La Spina era calda e dolcemente elastica, quando la toccò. Non riusciva a capire di che colore fosse. In certi punti era di un nero fondo con riflessi scuri come il vino. Quando spostò lo sguardo, vide che in altri era verde come una mosca. Indietreggiò, a bocca aperta come un turista, girando la testa di qua e di là, ammirando le antenne imbandierate che graffiavano il puro cielo azzurro, affascinato dal potere di cui disponeva quella gente, stordito da quella munificenza. E pensò: «È stato per questo, Red, per fare un modello come questo, che hai lottato, faticato, amato… per questo sei morto?».
«Oh, sarà bellissimo!», esclamò Pall, accorrendo con le labbra umide. «Tutti vorranno vedere la ripresa diretta!».
Jackson annuì. «Lo credo», disse con aria grave. Poi sorrise guardandola. Cosa diavolo… Voglio dire, pensò, se lei sembrasse una bambina, staresti attento a quel che le diresti, no? Sentì un tocco sul braccio. Ma quella Durstine, adesso…
«Ti piacerebbe vedere l’interno?», stava dicendo lei. «Non ti piacerebbe dare un’occhiata?». E gli appoggiò la coscia contro il fianco.
«Scusaci, Pall», disse Jackson.
«Oh, non importa», pigolò Pall. «Devo cambiarmi, tanto, e voglio che sia una sorpresa!». Si avviò verso uno dei padiglioni.
Durstine ridacchiò. «Mi cambierò anch’io. Ma qualche minuto l’abbiamo».
Jackson la seguì all’interno della Spina, passando da un’ampia porta tutta ornata. Fu come scivolare in un mare di gemme.
All’interno la Spina era cava, su su fino alla cima, ma era intessuta d’un intrico di filamenti cristallini che salivano, scintillando in tendaggi ondeggianti e in cerchio, fino a sparire lassù, nelle ombre tenere. La luce filtrava dalle pareti traslucide della Spina: e da lì esplodevano di tutti i colori… verde e oro, rosso e viola, azzurro e ruggine. I colori vorticavano e fluivano uno intorno all’altro, in modo diverso dai turbinii non del tutto casuali della ragnatela interna, che a sua volta assorbiva i bagliori e li gettava verso Jackson e Durstine in una pioggia mutevole. Jackson la guardò, ed era screziata di fulgore.
Durstine rise e scrollò la testa, poi rimase immobile, guardandolo tra le ciglia, con la coda di un occhio. «Benvenuto sulla Terra», gli disse. «Volevo che vedessi questo». Girò graziosamente su se stessa, in punta di piedi, alzando un braccio in un gesto che indicò tutto l’interno della Spina. Era difficile capire se alludeva alla Spina, a se stessa o a tutte e due.
«Volevo che vedessi quel che possiamo fare. Voglio che tu sappia ciò che è tuo, in modo che possa usarlo, e abituarti, e rivendicare la tua eredità».
«Solo la mia eredità o anche altre cose? Potrei prendere qualcosa che apparteneva a Kringle, per esempio?».
Lei rise. «Alcuni uomini hanno diritto a tutto ciò su cui riescono a mettere le mani».
«Allora non resterei così vicino, se fossi in te».
«Ma io sono io. E so sempre, esattamente, quello che faccio». Lei rise ancora, gaiamente, con fare d’intesa. Mosse la mano di scatto. Le unghie corsero leggere sul braccio di Jackson, ma quando arrivarono al gomito lasciarono un segno, e l’unghia del medio, girando, fece uscire una goccia di sangue. Durstine se la portò alle labbra, e lo baciò frettolosamente sulla bocca. «Ti rivedrò qui, fra poco. Devo cambiarmi… Normalmente, potresti non riconoscermi, vestita. Ma questa volta ci riuscirai. Te lo prometto. Perché, vedi, tra tutta la gente del mondo, io sono quella che ti capisce meglio. Ricordalo, quando altre ti tenteranno». Si allontanò di qualche passo e girò la testa per un attimo. «Ricorda. Quando le altre ti ronzeranno intorno e la piccola Pall ti guarderà sgranando gli occhi. Ricorda che io sono l’unica». E se ne andò, con movimenti precisi, intensi.
Jackson la seguì con lo sguardo, pensando.
La gente cominciava ad affluire nella Spina; le api ascoltavano, e gli exteroflettori sfrecciavano di qua e di là, creando o portando tutto ciò che la gente chiedeva. Incominciò la musica. Kringle entrò, andò dall’altra parte della tenda e sedette, solo, sul pavimento.
