli spuntoni e quelle bocche spalancate, aveva un’aria subdola e maligna.

«Cos’è?», chiese Jackson.

«È l’Oggetto. È sempre stato qui, fin dall’inizio del mondo. Vedi quella?», chiese l’Anziano, indicandone il fianco. C’era una scaletta che scendeva, fino a circa un braccio dal suolo. Jackson socchiuse le palpebre per vedere meglio; lassù, in cima alla scaletta, c’era qualcosa che sembrava un’altra porta chiusa. Ma non aveva la solita maniglia circolare. Era solo una sottile fessura ovale nel metallo. Girando la testa e dondolandosi un po’ sulle gambe, Jackson scorse i luccichii di numerosi graffi, lassù: erano poco profondi, niente più che scalfitture inutili.

«Quella è una porta, non è vero?», disse l’Anziano.

«Sembrerebbe», ammise Jackson. «Non lo sai?».

«Dice di essere una porta. Ha una voce, e l’istruttore sostiene che dice proprio così». L’Anziano lanciò uno sguardo di sottecchi all’istruttore. «Non c’è nessuno che sappia dirmi di più», aggiunse, seccamente.

«Ho trascorso molto tempo cercando di scoprire cosa dice», intervenne con veemenza l’istruttore. «Ho tenuto discorsi testimoniati…».

«Taci», disse l’Anziano.

Jackson squadrò di nuovo l’Oggetto. Non restava nulla di nuovo da notare, tranne forse le nere chiazze bruciacchiate al suolo, sotto le gambe aguzze che lo sostenevano. Sembrava molto strano… come se qualcuno avesse acceso fuochi lì sotto, non molto tempo prima… certamente, non all’inizio del tempo. Ma, per il resto, l’Oggetto se ne stava lì e basta. Jackson non udì nessuna voce che dicesse: «Io sono una porta».

«Cosa vuoi che faccia?».

«Sali la scaletta e apri la porta», rispose l’Anziano.

«Soltanto questo?».

«Pfu! Ogni essere della nostra specie che ha tentato è rimasto ucciso… Tranne pochissimi, che sono stati soltanto feriti e si sono infuriati moltissimo. E non hanno più tentato. Ognuno degli esseri della tua specie che ci si è provato ha fallito. Ma non è stato ucciso. Ha avuto molto tempo per tentare di tutto, fino a quando non è morto di fame».

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