CAPITOLO 12

I

«Dammi un’inquadratura audiovisiva dell’esterno», disse a Susiem, e sedette al posto di pilotaggio.

Susiem girò uno schermo verso di lui. Gli autoparlanti si riempirono dei suoni dell’esterno; il fruscio delle ali, il mormorio del vento, lo scricchiolio di vaste distese metalliche all’aperto. Gli amsir volavano di sentinella davanti al portello, avanti e indietro, con i giavellotti branditi. C’era una quantità di lance spezzate, a terra, sotto la scaletta. Sulla soglia della Spina erano intruppati l’Anziano degli amsir, l’istruttore, e una decina di apprendisti, in pose non essenzialmente utili. Li sentì parlare; regolò con impazienza il comando dell’audio per distinguere le loro parole. Erano desolati e litigiosi.

«E io dico che dobbiamo riconoscere la possibilità che gli intrusi, qui, siamo noi!», stava dicendo uno.

«Taci! Ricordo benissimo un discorso testimoniato, nel quale venne postulato impeccabilmente che, se l’Oggetto distruggeva al semplice contatto quelli della nostra specie, doveva essere ancora più terribile il fato di qualunque essere che avesse lasciato entrare nelle sue fauci!».

«Taci tu! Sono pronto a sfidare le tue conclusioni!».

«Anziano!», disse Jackson, e l’Oggetto ringhiò agli amsir sulla soglia della Spina. «Anziano… stai indietro!».

«Cosa?». Il becco corneo si alzò. I vivaci occhi scuri scrutavano in direzione del portello, in cima alla scaletta.

«Anziano, ho alcune rivelazioni da farti».

Il comunicatore si spense di colpo.

Lo schermo si oscurò, gli altoparlanti tacquero. «Non sei autorizzato a contaminare l’esperimento!», scattò Susiem. «Stai trascendendo la tua autorità e contravvieni direttamente i regolamenti della spedizione. Non sei autorizzato a comunicare dati ai soggetti sperimentali. Tutti i fatti necessari ai soggetti sperimentali sono predeterminati, programmati, e furono introdotti nel sistema molto tempo fa. Un’eventuale ripetizione di questo episodio causerà la tua automatica e immediata destituzione dal comando. L’incidente verrà registrato sul giornale di bordo. Verrà trasferito agli archivi centrali sulla Terra alla prima occasione, dopo il ristabilimento dei contatti con la rete comunicazioni del Progetto. Ti rivolgo un biasimo ufficiale. Sei autorizzato a riprendere le comunicazioni a condizione però, che non effettui ulteriori tentativi di contaminazione».

Lo schermo e gli altoparlanti si riattivarono. «Stai indietro», gridò Jackson all’Anziano. Contò dieci secondi sull’orologio digitale. «Andiamo, Susiem», disse, e con un’esplosione e un rombo e un lampo partirono, portandosi via la speranza di un mondo, mentre tutto intorno cadevano corpi dilaniati di amsir.

II

La Terra era verde, pastorale, con le colline coronate d’olmi, i rari edifici bassi e di un bianco puro. La Terra era verde, bella, ebbra del vino della vita, in una condizione che non era stata raggiunta molto spesso dai tempi in cui per la prima volta le colline della Grecia erano state disegnate così dall’abile matita di Walt Disney.

Non era sembrato un viaggio particolarmente lungo. Jackson ne aveva trascorso una buona parte sul sedile di pilotaggio. All’inizio aveva contemplato le stelle nelle loro grandi panoplie smaglianti, sorprendendosi al pensiero che adesso finalmente capiva cos’erano, baloccandosi con concezioni d’immensità, dicendosi che era tutto immane, e che la creazione era meravigliosa e insondabile. Fantasie del macrocosmo e del microcosmo assediavano la sua comprensione. Tutto quel grande meccanismo a orologeria, quell’esplosione e quella decadenza, quei cicli ed epicicli d’infinito facevano fremere i suoi capillari di brividi di gioia nel constatare la ricchezza della tavola imbandita davanti a lui. Per un po’, credette di comprendere le complessità infinitamente minuscole che sfrecciavano girando su se stesse per formare ogni millimicrocubito di immensità.

E Susiem contribuiva ad alimentare in lui quella sensazione. Gemeva e strideva, fra tonfi e scossoni; la cuccetta di Jackson tremava alle sue vibrazioni. Ogni accensione, ogni scatto di ticchettante attività pareva riflettere un nuovo spasimo dello sforzo di divorare le miglia tra il punto in cui si trovava e le nebulose su cui si posava il suo sguardo.