Jackson notò che i presenti non erano molto vestiti. Oh, Elyria portava cerchi di sottilissimo filo metallico intorno al collo, in una cascata d’oro, e Donder aveva un paio di occhiali neri dalla montatura di corno, e lenti piatte. Lois s’era coperta un braccio di una maglia d’argento fino alla spalla. E così via. Ma era la luce che li decorava. Mentre si muovevano avanti e indietro, parlando, gesticolando, incominciando a riscaldarsi, acquisivano e smarrivano motivi ornamentali che scorrevano sulla loro pelle.
Non mangiavano e non bevevano molto. Parlavano, soprattutto. Alcuni erano seduti immobili, con gli occhi semichiusi, la testa china, quasi fossero completamente perduti nei loro mondi personali. Spesso qualcuno gli sorrideva, alzava una mano, o sembrava compiaciuto di vederlo lì. Ma nessuno veniva a conversare. Erano molto più interessati a ciò che passava per le loro menti, e intanto attendevano che la festa si animasse davvero.
Fu Vixen a dare l’avvio. Se ne stava un po’ in disparte, aggrottando la fronte e dondolandosi leggermente. Jackson l’aveva guardata, incuriosito, mentre attendeva di vedere cosa sarebbe accaduto quando fosse entrata Durstine… e anche Pall. La stava guardando quando all’improvviso lei schioccò le dita e disse, felice: «Ci sono!».
«Cosa? Che cosa?», chiese Ginger; e quando Vixen sorrise, le teste cominciarono a girarsi verso di lei.
Vixen avanzò di due o tre passi, camminando in modo strano. Sembrava acquisire sicurezza; i suoi movimenti diventavano più pronunciati e regolari, e un sorrisetto le aleggiava agli angoli della bocca. Andò al centro del cerchio formato dal pavimento della Spina. Aveva attratto l’attenzione di tutti: e la luce cominciò a cambiare. Dai drappeggi cristallini cominciò a irradiarsi una fosforescenza, e un dolce chiarore dorato formò una cupola, partendo dal pavimento e salendo lungo le pareti interne, fino a circondarli tutti di un liquido splendore trasparente.
«Jackson! Jackson… Guarda!».
Vixen venne verso di lui, con una mano sul fianco, l’altra protesa in un arco aggraziato sopra la testa, con il palmo piatto e le dita alzate. Gli sorrise e poi alzò l’altra mano, sollevò qualcosa d’immaginario dalla sommità della testa. Si piegò leggermente, tendendo le mani. «Acqua, Honor?».
Tutti scoppiarono in applausi. Vixen sorrise modestamente, rise un poco e si ritirò. Evidentemente, era stata una specie di pantomima. Ma non era così che si portava l’acqua: l’acqua si reggeva tra le braccia.
«Bene! È stato un buon inizio, non ti sembra?», chiese Kringle, battendogli la mano sul dorso. «Direi che ha espresso veramente l’idea, no?». Scrutò un poco più attentamente il volto di Jackson. «No? Be’, forse c’era qualche piccola imperfezione». Un gruppetto di amici s’era raccolto intorno a Vixen per congratularsi con lei. «Ma, certamente, come inizio non era male», disse Kringle.
Si fece avanti Donder. Si fermò al centro del cerchio e alzò la mano con fare negligente. La folla tacque. Donder trasse un profondo respiro e cominciò a parlare.
«Muori.
Nasci, fai chiasso, sii libero, ma
muori. Coloro di noi che nascono
figli della Spina lo succhiano con il latte.
Noi ti odiamo, Spina.
Ruttiamo contro di te la tua parola».
S’inchinò a Jackson, con il volto accaldato e un velo di sudore sulla fronte.
Gli altri cominciarono ad applaudire. Poi uno ricordò qualcosa e prese a schioccare le dita. L’interno della Spina crepitò di quel suono.
«E questo, Jackson?», gli gridò Donder. «Sintetizza tutto, no?».
Jackson chiese a Kringle: «Intende ciò che proviamo per la Spina? Voglio dire, pensa che si dovrebbe provare questo, per ciò che ti tiene in vita?».
Un lievissimo cipiglio si incise di nuovo tra le sopracciglia di Kringle. «Credo che se esaminassi i tuoi processi interni, scopriresti che ci è andato molto più vicino di quanto tu sia disposto ad ammettere». Alzò la voce e gridò a Donder: «Bellissimo, figliolo! E adesso, gente», disse a tutti gli altri, «dobbiamo ricordare che il nostro ospite non conosce alla perfezione le nostre consuetudini. Ma sappiamo che imparerà in gran fretta».
