CAPITOLO 10

I

«Cosa succede?», chiese inquieto Ahmuls, sbirciando l’interno dell’Oggetto. Rovesciava la testa all’indietro per guardare ogni volta che un giavellotto colpiva l’altro lato della porta, ma poi tornava a sbirciare. Molte cose cominciavano a ronzare, all’interno dell’Oggetto. Jackson vedeva la luce diventare più intensa, danzante; poteva udire scatti e ticchettii. E soprattutto sentiva che l’Oggetto stava diventando forte, fortissimo.

Intorno a loro una voce frenetica, simile alla voce della porta: «Aaah touwtthah fourshaah!». Dall’interno, la stessa voce gridò: «Pronti a tutta forza! Generatori principali attivati, energia di mantenimento disattivata!». La voce si acquietò. Cominciò a suonare come se si sentisse normale. Si capiva persino che era una voce di donna. «Rapporto condizioni della nave: tutti i sistemi funzionanti e in perfetto stato. Consumo eccessivo della batteria di Mantenimento. Ricarica».

«Cosa succede?», gridò Ahmuls.

«Non guardare me, amico», rispose pronto Jackson. «Non ho preso nessuna arma».

«Meglio per te!».

«Lo so». Jackson era piantato saldamente sui piedi: si accostò alla porta che conduceva all’interno dell’Oggetto. «Guarda quei macchinari!».

«Cosa dobbiamo fare? Chi vuole restare qui dentro?», gemette Ahmuls.

Jackson ascoltò il tang! tang! tang! dei giavellotti che colpivano l’esterno dell’Oggetto. «Oh, non so», disse.

«Qualcuno prende il comando?», chiese la voce della porta.

Cosa? Cosa?, pensò Jackson. Da un momento all’altro, quel buffone si sarebbe messo in testa che qualcosa era un’arma, e adesso quella domanda. Non c’era nessuno che comandava?

C’erano tutti quei ronzii, le voci che parlavano e le porte che si aprivano; succedevano tante cose che magari gli sarebbero piaciute, se le avesse scoperte un po’ alla volta, pronto ad accettarle o a farle a pezzi. Ma con uno stomaco e un braccio dolorante, e i colpi di giavellotto e un Ahmuls alle costole, non si sentiva pronto.

«Il comando deve essere esercitato entro un periodo di tempo ragionevole», disse la voce.

«Eh?», disse Ahmuls.

«Il comando deve essere esercitato! La stasi è uno spreco di energia!».

Insiste, insiste, insiste, pensò Jackson. Chissà cos’era la stasi. «Sta bene», gridò. «Che cosa vuoi?».

«Funzionare. Eseguire compiti. Non posso portarmi a tutta forza per niente!».

«Senti, devi smettere di parlargli!», disse Ahmuls. «Hai già fatto abbastanza».

«Senti, niente armi, giusto?», ribatté Jackson, mostrando le mani vuote. «Io devo parlargli, ti ricordi?». Poi parlò più forte. «Hai un nome, voce?».

Ahmuls si stava corrugando come se aggrottasse la fronte, notò Jackson. Forse cosi sarebbe rimasto occupato ancora per un po’.

«Il mio nome è Sistema Unitario per Spedizioni Interplanetarie Extraterrestri Modulari», disse la voce. «Chiamami Susiem».

«Che cosa sai fare?».

«Tutto! Tutto quello che può fare un Susiem».

Non era un grande aiuto, pensò Jackson. Ma sapeva che un Susiem una cosa sapeva farla: manovrare le porte. Spiccò un salto e rimbalzò contro Ahmuls. Ahmuls barcollò all’indietro. Jackson cadde oltre la porta interna. «Chiudi!», urlò. Restò sdraiato sul pavimento. Sentì che ai tonfi più distanti e meno frequenti dei giavellotti contro l’esterno dell’Oggetto s’erano aggiunti i klop! di Ahmuls, che, imprigionato nella minuscola stanzetta, batteva il pugno contro la porta.

Jackson scrollò la testa e si guardò intorno. La stanza era piena di macchinari: metallo e vetro dappertutto, manopole e aghi indicatori, cose che lampeggiavano e luccicavano e ronzavano…

«Magnifico! Ma non vedo niente da mangiare».

«No, certo! Credi di essere in sala mensa?», ribatté Susiem.

«Vuoi dire che qui c’è un’altra stanza? Dove c’è da mangiare? Dove c’è davvero da mangiare?».

«Io so fare tutto quello che può fare un Susiem!», disse Susiem.

Klop, klop, klop.

«Cribbio, lui parla più chiaro di te», disse Jackson. «Bene, come faccio a entrare nell’altra stanza? E non aprire quella porta fino a che non te lo dirò io! A proposito, se hai da mangiare, per caso non hai anche un dottore?». Jackson sogghignò. E poi vorrò una Spina dove tutti desiderano essere come me, e gli amsir desiderano fare tutto quello che dico io. Che cos’hai qui, Susiem…? Hai tante cose da dare che un uomo potrebbe restare a corto di sogni? No, certo, per gli esseri della mia specie. Bene, avanti… Avanti, trovami un dottore. Dagli secchi di acqua bollente e una montagna di stracci puliti per dormirci».

