CAPITOLO 9

I

Era caldo, in cima alla scaletta, mentre Ahmuls canterellava felice pochi gradini più sotto. Jackson passò di nuovo le mani sulla porta, e ancora una volta constatò che era esattamente come tutte le altre porte, a parte il fatto che non aveva maniglia e parlava. S’era abituato al borbottio. C’erano le scalfitture intorno ai bordi, dove molte mani, prima di lui, avevano tentato di insinuarsi. Una o due delle scalfitture aveva una profondità pari allo spessore di un’unghia. L’Anziano gli aveva detto che c’erano punti dove tutti, prima o poi, finivano per grattare sui vecchi graffi, cercando di approfondirli. Secondo la stima dell’Anziano, la scalfittura più profonda era stata fatta da una dozzina di uomini che avevano lavorato giorno e notte, all’incirca per due settimane ciascuno. E aveva lo spessore di un’unghia. Le porte, nella Spina, avevano uno spessore di due braccia. Ma era possibile, pensò Jackson, che tra una settimana o dieci giorni lui cominciasse a dirsi che la porta non era molto spessa… forse non più di un dito. Probabilmente, durante gli ultimi due o tre giorni in cui sarebbe rimasto aggrappato lassù, avrebbe detto a se stesso che da un momento all’altro l’avrebbe sfondata.

Era facile infuriarsi contro quella porta. Era soltanto una sottile fessura ovale nel metallo. Un uomo sensato, che avesse altre cose da fare, avrebbe detto a se stesso, in meno di un’ora, che non era una porta… era un falso corrugamento del metallo. Avrebbe ridisceso la scaletta e non avrebbe più ritentato. Non si capiva da dove uscisse la voce. Era la prima volta che Jackson aveva incontrato qualcosa che poteva parlare ma non aveva bocca.

Accostò l’orecchio alla porta, cercando di udire il battito del cuore che sentiva attraverso le punte delle dita; ma quando lo fece, la voce continuò, dentro la sua testa, e non riuscì a udire null’altro. Si sporse verso l’esterno, per quanto osava farlo, e la squadrò di nuovo. Poi disse: «Ehi, Ahmuls, andiamo giù».

«Giù?».

«Giù. Andiamo giù». «Sei stupido», disse Ahmuls, ma cominciò a scendere, un gradino per volta, assicurandosi che Jackson lo seguisse. L’amsir istruttore, che aveva assistito alle operazioni, corse verso di loro. «Cosa succede?».

Ahmuls sogghignò e indicò Jackson. «Lui è venuto giù. È stupido».

«Ho imparato tutto quello che c’è da imparare, lassù», disse Jackson.

«E dove intendi imparare qualcosa di più?».

«Questo è il vero problema, credo… Rispondere a questa domanda. Ma ho imparato tutto quel che c’è da imparare, lassù», disse Jackson, e si avviò verso la Spina.

«Non lasciarmi!», gridò Ahmuls, afferrando Jackson per il braccio illeso.

«Non importa, Ahmuls, caro», si affrettò a dire l’istruttore. «Tu aspetta qui… Lo riporterò. Sarà con me».

«Bene. Ma tu lo riporti indietro», disse dubbioso Ahmuls.

«Che cos’hai intenzione di fare?», chiese l’istruttore, frusciando a fianco di Jackson, con gli occhi accesi di curiosità.

«Studiare le porte», disse Jackson. Indicò la Spina, con il pollice. «Lì dentro ce ne sono parecchie».


Per tutto il pomeriggio esaminò porte, puntellando i piedi e i gomiti nelle intelaiature ovali, meglio che poteva, cercando di capire che sensazione dava essere così spessi, così alti, così piatti. Si scostava brontolando quando qualche amsir arrivava pesantemente lungo i corridoi. Si appiattì contro una parete e restò così a lungo, con le dita delle mani e dei piedi incurvate intorno allo stipite, come cardini. Alla fine del pomeriggio aveva un’idea piuttosto chiara di quello che doveva pensare una porta, di quello che provava nei confronti della gente. Ma si trattava sempre di una porta che aveva una maniglia.

