CAPITOLO 6

I

Era caldo e fastidioso, stare sepolto nella sabbia. Secon Jackson era esasperato. Se ne stava disteso a cercare di respirare il meno possibile, tenendo in vista soltanto il naso, sondando con l’udito il mondo circostante. Doveva essere un terzo d’una dozzina di ore da quando s’era allontanato dalla Spina. E da un po’ aveva cominciato a sentire riverberi nel suolo… Il chucka-chucka-chucka di piedi che correvano talvolta vicino e talvolta lontano. I suoni provenivano sempre dalla direzione della Spina, e quindi si capiva che non erano amsir. Per la verità, era giusto abbastanza lontano dalla Spina per mettere in difficoltà chiunque cercasse di trovarlo, ma non tanto lontano da essere veramente nel territorio degli amsir.

Calcolava che, anche con trenta o quaranta Honor da mandar fuori a cercarlo, l’Anziano avrebbe faticato parecchio a trovarlo, entro il raggio che lui aveva messo tra sé e le casette di cemento intorno al grande spuntone metallico.

Non si preoccupava troppo dell’eventualità che lo trovassero, un po’ perché non c’era abbastanza gente per cercare davvero, e un po’ perché, chiunque fosse a trovarlo, ce ne sarebbero voluti più di uno o due. Quasi sempre se ne stava lì e sognava. C’erano tante cose, lì nel deserto, giavellotti, Honor morti, e molto probabilmente anche alcuni amsir morti, trafitti da Honor feriti, senza che nessuno potesse indicare dov’erano, se gli Honor non ce la facevano a ritornare al villaggio. Sognava tutti, quegli uomini morti, sotto la sabbia con lui. A giudicare dal modo in cui aveva parlato l’Anziano, le cose continuavano da molto tempo ad andare come stavano andando ora. E in quel tempo, molti giavellotti metallici e molti Honor morti dovevano essere finiti nascosti lì intorno. Se fosse stato possibile coltivare quella campagna così ben concimata, chissà quanti giavellotti si sarebbero ottenuti!

Ma non puoi coltivare niente quando non puoi respirare; e se sei un contadino, conosci un modo solo di respirare. Bene, pensò Secon Jackson, in quanto a questo, se sei un Honor conosci un solo modo di respirare. Se fossi un amsir probabilmente non ne sapresti di più. Oh, un uomo poteva trovare due, tre modi diversi di procurarsi aria e acqua, ma non era questo che lui intendeva con il suo sogno.

Non osava muoversi molto. S’era dato molto da fare per cancellare le sue tracce, e c’erano abbastanza increspature sulla sabbia, in modo che, anche quando non udiva i chucka-chucka, c’era una specie di sibilo nelle sue orecchie. Una dozzina di dozzine di dozzine di dozzine di granelli di sabbia, pensò, aridi come la vita, che si strofinavano l’uno contro l’altro. Vide se stesso galleggiare sulla sabbia, e sprofondare e sprofondare. Mosse un mignolo, e per lo spessore di un granello di sabbia il mignolo affondò ancora di più. Dello spessore di un granello di sabbia che si spostava sotto di lui e riempiva lo spazio sopra di lui, era più vicino a sprofondare dove si arrestava la profondità. Potrei galleggiare, pensò, potrei galleggiare qui a lungo, ma affonderei poco a poco.

Cos’è questa roba? Polvere. Niente. Fuori, al limitare dei campi, oltre i confini d’erba del villaggio, saliva come un fumo nell’aria, come una speranza, e poi si attorceva su se stessa, salendo e diradandosi, così fine che potevi passarci in mezzo quasi senza accorgerti che c’era, e potevi vederla solo di taglio, quando ne attraversavi il centro. Poi acquisiva sostanza… Una linea sottile, giallosporco, che s’incurvava in un arco e probabilmente arrivava poco sotto la griglia in cima alla Spina, ma si disperdeva, e non era più visibile a quell’altezza. Così rarefatta da poterla bere.

Chucka-chucka-chucka. Qualcuno si stava avvicinando, ma ad angolo. Secon Jackson lo capiva perché i suoni non diventavano più forti con tanta rapidità, mentre battevano sulla sabbia. Qualcuno che correva: un Honor convinto di trovare Secon Jackson da un momento all’altro.

Si chiese che cosa stesse dicendo l’Anziano ai contadini, per spiegare cos’era accaduto a Secon Jackson. Si chiese se l’Anziano si sarebbe preso il disturbo di dire qualcosa… Sapevano tutti che Secon Jackson era pazzo; o, se anche non lo sapevano, adesso l’avrebbero capito. Si chiese che cosa pensava l’Anziano. Doveva essere trascorso molto tempo da quando un altro Honor aveva abbandonato il suo banchetto, molto tempo da quando l’Anziano aveva ritenuto di doversi domandare che cosa stava facendo qualcuno. Secon Jackson sorrise cautamente, con la sabbia che gli mormorava sulle labbra, e continuò a sognare.

