CAPITOLO 11

I

Non sembrava possibile che avesse mangiato. Ma Susiem aveva detto: «Se credi che io butti via quest’ottimo pranzo e mi prenda la briga di sintetizzarti amsir bruciacchiato e pane integrale di grano, quando sei qui perché sei uomo…».

Jackson dovette ammettere che la bistecca Salisbury, il riso e l’insalata al roquefort non erano per niente male. Si leccò le dita. Ma rifiutò quello che Susiem chiamava «latte», e ottenne invece un po’ d’acqua.

Si assestò più comodamente. Il dottore se lo teneva ancora seduto addosso. «Sapete», disse Jackson, «è proprio strano che sia andata così». L’Anziano amsir lo aveva lusingato con tutte quelle chiacchiere, dicendogli che forse li dentro c’era da mangiare e qualcosa per curare il suo braccio, e gli venisse un accidente se non era proprio vero. Fortuna. Era la sua ricompensa perché non si era mai arreso? Chi poteva saperlo e mandargli la fortuna? Dov’era un posto dal quale il distributore della fortuna poteva vedere tutto? Ariwol esisteva davvero, dopotutto? Credi nella fortuna, credi in Ariwol, eh? Meglio non credere nella fortuna. E allora come la chiami quando arriva, eh?».

«Hai altri ordini, capitano?», chiese impaziente Susiem.

«Be’, non so. C’è un posto, qui, dove posso dormire?».

«Non hai nessun bisogno di dormire, adesso», disse il dottore.

«Dormire!», disse simultaneamente Susiem. «Hai attivato tutto e vuoi dormire?».

«Be’, noi umani dormiamo. Anche quando non ne abbiamo bisogno. Non sai mai quando ti capiterà ancora la possibilità di farlo».

«Gli umani», disse il dottore, «dormono a orari precisi e regolari».

«È giusto», disse Susiem. «La stasi spreca energia!».

Oh, cribbio, non finisce mai, pensò Jackson. Neppure con le macchine. «Be’, senti… Devi avere avuto altri capitani…».

«Direi!».

«Cosa facevi, quando dormivano?».

«Quando dormivano, era sveglio il primo ufficiale. Ma non sai niente degli umani?».

«Ha bisogno di ragguagli culturali», disse il dottore.

«Più di quanto abbia bisogno di un primo ufficiale?», chiese Jackson.

«E l’individuo nella camera di compensazione? Non è quello il tuo primo ufficiale?».

«Lui?». Nella mente di Jackson, in quel momento, Ahmuls era soltanto un klop, klop, klop contro la porta interna. E bastava? Non aveva ancora deciso cosa fare. Ma perché doveva decidere adesso? Non avrebbe dovuto trascorrere lì il resto della sua vita. Essere capitano… Quando le macchine non avevano in mente qualcosa d’altro. «Cosa fa un primo ufficiale? Deve essere un umano molto bravo a maneggiare una lancia, credo. Ma sembra che non ce ne sia un gran bisogno. Voglio dire, tu sei di metallo, dottore, e in quanto a te, Susiem, non so neanche dove sei».

Susiem ridacchiò.

«Bene, questo è decisivo», disse il dottore. «Prescrivo un’università a questo ragazzo. Hai la biblioteca necessaria, vero?».

«I Susiem, evidentemente, hanno tutto», rispose Susiem, mentre il braccio del dottore, con pronta delicatezza, spingeva altre sezioni per bloccare i polsi di Jackson. La sedia cambiò inclinazione, facendolo quasi sdraiare.

«Non devi offenderti. Tieniti pronta, piuttosto, a intervenire quando do il segnale. E non curiosare nei miei banchi memoria quando siamo in sovrapposizione… Tutti sono convinti che per diventare dottori basta conoscere i fatti: una volta piazzati i leucociti e i citoplasti ai posti giusti, chiunque crede di poter essere una segaossa! È quello che pensi tu. Quindi tieniti fuori e fai il tuo lavoro, e io farò il mio».