A sera, il piccolo spazio vuoto che lui sognava d’avere nello stomaco, dove dovevano essere i meccanismi della maniglia d’una porta, era diventato qualcosa che, doveva ammetterlo, somigliava all’inizio della fame in un uomo che si permetteva di pensare al cibo. Era l’unica conquista di quel giorno, e doveva ammettere che era una sconfitta. Verso sera, Ahmuls venne a cercarlo, molto depresso perché l’istruttore non gli voleva bene, altrimenti gli avrebbe riportato Jackson, depresso perché Jackson non voleva ritornare sulla scala, depresso perché il Sole stava calando ed era ora di tornare indietro, a dormire, ad attendere un altro mattino e la scala e Jackson, e nel frattempo nessuno gli avrebbe detto che gli voleva bene.

II

Al mattino, Jackson risalì la scaletta. Ahmuls gli batté la mano sulla spalla con fare d’approvazione e si scostò per lasciarlo passare. «Adesso sei furbo», gli disse.

«Lieto di saperlo», rispose Jackson. Il dottore gli aveva medicato di nuovo il braccio, con i soliti risultati. Jackson si sentiva il braccio fino al collo, fin dentro la testa, in quella splendida mattina di sole, mentre tutti gli amsir svolazzavano felici in cielo, e Ahmuls farfugliava e ciabattava su per la scaletta, dietro di lui. Quando arrivò in cima, sedette rivolgendosi verso l’esterno, appoggiando la schiena e la nuca al metallo, i piedi sull’ultimo gradino, a scaldarsi. Incrociò le braccia sulle cosce piegate.

Cominciò a parlare, distrattamente. «Sai, porta, ieri sera ho impiegato tanto tempo, cercando di essere come te».

La porta disse: «Ouwwtenshownneh. Qhhvvesshtaa pwourrtaah shii awpprreeh shwoulou…». E così via.

«È stato inutile. Un uomo non può essere una porta. Può fingere di essere una porta… può dirsi che è una porta. Ma un uomo non ha cardini. O, almeno, non ha il tipo di cardini che ha una porta. E un uomo non può essere affatto una porta come te, perché un uomo ha le maniglie… o meglio le mani».

«…dhaysstrouhttih ihndiishchriihminhautammennteh», disse la porta.

«Quindi devo pensare a me stesso, porta», disse Jackson, senza prestare attenzione, mentre la porta ricominciava.

«Ehi! Stai parlando a me?», chiese stizzito Ahmuls dal basso.

«No».

«Thwouhttii l auhlttriih…», disse la porta.

«Devo domandarmi: se un uomo non può essere una porta, una porta può essere un uomo? E credo che conosciamo entrambi la risposta. Sei stupida, porta. Conosci la differenza tra un essere come me e un amsir. Devi tenere fuori gli amsir, quindi forse devi lasciare entrare gli uomini. Voglio dire, questo l’ha capito persino l’istruttore. E l’ha capito anche il loro Anziano, quindi tutto quadra. Ma tu non vuoi lasciarmi entrare. Non mi stendi, ma non mi lasci entrare. Non stendi neppure Ahmuls, e questo è un errore. No, no, non c’è niente da fare… Sei stupida. Quindi devo pensare come posso rendermi stupido quanto una stupida porta che crede d’essere un uomo».

«…ihndiishchriihminhautammennteh».

Jackson girò la testa in un modo che appariva molto pigro e casuale, e che sarebbe stato casuale in un uomo che non avesse il braccio tanto dolorante. Ahmuls era lì, e lo guardava. Durante le occasioni in cui Ahmuls aveva svolto quella mansione, aveva imparato che se inclinava la testa all’indietro e torceva le spalle in un certo modo, non doveva usare le dita per scostarsi dagli occhi le pieghe pendule della pelle. «Ti voglio bene», disse Jackson.

«Sei orribile», rispose Ahmuls, con tono definitivo.

«Dunque, stavo dicendo, porta… Sei stupida! Ma hai le orecchie e il tatto e credo anche che tu possa vedere, anche se non parli in modo chiaro».

«…peer l perhrrsowwnnuhlleh hmmahnoh».

«Ora, il fatto è, porta, se non lasci entrare me e non lasci entrare gli amsir, cosa mai hai lasciato uscire che avrebbe voluto rientrare? Doveva essere qualcosa che parlava come te ma che ha il mio aspetto, no, porta? O almeno», disse Jackson, ascoltando il canterellare di Ahmuls mentre la porta continuava a parlare, «almeno qualcosa di molle. Ma tu sei qui fin dall’inizio del tempo. Cos’è successo a quel che hai lasciato uscire allora? Porta, credo che da qualche parte tu abbia un ritratto di quello che dovresti lasciar rientrare. Un ritratto che parla, credo: ma credo che sia proprio questo. Qualcosa che ti permette di fare un confronto. Qualcosa che tu sei troppo stupida per dimenticare».