Sognò per il resto del breve pomeriggio, e nel crepuscolo. Quando fu buio e freddo, e furono trascorse tre dozzine di parti di un giorno da quando aveva dormito, scivolò fuori dalla sabbia. Cribbio, pensò guardando la notte, spero di sapere bene quello che faccio.

Cominciò a incamminarsi verso l’orlo del mondo. Si sentiva un po’ appesantito.

Di tanto in tanto appoggiava la faccia al suolo e di tanto in tanto poteva sentire il suono della corsa degli Honor, chucka-chucka, in distanza. Solo perché non riuscivano a immaginare qualcosa d’altro, stavano incrociando avanti e indietro attraverso la linea lungo la quale il suo amsir l’aveva condotto il giorno prima. E avevano ragione, perché lui si era diretto da quella parte. Pensava che forse gli amsir tornavano sempre a quella linea, alla fine, quando avevano attirato gli Honor abbastanza lontano dalla Spina. Ma lui non era un Honor stupido. Per il momento era diretto secondo un angolo diverso, e copriva più terreno di quanto potevi coprirne se avevi solo una bolla usata d’acqua e intendevi ritornare alla Spina.

L’aveva fatto di proposito. Li immaginava mentre confabulavano e concludevano che lui non sarebbe mai andato a uno dei rubinetti della Spina. Li immaginava mentre concludevano che non potevano capire cosa diavolo aveva pensato lui, per andarsene in quel modo. Aveva immaginato che non l’avrebbero creduto, quando era passato davanti a una fila di casupole, e poi davanti alla seconda un po’ più lontana, e poi davanti alla terza, e poi fuori, nel campo più vicino, e in quello successivo, e così, sempre avanti. Non potevano crederlo; quando era sparito alla vista della gente intorno alla Spina, coperto dalle case che stavano fra lui e loro, immaginava che non avrebbero creduto che lui non si sarebbe fermato appena fuori di vista. E invece l’aveva fatto; se ne era andato, senza provviste sufficienti, se ne era andato senza mangiare, e ora era avviato nella direzione sbagliata, e quelle erano le sole ragioni per cui se ne era andato.

Be’, no, pensò Secon Jackson. Se ne andava perché poteva immaginarli, mentre loro non potevano immaginare lui. Non avrebbero mai potuto immaginare quello che voleva. In quanto a questo, non lo poteva immaginare neppure lui. Ma poteva cercare di raggiungerlo.

Il dardo di Red Filson lo colpì al gomito.

Lo fece roteare su se stesso e lo stese a terra e gli mise fuori uso il braccio sinistro. Balzò via, gettandosi da un lato, senza sapere ancora contro chi stava combattendo; sapeva, solo perché gli rotolava sopra, che nel suo gomito era piantato un dardo e non un giavellotto.

Adesso il trauma lo stava squassando. Era così tremendo che si sentiva irrigidita persino la nuca. Non aveva mai subito un colpo simile in tutta la sua vita. Poi vide la sagoma d’uomo balzare verso di lui. Era Filson. Giorno fortunato, pensò Jackson.

«Peccato, Honor», disse Filson, preparandosi a trafiggerlo. Era svelto, svelto quanto Jackson l’aveva sognato, e Secon Jackson poteva solo sperare di essere svelto quanto aveva sognato di essere lui stesso. Si portò fuori tiro dal primo balzo, ma non riuscì a piantare saldamente i piedi. Quando tentò di voltarsi, il braccio sinistro inerte gli urtò il ginocchio. Cadde di nuovo, come se l’avesse colpito Filson. Era come battersi in un sogno.

Filson era efficiente. Era come i racconti delle vecchie. Jackson si buttò in avanti, sulle ginocchia, sapendo esattamente che quel movimento l’avrebbe spinto entro la portata del calcio di Filson, e sapendo esattamente cosa avrebbe cercato di fare a Filson, poi. Ma Filson gli sferrò egualmente un calcio. E Jackson cadde di nuovo.

Aveva il bastone da lancio, ma non aveva nessuno dei suoi dardi. Il massimo che poté fare era afferrarsi il polso sinistro e graffiare il fianco di Filson, usando la testa del dardo che spuntava dal gomito. Forse aveva anche tagliato leggermente l’altro (gli sembrava di aver sentito la punta intaccarsi per un momento), ma era una difesa ben misera, no? Sferrò un colpo a Filson con il bastone e lo mancò; lo lasciò cadere, afferrò una manciata di sabbia, la gettò in faccia all’altro, ma sembrò che non avesse effetto. «Ragazzo, che guaio hai combinato», disse Filson. «Ti avrei scelto come la mia migliore guardia, quando fossi diventato Anziano. A tua madre sarebbe piaciuto. E adesso, guarda cosa stai facendo alla tua famiglia».