Cosa diavolo stavano combinando? Jackson tentò di sfilare le braccia, e questo gli permise di scoprire che era impossibile. E anche se si fosse liberato, dove avrebbe potuto fuggire? Fuori? Attraverso la piccola stanza dove Ahmuls bussava e bussava? Ma cosa diavolo volevano fargli? Due tamponi rotondi spuntarono dietro la sua testa, la strinsero leggermente.

«Bene, adesso parto con i predispositori». Una cosa minuscola, simile alla punta cava di un giavellotto, uscì di scatto dalle viscere del dottore, sfrecciò alla gola di Jackson, si arrestò vicinissima e sparò qualcosa di freddo e pungente nel punto dove la pulsazione del sangue si avvicina di più alla superficie della pelle. Jackson lo sentì solo per il tempo di un battito del cuore; era ancora meravigliato per la rapidità con cui si muoveva quando la punta guizzò via e sparì. «Dose massiccia», commentò il dottore. «Con questo individuo occorre la stessa dose che servirebbe per insegnare composizione sinfonica a un cavallo». Jackson sentì che ai suoi occhi, e ai suoi orecchi stava accadendo qualcosa di molto strano. I suoni cominciarono a spezzarsi in minuscoli frammenti vibranti. I contorni di tutto ciò che vedeva si confusero, e si sentì molto debole. Torrenti di lacrime scintillanti gli sgorgarono dalle palpebre inerti e gli corsero sulla faccia.

Dalla bocca dello stomaco si dilatò una sensazione calda, ingombrante. Si sentiva le dita come se le palme venissero tagliate, senza dolore, lungo le ossa. Mentre le lacrime gli piovevano dagli occhi, le labbra erano gonfie e aride; e mentre il ventre era caldo, la fronte era gelida. Deglutì, e sentì uno schiocco negli orecchi. Sbatté le palpebre, e gli occhi colmi di lacrime parvero riempirsi di sabbia. «È pronto», disse il dottore.

Un altro spruzzo fine e freddissimo sulla nuca di Jackson. «Inizio dell’input». Qualcosa che era sottile e solleticante come uno dei capelli di Petra Jovans si insinuò nel collo di Jackson, penetrò elegantemente nella testa e, a quanto gli parve di capire, restò lì a fremere. «Sta bene, inserisciti», disse il dottore.

Qualunque cosa fosse, Jackson intuì che Susiem doveva averlo fatto perché all’improvviso, dentro la sua testa, dove era lui, vi fu una sensazione come… accadde una cosa come… be’, quello che accadeva era che… no, quello che accadeva era…

«A chi potrei dirlo?», urlò Jackson, con tutto il fiato che aveva nei polmoni. «Chi mi crederebbe?».

II

Non era diverso, in realtà, dal ricordo di essere stato bambino, intorno alla Spina. Un giorno era soltanto un marmocchio (un marmocchio qualunque, a parte il fatto che era dentro se stesso), e il giorno dopo era lì, a bordo della nave della spedizione, e ricordava. Probabilmente non era diverso.

«Ebbene?», chiese il dottore.

«È fatta», disse Susiem.

Aveva in bocca il sapore della polvere calda che turbinava intorno alla Spina, mentre lui correva e correva. La sensazione della prima volta in cui aveva mosso il braccio nel modo giusto e il dardo era volato diritto al bersaglio, ronzando, preannunciando quello che poteva fare Honor White Jackson. Honor Second Black Jackson. Honor Red Jackson. Honor Red Jackson, sofferente e affamato, che simulava d’essere una porta tra gli echi alieni della Spina degli amsir. E adesso era lì. La memoria non aveva né tempo né spazio.

Si sentiva la testa piena da scoppiare.

Ehi!, pensò, avevo ragione! Era troppo piccolo… Era tutto troppo piccolo, ed era tutto sbagliato. Io avevo ragione, e loro avevano torto.