Si stava facendo caldo. Jackson si asciugò la faccia.

L’istruttore, laggiù, sembrava agitato. Si cinse il becco con la mano e gridò: «Ahmuls! Cosa succede?».

«Niente».

«E allora, perché la porta ha smesso di borbottare?».

Jackson trasse un respiro lungo e profondo. Si girò e guardò la porta, aggrappandosi con la mano sana e facendo del suo meglio con quella dolorante.

Non era il momento di cadere. «Stupida porta!», disse. «Questa è solo la prima cosa che mi è venuto in mente di tentare».

Sotto di lui anche Ahmuls si spostò, dimenticando che non poteva vedere bene se non rimaneva a testa in giù.

«Va bene, porta… se sono riuscito a farti ricominciare a pensare, dopo tutto questo tempo… va bene, se tu sai ascoltare meglio di quanto parli, allora sai com’è quello che hai lasciato uscire, e sai come parla. Non può essere tanto difficile!», disse, improvvisamente irritato. «Se quell’istruttore è riuscito a capire alcune delle tue parole, allora qualcosa di tanto intelligente da capire la differenza fra amsir e un uomo dovrebbe capire quello che dico io. Apriti, stupida bastarda!», gridò.

Il battito del cuore dell’Oggetto cambiò. Vi furono uno scricchiolio, un risucchio, uno schiocco. La porta balzò indietro per lo spessore di un dito e poi scivolò rapidissima in uno spazio fatto apposta, rientrando nella pelle dell’Oggetto.

Jackson si rigirò affannosamente sulla scaletta. Laggiù, sotto di lui, l’Anziano fu un po’ lento nell’organizzarsi. C’erano lancieri che tiravano, dal basso, ma non avevano avuto il tempo di prendere bene la mira.

Stava accadendo tutto troppo in fretta, per tutti. Jackson non aveva immaginato che la porta avrebbe capito quello che diceva, e nonostante tutte le sue chiacchiere, l’Anziano non aveva previsto che Jackson sarebbe riuscito ad aprirla tanto presto. Perciò, questo sventò tutti i pensieri taciti dell’Anziano, il quale aveva deciso che, una volta aperta la porta, non avrebbe più avuto bisogno di Jackson, perché aveva Ahmuls, o forse avrebbe potuto procurarsi altri esseri della specie di Jackson ma un po’ meno furbi di lui. Bene, tutti quei piani andarono all’aria, perché Jackson varcò la porta, entrò in una stanzetta buia, ridendo e imprecando, prima che i lancieri s’innalzassero in volo. Anzi, l’unico che era rimasto calmo era Ahmuls. Gli era stato ripetuto parecchie volte quel che doveva fare, e adesso lo fece. Balzò attraverso l’apertura e si fermò accanto a Jackson che giaceva sul pavimento. «Vengo anch’io», disse, felice di rendersi utile.

Jackson espirò lentamente mentre i primi due giavellotti penetravano sibilando dall’apertura, scagliati dai lancieri svolazzanti e nervosi. Si chinò, schivandoli, mentre rimbalzavano sulle pareti. «Ti credo», disse.

C’era un’altra porta, all’estremità della minuscola camera.

E sopra era accesa una fulgida lampada rossa. Poi la porta esterna si chiuse, la lampada si spense, una luce gialla scese dall’alto, e la porta interna si aprì… thuck, wink, wink, thum! Più oltre c’erano tante cose: sembravano quelli che Jackson immaginava fossero i macchinari della Spina. Attraverso il metallo che li circondava, Jackson e Ahmuls udirono la porta esterna gridare sotto i colpi dei giavellotti. La sua voce era troppo concitata, troppo acuta. Sembrava scossa dal panico.

«Attenzione! Attenzione! Questo sistema è stato regolato sull’accelerazione. Questa porta si apre solo per il personale umano. Tutti gli altri saranno distrutti indiscriminatamente. È stato già dato un avvertimento intelligibile».

«Era ora», disse Jackson.

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