Mi lasceranno in pace almeno ad Ariwol?, pensò Secon Jackson, mentre si contorceva per sottrarsi di nuovo a Filson. Cercò di pensare a tutto quello che poteva fare con un braccio solo. Poteva strappare la calotta di Red, forse. Ma la sua era allentata, e gli sobbalzava sulla testa; non era nelle condizioni ideali per un gioco che si poteva giocare in due. Tentò di afferrare il braccio con cui Filson reggeva il dardo, ma era come cercare di trattenere un pezzo della Spina che avesse preso vita. Riuscì solo a piantare le unghie nel bicipite di Filson, mentre lasciava la presa. Calcolò che avrebbe dovuto impiegare due o tre giorni per ucciderlo a unghiate.

Girò su se stesso e tentò di strapparsi il dardo dal gomito, per avere anche lui un’arma: ma quel tentativo quasi lo fece svenire.

Si azzuffavano e saltellavano come due bambini sotto una coperta, là fuori, roteavano e brancolavano, cercando nell’oscurità, sollevando la polvere, provocando suoni che sembravano schiaffi, tanto tentavano di abbrancarsi l’un l’altro e si mancavano. Ma non sarebbe durata ancora a lungo, prima che Filson mettesse a segno l’altro dardo. Jackson lo sapeva, e Filson lo sapeva. Filson si comportava come se fosse un allenamento. Trovava addirittura il tempo di parlare. «Dove credevi di andare?», ansimò. «Sta bene essere pazzo, ma non avevo mai pensato che fossi scemo».

Forse credeva che quella sarebbe stata la battuta conclusiva. Il suo braccio si piegò, si abbassò e si rialzò, e l’avambraccio scattò, avventando il dardo verso la faccia di Jackson. Jackson si lasciò cadere, sfuggendogli, ma balzò in piedi di nuovo. Fece un tentativo di sbattere insieme le ginocchia di Filson, e poi si buttò di traverso, sottraendosi appena al colpo dell’altro. Jackson era a terra, con metà faccia contro la sabbia.

E questo determinò la differenza. Sentì i suoni nuovi che si avvicinavano rapidi… chicka-sip, chicka-sip, chicka-sip.

Mentalmente, ma molto in fretta, Secon Jackson rise come un pazzo. Stava funzionando, dopotutto. E, adesso, rischiava di morire prima di poterne avere la certezza. Ma forse ci sarebbe riuscito, se avesse potuto tenere a bada Red.

Dovette interrompersi per sottrarsi alla nuova carica.

Ma era bello sapere che aveva intuito tutto esattamente dal momento in cui, nella stanza dell’Anziano, nella Spina, aveva cominciato a pensarci, perché… Dove esisteva un’altra speranza per lui?

Lanciò la risata nell’aria fredda. «Uh!». Sferrò un calcio alla caviglia di Red, lo costrinse ad arretrare saltellando. «Io so dove sto andando». Be’, no, non lo sapeva, ma sapeva con chi sarebbe andato. Chicka-sip, chicka-sip, chicka-sip, whop! Quello era il suono dell’amsir in corsa che atterrava pesantemente su entrambi i piedi, lì vicino. Contro le stelle e l’orizzonte, Jackson intravide per un attimo un giavellotto, un’ala che si spiegava.

«Mi arrendo! Mi arrendo!», gridò Jackson all’amsir, lanciandosi per abbrancare Red che s’era distratto. Le sue due dita rigide si agganciarono nelle narici di Filson. Il braccio si tirò all’indietro, con forza: e nello stesso tempo Jackson piantò saldamente un piede e sferrò un calcio all’inguine di Filson. Filson si piegò in due, con entrambe le mani ancora premute sulla faccia dilaniata e stravolta. Jackson strappò il secondo dardo di Filson alle dita inerti e poi fece ancora un movimento, con il dardo tenuto nel modo adatto per tagliare le finestre. Lasciò cadere l’arma, e restò con il pollice e l’indice destro stretti al braccio sinistro, sopra il gomito. L’amsir lo guardava, con il giavellotto alzato. Soltanto le sue trine si muovevano.

«Mi arrendo», disse Jackson, gli occhi su Filson raggomitolato a terra. Scalciò un po’ di sabbia verso il morto. «Il mio nome è Honor Red Jackson».

II

«Verrai con me, diavolo bagnato?», chiese l’amsir, con quella sua voce acuta, sconcertata. Si capiva che era fiero… ma si capiva che non aveva compreso nulla di quanto era accaduto. E anche questo andava bene, pensò Jackson.