Quando pensò a come avevano tentato di tenerlo incatenato, come si tenevano incatenati anche loro, cominciò a sorridere. Quando pensò agli amsir, che frugavano e cercavano, cercando di comprendere tutto dal posto in cui erano… Sorrise ancora più trionfalmente. Oh, caspita… Mia è la Terra e tutto quello che c’è.

«Congratulazioni, capitano», disse Susiem. «Ora sei laureato cum laude in Arti Liberali presso l’Università Statale dell’Ohio. Hai uno speciale diploma in Psicologia del Comando dell’Università di Chicago e un altro in giornalismo Militare dell’Accademia Aeronautica. Sei pienamente qualificato per comandare questa nave».

«Lo so», disse Jackson.

«Queste qualifiche ora sono registrate nel mio banco dei dati e verranno comunicate al Centro Statistiche della Terra appena avrò ristabilito il contatto con la rete comunicazioni del Progetto di Ricerche Generiche delle Università Associate del Middle West», continuò scrupolosamente Susiem.

Jackson la sentiva appena. Sentiva, attraverso la struttura della nave, molto sommesso ma molto presente nei suoi pensieri, un klop, klop, klop.

«Non conosci un modo per farlo uscire dalla camera stagna e fargli ridiscendere la scaletta, vero?», disse pro forma; ma del resto non voleva farlo. Povero, sciagurato Ahmuls. Se l’avesse fatto uscire e l’avesse rimandato all’affetto dell’Anziano amsir, di che utilità sarebbe stato, dopo che la nave se ne fosse andata? E la nave se ne sarebbe andata. Lui non aveva certo intenzione di restare per sempre a terra, anche supponendo che il sistema di supporto vitale potesse durare tanto a lungo, adesso che il suo organismo lo sfruttava. Ma anche questo era secondario… Anzi, irrilevante. Chi, conoscendolo per ciò che era adesso, sapendo quali lacune c’erano da colmare, avrebbe potuto immaginare che lui andasse in qualche altro posto che non fosse la Terra?

Sulla Terra, ad Ariwol, notò tra parentesi. Sulla Terra, ad Ariwol. La lingua della sua mente si attorceva voluttuosamente intorno alla capacità di far fluire le vocali lunghe; trasse un respiro profondo, così profondo da dargli le vertigini.

Klop, klop, klop.

Buttarlo fuori, al ridicolo e al disprezzo, all’inutilità, dopo che la nave se ne fosse andata? Come poteva fare una cosa simile a un essere in suo potere, quando non aveva neppure bisogno di mangiarlo?

Mangiare.

«E il lichene che gli amsir mangiano? Puoi sintetizzarlo per… per il nostro compagno di viaggio?».

«Io so fare tutto quello che può fare un Susiem».

«È una forma terrestre assolutamente normale», disse il dottore.

«Oh. Allora non ci sono problemi. Lasciamolo entrare. Lo terremo a bada abbastanza a lungo perché tu e Susiem possiate fare il possibile per il suo cervello e la sua scheda, e tutto sarà risolto».

«No. Ecco, stai già dimostrando che la poca conoscenza è più pericolosa dell’ignoranza. Innanzi tutto, non so cosa intendi tu per “tenerlo a bada”, ma io certamente non affronterei un organismo ostile delle sue dimensioni con un arto fragile quanto lo è il tuo braccio in questo momento. E non mi sembra che tu abbia tratto le esatte conclusioni circa la sua dieta. Mi sorprende che sia riuscito a sopravvivere, là fuori. Non ho predispositivi in grado di fare qualcosa di utile ai suoi acidi nucleici. Stai antropomorfizzando. A tutti gli effetti, tra lui e gli umani c’è meno affinità di quanta ce ne sia tra te e me».

«È ridicolo!», esclamò Susiem. «È perfettamente umano… non può volare, vero?».

«Se non vuoi che i tuoi errori vengano scoperti, nave, non attivare i dottori».

