CAPITOLO 13

I

Aveva gli arti molto pesanti. Non era sformato come Ahmuls, ma aveva gli arti molto pesanti. E Ahmuls aveva ragione: quelli non avevano nulla addosso.

Era un gruppo numeroso di uomini e donne, poco meno di una ventina. Il primo (un uomo dalle membra snelle, con una muscolatura molto più elegante e massiccia di chiunque Jackson avesse mai visto) era apparso, camminando con passo agile, da una depressione poco lontana. S’era fermato a guardare Jackson e Ahmuls, ritto sull’erba che gli arrivava alle caviglie, e c’erano scintillanti bagliori argentei che gli turbinavano intorno alla testa e alle spalle, come un effimero cappuccio di stelle diurne. Poi i minuscoli insetti s’erano involati nel cielo e s’erano perduti, e l’uomo aveva rivolto un cenno a quelli che erano nella depressione, dietro di lui. E gli altri l’avevano raggiunto.

Erano tutti adulti, e si muovevano con una sicurezza che faceva pensare agli amsir. Evidentemente, fino a poco prima stavano facendo qualcosa insieme, laggiù, fuori di vista.

Jackson si sentiva pesante, e aveva la sensazione che ci fossero due schermi cinematografici trasparenti, uno sull’altro, tra lui e quelle persone.

Mentre le guardava, comprese che cos’erano. Erano umani che si erano nutriti nel modo giusto per tutta la vita, erano vissuti nel modo giusto, avevano avuto la giusta assistenza medica. Erano umani discesi dal tipo di persona che era stato lui stesso, quando frequentava l’Università Statale dell’Ohio.

E con gli occhi del tipo di persona che lui era stato all’Università Statale dell’Ohio, adesso sapeva come doveva vedersi. Era basso, sgraziato, con le gambe lunghe e nodose, lo stomaco incavato. La sua carnagione sembrava la pelle di un cavallo che avesse sfondato una recinzione di filo spinato. I suoi occhi erano incassati, di un azzurro-ghiaccio senza traccia di melanina, e le sclerotiche sembravano d’osso levigato e umido. I suoi capelli erano una corta criniera irregolare di paglia fragile. Chiuso in quella tuta, lui era una parodia.

Lì gli uomini erano troppo grandi e grossi, le donne erano troppo sveglie. Stavano venendo verso lui e Amhuls come se nessuno di loro avesse mai messo il piede su di una lappa.

Bene, che cosa doveva fare? Non poteva neppure farsi vedere da loro mentre si strappava di dosso la tuta e ridiventava se stesso. Sarebbe stata una goffaggine troppo grande.

«Visto? Te l’avevo detto… Niente vestiti».

«Giusto. Ti chiedo venia, Ahmuls».

«Mi chiedi cosa?».

«Volevo dire “scusami”».

Il ronzio degli insetti era cessato. Adesso Jackson poteva udire il mormorio della brezza dolce fra l’erba morbida e prendersi il tempo di percepire il calore del sole meraviglioso sul viso e sulle mani. Ricordava persino le passeggiate nei boschetti ombreggiati dell’Università Statale, in aprile, e la gioia sonnolenta delle ore trascorse a crogiolarsi al sole di Jackson Park Beach, quando stava a Chicago. Sono a casa, pensò: sono a casa, dove non sono mai stato, e devo far valere i miei diritti.

Cominciò a sentire le voci, i mormorii dei nuovi venuti che parlavano tra loro. Scrollò la testa per schiarirsela, e sentì le contrazioni dei muscoli del collo.

L’avevano raggiunto. Alcuni alzarono le mani in saluti disinvolti e sorrisero. Erano tutti più alti di lui. Uno disse: «Ehi, salve! Comp ci ha detto che fate parte di quell’esperimento genetico su Marte. Tutti e due. Per la verità, Comp non ci aveva mai parlato dell’esperimento. C’è stato un afflusso cospicuo di dati nuovi, quando è scesa l’astronave che vi portava, e ci ha indotti a chiedere notizie. È la cosa più sensazionale che sia capitata da molti anni. È grandioso. Benvenuti a bordo».

L’accento era un po’ diverso da quello del Midwest. Ma non era inintelligibile. Jackson si stava già districando adeguatamente.

Comp doveva essere il Controllo Centrale, la cosa che guidava gli insetti, che decideva la sorte delle astronavi, degli esemplari arrivati dall’esperimento genetico su Marte, abbandonato o forse dimenticato, del paesaggio che ormai richiedeva soltanto un minimo di caratteristiche funzionali.