«Certo, non aprirò la porta. Tu sei al comando. Presentati subito in infermeria».

«Là hanno da mangiare?».

«Le cure mediche hanno la precedenza sulle razioni. Presentati in infermeria».

Io sono al comando, pensò Jackson. «Dov’è l’infermeria?».

II

Susiem lo guidò all’infermeria, dicendogli semplicemente di seguire le luci. Continuarono a girare davanti a lui, quando varcò una porta e scese una scaletta e varcò una seconda porta. L’infermeria era tutta bianca, dove non era di metallo nudo. Il dottore era bianco e metallico e aveva le ruote. Si staccò da un’intercapedine nella parete e rotolò verso di lui come un aratro. Arrivava più o meno all’altezza del petto di Jackson. «Spiega i sintomi», disse.

«Perderò il braccio», disse Jackson.

Squadrò attento il dottore, e decise di credere a Susiem quando disse: «Questo è un dottore».

«Non sei in grado di formulare una prognosi. Spiega i sintomi. Come giustifichi il fatto che non corrispondi ai dati del mio archivio? Dimostra che hai diritto di ricevere assistenza medica da questa stazione».

«Emergenza, dottore», disse Susiem. «Quest’uomo è al comando».

«Dovrai riempire i moduli», disse il dottore. Un riquadro bianco, sulla parte superiore del suo corpo, diventò di un verde chiarissimo. Un bastoncino spuntò da un foro vicino al riquadro. «Prendi la penna». Jackson l’estrasse, incuriosito. Aveva la stessa forma e all’incirca la stessa lunghezza dei carboncini che aveva lasciato a casa sua. Ma non era bruciata… Era leggera e sembrava morbida, ma era rigida come metallo, era liscia ma non gli scivolava dalle dita. All’estremità c’era qualcosa che sembrava una sferetta di vetro.

«Allora?».

Jackson guardò il riquadro verdepallido. Era attraversato da linee bianche e lucenti, adesso. All’inizio di ogni linea c’erano forme minuscole, segni formati da altre linee piegate e incrociate. «Bello», disse.

«Criticare non è il tuo compito. Riempi i moduli».

«Credo che sia analfabeta, dottore», disse Susiem.

«Be’ che faccia qualche segno, allora», disse spazientito il dottore. «Sono sicuro che ci sono altri che aspettano. Sta perdendo tempo».

«È al comando».

«Bene, allora dovrebbe saper scrivere».

«Senti… Ti ordino di parlare in modo comprensibile», disse Jackson al dottore. «Mi fa male il braccio, e ho fame».

«Sai fare un segno? Fai un segno sulla lastra con la penna luminosa. Devo avere una specie d’identificazione, altrimenti non posso preparare la tua scheda. E se non posso prepararla, sei perduto».

«Oh. Vuoi essere in grado di ritrovarmi. Bene, ecco come sono fatto». La sferetta scivolava troppo agevolmente sulla lastra, se era così che si chiamava, ma la penna luminosa, o quello che era, lasciava una bella linea bianca. Jackson provò a torcere il polso per renderla più sottile o più spessa, ma non servì a nulla: comunque, riuscì a tracciare un buon autoritratto sulla lastra. Per buona misura, in un angolo disegnò le ossa del suo braccio, mostrando dov’era penetrato il dardo. «Ecco quello che non va. Il dardo è stato estratto, ma il braccio è morto».

Per un po’, il dottore e Suesiem non dissero nulla. Alla fine, il dottore sentenziò: «La tua conoscenza dell’anatomia non è niente male».

«E disegna bene, anche», disse Susiem. «Così capisci quello che vedi. Non è come certi disegni parafrastici che…».

«Il braccio», disse Jackson.

«Certo, il braccio», rispose il dottore. «Uh… Dacché ci siamo, diamo un’occhiata generale». Il dottore si dondolò avanti e indietro sulle ruote per un momento, emettendo un lieve ronzio, come un aratro. «Uhm. Sì. Bene. Hai condotto certamente una vita attiva. Ma sei guarito bene… Escludendo alcuni dei fatti più recenti, è ovvio. L’unica cosa di cui dobbiamo occuparci seriamente è la giuntura del gomito. Avrai bisogno di un restauro. Il tasso dello zucchero nel tuo sangue è un po’ basso. Sei affaticato?».

«Uh?».

«Sei stanco?».

«Ci hai azzeccato. E ho anche fame».

«Bene, possiamo introdurre un po’ di proteine nel tuo organismo, credo, mentre lavoriamo sul braccio, ma preferirei che tu avessi qualcosa da masticare e deglutire. Attiva una serie di riflessi utili. Susiem, perché non porti qualcosa di nutriente al capitano, mentre io mi occupo di questo?».

Il dottore si aprì, con una specie di scatto dei lati, e si trasformò in una via di mezzo tra una sedia e una culla. Il sedile, lo schienale e la parte che andava sotto le gambe erano imbottiti, e anche il sostegno per il braccio destro. Una specie di grondaia che entrava per un tratto nel corpo del dottore era per il braccio sinistro di Jackson. Era di metallo nudo: e un piccolo fascio di luce scaturì da uno stelo, illuminando le fasciature di cuoio mentre Jackson sedeva.