«Basta, voi due, piantatela», disse Jackson. Cosa diavolo intendeva il dottore? Lui non poteva tenere a bada Ahmuls? Adesso sapeva benissimo come poteva tenerlo a bada. L’aveva imparato al secondo anno d’università. Quel che non gli avevano insegnato era come farselo piacere. Però gli avevano insegnato a fare anche cose che non gli piacevano, quando studiava per il diploma di psicologia. Erano sorprendenti, tutte le cose che aveva imparato. «Dottore… E va bene, non puoi predisporlo. Puoi rimetterlo in sesto, se venisse ridotto male?».

«Non è un problema», rispose il dottore.

«Susiem, se lo facciamo entrare, puoi proteggere le tue componenti in quella sala?».

«In una certa misura».

«Bene, allora lasciamolo entrare… Sono stufo di questo posto. Prima la finiamo, e prima potremo muoverci». Chissà se ad Ahmuls piacerà Ariwol.

Salì la scaletta, fino al livello della camera di compensazione. Accostò la faccia alla porta. «Ahmuls! Ahmuls, mi senti?»

«Figlio di puttana».

«Ascoltami… Se ti apro questa porta, cosa farai?».

«Ti ammazzerò, figlio di puttana».

«Ahmuls, ascoltami bene. Forse non lo crederai, ma posso conciarti per le feste».

«No, se ti ammazzo, figlio di puttana».

«Ahmuls, te lo sto dicendo… Mi hanno dato…». Che cosa gli avevano dato? Gli avevano dato un’arma, e lui l’aveva presa.


Al tempo in cui erano stati lanciati Susiem e l’Esperimento di Adattabilità della Vita alle Condizioni Extraterrestri, l’arte del combattimento senz’armi, sulla Terra, aveva raggiunto un punto di sviluppo che rendeva inutili le esercitazioni e superflui i calli del karateka. Il sistema era stato perfezionato e semplificato, tanto che era sufficiente una spiegazione dei punti da toccare. Chiunque avesse una memoria decente per le istruzioni e una discreta destrezza poteva usare con successo il sistema contro un uomo altrettanto esperto ma con i riflessi più lenti, e contro tutti gli inesperti, con rapidità fulminea e risultati sconvolgenti. I riflessi di Jackson non erano pronti come quelli di Ahmuls, ma la sua memoria era svelta quanto il modo in cui Susiem aveva comunicato le istruzioni al suo cervello, e del resto Ahmuls non aveva idea…

«Ah, al diavolo», disse Jackson. «Susiem, apri il portello».

Era sbalorditiva la velocità di quel fenomeno da baraccone, nonostante le sacche di pelle flaccida, i grugniti, lo slap-slap dei grossi piedi, le mani tozze protese dagli avambracci come da un paio di maniche sbrindellate.

Jackson si tese, protendendo l’indice destro, e lo toccò come gli era stato insegnato allo stadio dell’assolato campus gotico di Canterbury. Fu sconvolgente vedere Ahmuls perdere l’equilibrio. Jackson si chinò, prontissimo, toccò la caviglia che riuscì a raggiungere: Ahmuls urlò. Probabilmente non aveva conosciuto spesso il dolore, almeno da quando era diventato abbastanza grosso.

Jackson arretrò. «Ascolta, Ahmuls… Adesso non puoi alzarti per attaccarmi. Mi ascolti?».

Ma Ahmuls poteva alzarsi. C’era gente che camminava con una gamba fratturata… E magari correva, se doveva farlo e se era in stato di shock. Tutto stava nella misura dell’effettiva incapacità fisica introdotta nella loro struttura fisica. Erano capaci di continuare a correre fino a che tutto si disintegrava. Succedeva di continuo, sui campi di football e nell’addestramento dei paracadutisti. Il guaio era che spesso li faceva correre ancora più forte. E adesso Ahmuls era nelle stesse condizioni.

Jackson guizzò, aggirando la carica di Ahmuls. I suoi riflessi erano più lenti, ma il metodo era infallibile contro gli attacchi, purché l’occhio riuscisse a registrarli. Toccò Ahmuls sulle costole. Il fianco di Ahmuls si trasformò in una sacca scorticata di sangue. Maledizione, non sporcarmi!, pensò Jackson, mentre lo evitava di nuovo. Ah, stupido animale! «Arrenditi!», urlò.