Era accaduto qualche tempo dopo che la spedizione di Susiem era partita per iniziare l’esperimento umano ormai superato. Avevano centralizzato i servizi, sotto un unico controllo onnicomprensivo, e adesso lui era tra la gente servita da quel controllo.

Ma sono uno di voi, pensò. Il mio corpo non è stato costruito tra di voi, ma la mia mente sì. Sono tornato indietro, dalle scimmie e dalla giungla; per me Simba è un carnivoro ailuropodo e Ahmuls è un pachiderma. E come dovrò parlarvi, perché possiate riconoscermi?

«Lieto di conoscervi», disse, di slancio. «Questo è Ahmuls e io sono…». Un piccolo circuito dispettoso si chiuse nella sua mente. Aveva trovato il modo di presentarsi. Sorrise. «Io sono Jackson Greystoke».

II

Si era espresso nel modo più indicato. Sorridevano con gli occhi scintillanti. C’era una bruna che sembrava un po’ frastornata, ma una bionda dalla carnagione dorata stava illuminando con fare scandalizzato la sua ignoranza: Jackson vide le labbra zuccherine bisbigliare in fretta: «Tarzan, stupida!», prima che la bocca della bionda si volgesse verso di lui e diventasse una prugna matura.

Il primo uomo (forse era un po’ più vecchio degli altri, o forse no; era difficile capirlo, com’era logico) stava dicendo: «Meraviglioso! Ottima scelta. Il mio nome è… ah, Kringle. Questi sono i miei figli Dasher, Comet e Cupid. Le mie figlie Dancer e Vixxen. Gli altri miei figli Donder, Blitzen e Prancer. Lascerò che siano gli altri a dirti chi sono… Io non ne avrei la presunzione. Comunque vieni: andiamo tutti a mangiare un boccone, e così potremo parlare».

Era stupefacente, trovarsi tra umani che si comportavano così. «Vieni, Ahmuls», disse Jackson. Si sentiva sempre più a suo agio, cullato su una nube di nomi mentre gli altri si presentavano: Cincinnatus, Columbus ed Elyria; Perry, Clark, Lois e Jimmy; Fred e Ginger; Lucky, Chester, Sweet, Home e Wings (questa era la bruna, che venne guardata da alcuni degli altri con un’espressione delusa, quando disse il suo nome); Batten, Barton, Durstine e Osborne.

Jackson scoprì che li aveva capiti tutti bene, e li ricordava esattamente. Erano tutti molto calzanti. Anche quando Wings disse con aria vergognosa: «Ho sbagliato. Chiamami Pall».

«Ho fame», disse uno, in fondo al gruppo.

«Siamo pronti», disse sorridendo Jackson. «E grazie dell’invito. Andiamo», disse, rivolgendosi ad Ahmuls.

«Non voglio mangiare con te», disse Ahmuls. «Non voglio mangiare con questa gente».

Una voce parlò all’orecchio di Jackson. Avvertì un lievissimo svolazzo nell’aria, e con la coda dell’occhio intravvide qualcosa di lucido e metallico, librato accanto a lui. «Qui è Comp», disse la voce. «Ahmuls non deve preoccuparsi. Ci sarà anche il vitto adatto a lui».

Ahmuls chiese: «Cos’ha detto?».

«Ha detto che ti vuol bene. Vieni».

Alcuni stavano già cominciando a incamminarsi verso la depressione. Jackson mosse un passo per seguirli, si fermò, guardò Ahmuls aggrottando la fronte, girò di nuovo la testa e li vide allontanarsi, poi tornò a guardare Ahmuls. «Vieni!». Si mosse svelto: ma si sentiva pesante.

Gli occhi di Ahmuls sfrecciarono, seguendo la sua mano. «No». Si avviò, con una mano sulla parte destra della faccia, per sostenersi le palpebre in modo da sorvegliare Jackson.

Il gruppo giunse sull’altura erbosa. Durstine, la bionda il cui profumo era vicinissimo a Jackson, mormorò: «Vorrei avere pensato io ai vestiti». Jackson smise di guardare Ahmuls e le sorrise. Lei inarcò un sopracciglio, si toccò il lucido labbro superiore con la punta della lingua, e rise.

Jackson vide Kringle aggrottare la fronte.

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