«Per forza», disse Jackson. «Altrimenti, sarà stato tutto inutile. Mia madre è rimasta vedova due volte, e per niente».

«Tu sei ferito, diavolo. Perdi liquido. Vieni con me, presto».

«Ti seguo».

«Precedimi».

Corsero nella notte e nel deserto, chucka-chucka-chucka, chicka-sip, chicka-sip. L’amsir indicò la direzione a Jackson con lievi tocchi della punta del giavellotto, fino a quando raggiunsero il posto che l’amsir voleva, e l’uccellaccio coriaceo disse: «Fermati. Scava qui».

Jackson si accovacciò e fece del suo meglio, con una mano sola. Dopo aver scavato per la profondità di mezzo braccio, sentì sotto le dita qualcosa di duro e di arrotondato. Lo tirò fuori. Era una specie di vescica, due volte più larga di una testa umana. A toccarla sembrava fatta di cuoio verniciato a colla; sentiva le cuciture e un tappo arrotolato di minugia.

«È roba da respirare», disse l’amsir. «Presto ne avrai bisogno. La calotta di ferro ormai è quasi inutile. Scava di più. C’è una bottiglia di liquido e ci sono panni per dare calore. Ci sono toppe per la tua pelle».

Jackson li tirò fuori. La bottiglia d’acqua aveva le dimensioni della bolla d’amsir che portava sulla schiena, ma al tatto era come la vescica dell’ossigeno. Gli indumenti erano di una specie di pelle, conciata e morbida. Avevano usato il cuoio anche per le fasce. Avevano pensato a tutto, quando avevano nascosto lì il necessario per portarsi via un prigioniero; sapevano che difficilmente avrebbero potuto procurarsene uno senza ferite.

Jackson non riuscì ancora a estrarre il dardo, e perciò si legò il braccio, usando la mano sana e i denti per fare il nodo. L’amsir non si avvicinava a lui: si teneva alla distanza del giavellotto.

C’erano tracolle per la vescica d’ossigeno e per la bottiglia d’acqua. Jackson sganciò la sua bolla, la vuotò e la gettò via nel buio, prima di sostituirla con la bottiglia dell’amsir. Poi disse: «Pronto», e ricominciò a muoversi verso il punto dove, una volta, era stato il suo orizzonte.

Mentre camminavano, chiese: «Hai già portato altri prigionieri?».

«Tu sei il primo».

Senza dubbio abbiamo perso molte verginità, oggi, pensò Jackson. Cominciava ad avere un gran freddo. Dopo un po’ dovette estrarre il tubo di minugia incollato alla vescica d’ossigeno, infilarsene in bocca l’estremità e servirsene per respirare, stringendo il tubo fra due dita per non morire con i polmoni scoppiati, come gli aveva spiegato l’amsir.

Quando il Sole si levò, lo videro prima di tutti coloro che Jackson conosceva, perché erano in cima all’orlo del suo mondo.

Jackson era gelato. Doveva tenere le palpebre socchiuse. Sentiva un dolore fortissimo al naso e negli orecchi. Vide che i suoi indumenti erano fatti di pelli umane cucite insieme, e per un minuto si lasciò vincere dalla paura e dalla furia, ma poi ricordò la bolla d’amsir che aveva gettato via, e si disse che non aveva molta importanza. O forse l’aveva, ma non adesso.

«Affrettati. Morirai, qui, ma non manca molto prima di arrivare a una certa… comodità».

Jackson socchiuse gli occhi e guardò davanti a sé. E vide un altro grande mondo a forma di piatto. Ma questo era verdazzurro da un orlo all’altro: la terra era divisa da steccati leggeri come corde tese. C’erano alte case su palizzate, che luccicavano rosee e ocra e azzurre, giallovive e verdi, e gettavano riflessi nella luce del sole. Linee merlettate, fragili come gli steccati, andavano da una casa all’altra, ondeggiando in archi liberi, e univano l’intera città in una sorta di rete. E al centro di quel mondo, lontano, poté scorgere una Spina. Una Spina alta, massiccia, rilucente, non la cosa tozza, inclinata, striata di ruggine sotto la quale lui era nato. Una trama incantata di griglie s’intrecciava nell’aria intorno alla vetta. E dovunque, gli amsir volteggiavano, caprioleggiavano, giocavano nell’aria del primo mattino.

Aria. Densa, limpida e lucente, si tese per avvilupparlo quando l’amsir lo spinse avanti.

Ariwol!, pensò Jackson, Ariwol, in nome di tutta la devozione! Inarcò la schiena e guardò di nuovo il cielo. Gridano e cantano e ridono, pensò. Ma non ti vedo, Red.

Загрузка...