Ahmuls lo caricò con un grugnito: «Lasciami stare, lasciami stare!».

Jackson gli toccò entrambe le braccia. Dovette reggere l’urto di Ahmuls, ma lo ricevette dalla parte del fianco ferito dell’avversario: e, del resto, da quel momento Ahmuls non poteva più usare le braccia per avvinghiarlo. Le muoveva, certo, ma si piegavano in troppi punti, e Jackson riuscì a passare in mezzo.

«Fai venire qui il dottore!», urlò.

«Attento alle mie componenti!», gridò Susiem, mentre Ahmuls barcollava.

«Vai al diavolo, tu e le tue componenti!», gridò Jackson. Toccò Ahmuls alla base della schiena e sentì la carne trasformarsi in poltiglia mentre lo shock si irradiava dal punto di contatto, e poi toccò di nuovo lo stesso punto, tanto per stare sul sicuro; questa volta sentì sulla punta delle dita la stessa sensazione che si prova da bambini, quando si spinge un dente da latte fuori dall’alveolo. Ahmuls mulinò le braccia flaccide: ma non aveva più nulla che gli reggesse le gambe e stramazzò, piegandosi su se stesso sopra la caviglia spezzata, tendendo le braccia fratturate per afferrarlo, crollando sul fianco fratturato e poi sulla faccia. Restò accasciato sulle ginocchia, con le braccia protese, la faccia schiacciata sul pavimento, e un occhio rosso che fissava Jackson.

«Va bene, va bene», piagnucolò. Le lacrime trovarono canali nascosti fra le grinze della guancia.

Jackson si lasciò cadere in ginocchio accanto a lui. «Avevo cercato di dirtelo», mormorò.

«Yuh». Ahmuls avventò il collo, come poteva, rapidissimo, cercando di addentare il polso di Jackson. Jackson gli spinse giù la testa. «Piantala. Per piacere, piantala».

«Yuh. Yuh, va bene, va bene, non mi resta niente». Le sue dita strisciarono verso la caviglia di Jackson, trascinandosi dietro il braccio. Jackson le premette con il ginocchio. Il dottore entrò e si fermò.

«Bene, maledizione», urlò Jackson, «cosa stai aspettando?».

«Non ho l’autorizzazione».

«Sta bene. Secondo le disposizioni veterinarie d’emergenza, dichiaro che questo è un essere alieno prezioso e innocuo in grave pericolo. Ti ordino di procedere e di prestargli le cure mediche nella misura consentita dalle tue conoscenze e dalla tua esperienza!».

I fianchi del dottore si aprirono. «Sissignore. Non è un problema».

Ahmuls aveva desistito dal tentativo di muovere le dita sotto il ginocchio di Jackson. Accanto alla sua faccia, il pavimento era bagnato. «Cosa volete fare? Cosa volete farmi, brutte cose molli?».

«No, no, tutto a posto, Ahmuls», disse Jackson. Con la mano posata sulla testa di Ahmuls faceva movimenti carezzevoli, nel punto dove un amsir avrebbe avuto le trine. «Il dottore ti guarirà. Dovevi ascoltare, Ahmuls. Perché diavolo non sei capace di ascoltare? Io ti voglio bene».

«E dovevi picchiarmi?».

Il dottore raccolse Ahmuls tra le braccia. Era sorprendentemente delicato. Lo sollevò quasi con tenerezza, per fare in modo che Ahmuls stesse comodo. Era davvero di una gentilezza sconvolgente.

Una macchina della manutenzione era già sgusciata fuori dal suo recesso nella parete. Ronzava intorno ai tre, giostrando per raggiungere i punti danneggiati del ponte.

«Aspetta il tuo turno, Susiem», disse rabbioso Jackson, affrontando la macchina della manutenzione come se avesse occhi e orecchi. «Non hai un po’ di discrezione, neppure un po’».

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