Comp disse all’orecchio di Jackson: «Ascolta, hanno bisogno del feedback della tua approvazione, o la festa perderà ogni sapore».
«Oh», disse Jackson.
«Guardate! Ecco Pall!». Clark indicò l’entrata.
Lei entrò timidamente, tenendo le mani incrociate davanti a sé. Dalla vita le pendeva un drappo lacero, bianco… un bianco puro, incontaminato, alto su un fianco e abbassato sull’altro, con i fili strappati che le arrivavano a metà coscia. Si avviò verso Jackson, guardando a terra. Quando gli fu vicina, Jackson vide che aveva granelli di sabbia tra i capelli, e sparsi qua e là sul corpo, a chiazze. Avevano contorni definiti, e non erano più scure, sulle ginocchia; non c’erano minuscoli anelli di sabbia intorno ai polsi, e non c’era una chiazza più profonda alla base del collo, nell’incavo dove il sudore avrebbe fatto scorrere la sabbia durante la giornata.
Ma Jackson aveva compreso.
«Bentornato a casa, Honor», disse Pall in tono sottomesso, e la Spina si riempì dell’approvazione del gruppo: un grande rombo composto di applausi e di grida d’ammirazione.
«Grandioso!», disse Kringle.
«Guardala, Jackson!», soggiunse, abbassando la voce. «Mia cara, è stata davvero un’idea tua? È meraviglioso. Meraviglioso. Jackson, lo vedi, no? Ha fatto di se stessa un’opera d’arte. È doppiamente eccitante. La nostra piccola Pall…».
Pall arrossì. «Grazie, Kringle». Non sapeva dove mettere le mani. Probabilmente era la prima volta in vita sua che riceveva un complimento per la sua creatività. «Per la precisione», disse, «vedi, sono molto ingenua… oh, Kringle ti dirà che non è vero, per educazione… E così alla fine mi sono detta: “Bene, se devi essere ingenua, e non puoi rimediare, tanto vale che ne ricavi qualcosa di costruttivo, no? Perché non…”. E così l’ho fatto! Ecco tutto. L’ho fatto, ed è tutto. Mi sono detta: Devi prendere quel che c’è e servirtene!».
«Mi pare che il risultato sia ottimo», disse Jackson. «Credo che questo tocco sottile, l’idea di presentarti non soltanto come un’opera d’arte, ma come un’opera d’arte dal significato duplice, sia un esempio della vitalità insita nella reazione naturale». Le sorrise e le toccò leggermente una spalla. Nella Spina proruppe un nuovo applauso. «Naturalmente, è la solita base concreta dell’implicazione sottile ma primaria a perfezionare il tutto», disse, guardando sinceramente quegli occhi che brillavano di soddisfazione. All’improvviso, quegli occhi traboccarono, e due lacrime perfette scorsero giù per le guance.
«Grazie», mormorò lei, così sommessamente che il recettore audio più vicino doveva affrettarsi a sfrecciare avanti, librandosi come un colibrì davanti alle sue labbra.
Pall circolava tra la gente, ricevendo i rallegramenti di tutti, non soltanto dei suoi amici. Camminava come una debuttante.
Jackson restò lì, a massaggiarsi il gomito sinistro.
Perry aveva lavorato su qualcosa, dietro un gruppo d’altre persone. «Ehi, guardate cos’ha fatto Perry!», cominciarono a esclamare, affollandosi, mentre altri si accalcavano a sbirciare sopra le loro spalle.
«Fermi, adesso! Tutti avranno la possibilità di vederlo!», borbottò Perry, con burbera bonarietà.
Gli exteroaffettori lo portarono al centro del cerchio, e lo posarono su tre esili, eleganti gambe metalliche. Dall’alto, una corda di luce si accese tra i drappi di cristallo e si concentrò sul quadro.
«Jackson! Vieni qui, Jackson!». Perry lo chiamò a cenni. «Questo lo dedico a te».
Oh, Gesù! Ma Jackson si mosse, con gambe che sembravano districarsi dalla colla, e andò a guardare.