«Le cure mediche hanno la precedenza sulla mensa», disse Susiem. «Non vedo perché non possa venire curato prima di andare a mangiare».

«Ho detto di portargli qualcosa!», scattò il dottore. «È denutrito, ha un braccio libero per servirsi, e poi il grado ha i suoi privilegi».

«Se la registri come una ricetta, dottore».

«Sicuro».

«Benissimo», disse Susiem. Qualcosa cominciò a muoversi ronzando in un altro compartimento. «Sto prendendo un carrello».

Per essere una macchina», disse Jackson al dottore, «hai più buon senso di tanta gente».

«Giustissimo», rispose il dottore. «E adesso, togliamo questo schifo dal braccio. Chi ti ha curato… Un veterinario?».

«Un che?».

«Capitano, hai bisogno di ragguagli culturali».

«Cosa sono?».

«Sono quello di cui hai bisogno». Forse il dottore non voleva continuare a chiacchierare; forse aveva pensato di poter tenere occupato Jackson con qualche altra cosa. Comunque, una specie di coltello guizzò lungo il braccio. Recise la fasciatura con il taglio più netto che Jackson avesse mai visto. Aprì anche il braccio, e gli fece passare la voglia di parlare. Jackson restò lì a guardarsi le ossa biancorosate, nel guscio schiuso del braccio. Intorno al punto straziato e arrossato dove il dardo di Red Filson s’era piantato nella giuntura del gomito c’era qualcosa che sembrava putredine.

Intorno all’osso lampeggiarono scintille… Forse di metallo, forse di luce. Sulla giuntura vi fu uno sbuffo di nebbia bianca; poi un risucchio d’aria, e la nebbia sparì, whummph! e sparì anche la giuntura. Tra le ossa della parte superiore e inferiore del braccio c’era uno spazio vuoto di quattro dita. Altre scintille: adesso i tronconi erano intaccati e perforati, come se li avesse lavorati un fabbricante di bastoni. La parte putrida, nella carne del braccio, diventava sempre più piccola. Tutto il braccio era informicolito. Il fascio di luce sembrava tremolare.

Qualcosa che sembrava un dottore molto più piccolo entrò nella stanza e aprì di scatto la parte superiore. Un fumo caldo colpì Jackson al naso come uno straccio umido e bollente. Non aveva mai sentito un odore così forte in vita sua. Gli saliva per le narici e sembrava riempirgli la testa. Sbatté le palpebre: l’odore lo faceva lacrimare.

Su un piatto c’erano verdure coperte da una sostanza untuosa, una palla bianca, formata da piccole parti che sembravano vermi e una cosa tondeggiante, viscida, che sembrava quello che si poteva trovare sotto una delle case degli amsir, se fosse stato un po’ più secca. Poi c’era un oggetto con un lungo manico sottile e quattro punte curve, un quadrato bianco, ripiegato, che sembrava merletto di amsir ben piallato, e un bicchiere di qualcosa che sarebbe sembrato latte, se non fosse stato così bianco e opaco.

«Il pranzo», disse Susiem. «Bistecca Salisbury, con insalata al roquefort e riso. Buon appetito, capitano». Jackson non riusciva a decidere se doveva guardare il pranzo o il suo braccio.

Il dottore si stava dando da fare parecchio. Minuscole dita delicate e snodate uscirono di scatto dalla stessa sporgenza che emetteva il fascio di luce. Reggevano un aggeggio bianco trasparente che sembrava il disegno di una giuntura del gomito. Le minuscole dita misero a posto i piccolissimi pioli, e in un attimo, al posto del gomito spezzato, ci fu quella cosa bianca, inserita perfettamente. Jackson poteva vedere attraverso quella trasparente, certo, ma sembrava solida e robusta.

«Bene», disse il dottore. «È quello che chiamiamo un supporto innestato. Fra un paio di giorni, tutto intorno si formerà una struttura di cellule ossee, e fra una settimana sarà come nuovo».

Le due metà del braccio di Jackson furono riaccostate dalla pressione della grondaia. Per un istante, la grondaia scivolò avanti e indietro, fino a quando le due metà risultarono perfettamente allineate. Poi si aprì: e al posto del taglio c’era una linea sottilissima, come il graffio scherzoso di una donna. Per la prima volta, Jackson vide un po’ di sangue. Erano goccioline grandi come capocchie di spillo lungo il graffio, già indurite e incrostate. I pezzi tagliati della fasciatura restarono nella grondaia per un istante e poi sparirono con un lampo, una nebbia e un whoomph! «Mangia il pranzo», disse il dottore.

Jackson provò a muovere il braccio. Il pranzo era ancora tale e quale. Il braccio era meravigliosamente a posto. Lo girò, lo tese, strinse il pugno, premette, cercando di scoprire se si sarebbe ancora aperto a metà. Non si aprì. Era un braccio in condizioni perfette. Jackson batté sul gomito sinistro con le nocche della mano destra. Era sano e solido.

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