Era stato dipinto a pennellate ampie, talvolta apparentemente laboriose, talvolta apparentemente agili. Era pieno di tutti i colori sbagliati. Mostrava la Spina di Jackson, in distanza, con il Sole pallido più indietro. Alla base della Spina erano allineati blocchi squadrati: si capiva che erano case perché qua e là c’era la luce in una finestra. In primo piano, in silhouette, con pochi dettagli che spiccavano per i riflessi di luce, c’era un amsir, steso sul pendio cieco di una duna, la testa alzata appena per spiare la Spina e le case. E a lato, intento a spiare l’amsir, c’era un Honor, anch’esso sbozzato rozzamente. Si capiva che era un Honor perché portava sulla testa qualcosa che ricordava gli elmetti tedeschi della seconda guerra mondiale e della guerra franco-prussiana. Doveva essere una calotta, pensò Jackson.
L’abilità non mancava, in quel dipinto. Evidentemente Perry aveva già eseguito opere del genere. Forse si poteva criticare la composizione, ma bisognava farlo sul piano professionale. Questo era doveroso riconoscerlo. Ma, Gesù Cristo, Comp aveva i dati esatti, nei suoi archivi; erano là a disposizione. Era sufficiente cercarli.
«Cosa te ne pare?», chiese Perry, nello scrosciare degli applausi, mentre altra gente si affollava intorno. Poi disse: «Certo, vorrai essere libero di usare i termini che preferisci… non sei tenuto ad adeguarti a quelli tecnici dell’arte grafica». C’era un sorrisetto di comprensione, agli angoli della sua bocca. «Dopotutto, molti altri miei amici dovrebbero usare anche loro il linguaggio dei profani».
Jackson aprì la bocca, poi la richiuse. Sentì la punta della lingua strofinare contro le facce interne dei denti, lateralmente.
«Di’ pure», invitò Perry.
«Comp», disse Jackson, «ho bisogno di un cavalletto, un sostegno, un foglio di carta da disegno e qualche carboncino. Subito».
Perry sembrava frastornato. La folla intorno a loro tacque. Gli exteroaffettori lavorarono in fretta.
Un altro raggio di luce inquadrò il foglio bianco, sopra il cavalletto di Jackson. Lui teneva tutti i carboncini, tranne uno, nella mano sinistra; per un minuto fece saltellare l’altro nella mano destra, guardandosi attorno. Si succhiò i denti, bruscamente, e si mise al lavoro. Accostò il carboncino alla carta. Disegnò per i presenti un amsir coraggioso e fanatico, con un dardo piantato nel foro aperto in una delle bolle: tentava di tenere una mano alzata e piegata all’indietro per tappare la ferita con le dita. E, intanto, faceva camminare davanti a sé un Honor vestito di pelle umana, che aspirava l’aria da una bottiglia, e lo sospingeva verso l’orlo del mondo.
Quando ebbe finito, ebbe finito. Jackson non sapeva esattamente quanto tempo avesse impiegato. Nessuno lo interruppe. Gli giravano intorno nervosamente e qualche volta mormoravano; ma lui riusciva a non farci caso.
Guardò il disegno: tutto era esatto, l’aveva eseguito nel modo giusto. La sua mano sinistra era annerita e vuota. Lasciò cadere sul pavimento l’ultimo carboncino, ai piedi di Perry. «Ecco ciò che penso del tuo quadro», disse. «Tecnicamente».
Vi furono numerose esclamazioni, da parte di coloro che stavano dietro di lui. Perry aggrottò la fronte e si accostò per osservare il disegno. Si grattò il mento, inclinò la testa avanti e indietro. «Temo… temo di non capire. Cosa stai cercando di dire con questo?».
Vi fu un crescente brusio di assenso, intorno ai due. «Sì. Che cosa dimostra?».
«È meglio che lasciate dare un’occhiata a me», disse Kringle, facendosi avanti. Si fermò a fianco di Perry; Jackson dovette arretrare per fargli posto. «Uhm… Cerchi di equiparare il carboncino alla pittura ad olio?», chiese Kringle a Jackson, in tono paternalistico. «È molto difficile paragonare l’arte espressiva con mezzi diversi, sai. Anzi», soggiunse in tono ragionevole, «è molto difficile istituire paragoni nell’arte. N’est-ce pas?».
«Quello che non capisco», disse Perry, «è perché abbia ritenuto di doversi sentire tanto ostile. Vedo quello che ha disegnato, ed è una scena completamente diversa. Come si può trovare la base per un confronto?».
Donder disse: «Ecco, credo che sia seccante, in qualunque modo lo si consideri! Voglio dire, Perry ha dedicato il quadro, a lui, alla sua festa… alla quale partecipiamo tutti. Che cosa vuole, agendo così?».