Ma trascorsero un paio di giorni, e Jackson si accorse che le nebulose non si erano fatte più vicine. Aveva una chiara comprensione intellettuale delle miglia che venivano scandite ogni giorno sugli strumenti di Susiem. Era convinto che avrebbe dovuto calcolare quanti giorni di gemiti, tonfi e scricchiolii di quel meccanismo instancabile sarebbe stato costretto a sopportare prima di arrivare alla nebulosa più vicina. Pensava che un uomo non poteva sopportare più che tanto.

Naturalmente, Susiem poteva sopportarlo in eterno. E solo qualcuno come Susiem poteva sopportarlo in eterno. E solo qualcuno come Susiem poteva avere la voglia di farlo.

«Come va il dottore con Ahmuls?», le chiese, pensando che fosse un modo adatto per spiegare che si sentiva solo tra una miriade di stelle.

«Controllerò… Riferisce buoni progressi. La guarigione è ben avviata, e il paziente riposa. È docile».

«Sì, bene. Gliene sono successe tante».

Disse a Susiem di chiudere di nuovo gli schermi ad ablazione dei finestrini nella cabina di pilotaggio. E per un po’ si fece proiettare nastri della Terra. Scoprì che era esattamente come la ricordava: brulicante di uomini e delle loro opere, incredibilmente bella, echeggiante di lampi di luce e di suoni, fremente di movimento, e cantava di energia nel vento del mattino e della sera.

Jackson creava per se stesso piccoli momenti di ingenuità. Guardava i fiumi scendere precipitosi dalle montagne e scorrere sulle pianure e diceva a se stesso: non ho mai saputo che ci fosse tanta acqua al mondo. Com’è tutto verde! Com’è ricco! Guardava le città alle biforcazioni dei fiumi, i complessi portuali nei delta dove si mescolavano i fiumi e l’oceano, e gridava tra sé: Thalassa! Thalassa! Comparava il volo degli aerei supersonici allo svolazzare degli amsir e fingeva di vedere un lanciarazzi portatile come il bastone da lancio di un semidio. Allungava il collo per contemplare le guglie altissime delle immense città. E gemeva, nel fondo della sua mente: «Ah, Spina!».

Ah, accidenti, disse quasi subito… Essere un uomo con una laurea! E ordinò a Susiem di smettere.

Cosa doveva fare? Jackson consumò un altro pasto. Questa volta fu delizioso, perché adesso sapeva scegliere. C’era persino il vino. Il vino era molto meglio della birra, ma lo lasciava di malumore.

Chiese a Susiem di suonargli un po’ di musica. Lesse i testi della sua biblioteca, limitandosi soprattutto alla narrativa d’evasione… Soprattutto western, all’inizio. La biblioteca di Susiem aveva un indice molto preciso: servendosene con capricciosa noncuranza, Jackson si imbatté in John Carter di Marte, e da quel momento i suoi gusti si ampliarono. Era arrivato alla lotta di G-8 contro la portaerei terrestre del Kaiser quando Susiem gli fece sapere che poteva parlare con Ahmuls.


«Ti senti bene?».

«Si sente benissimo. Tutte le lesioni strutturali sono state riparate e adesso sono guarite. È stato un lavoro massiccio, ma con tutte le cose che io so fare, e tre giorni di sonno, adesso sta benissimo».

Ahmuls era semisdraiato in una cuccetta dell’infermeria, in un angolo. C’erano ombre sulla sua faccia. Ma teneva le mani alte, a incorniciare le guance, e si vedeva la luce scintillare negli occhi aperti.

«Cosa ne pensi di tutto quanto?», chiese Jackson.

«Fa schifo», borbottò Ahmuls. Jackson dovette riflettere prima di riuscire a capirlo… Borbottava così in fretta, e tante sillabe del suo linguaggio erano cadute dalla nitida parlata del Midwest che Jackson ricordava dall’indottrinamento. «Quella macchina-dottore dice che stiamo andando in qualche posto». Ahmuls continuò a borbottare, e Jackson decifrò tutto esattamente: migliorava, con la pratica. «Dove?».

«Già, bene. Sono qui per spiegartelo. Hai finito di cercare di ammazzarmi?».

«Non posso ammazzarti, figlio di puttana».

«Oh, andiamo, Ahmuls. Sono contento che tu abbia smesso di cercare di uccidermi, ma vorrei che non mi chiamassi così. Senti, non è più come è stato per tutta la nostra vita. È diverso».

«Io non sono diverso».

«Be’, io sì».

«Lo dici tu».

«Vuoi ascoltarmi?».

«Devo ascoltarti. Tu puoi ammazzarmi».

Jackson sospirò e fece un gesto in direzione di una sedia. La sedia uscì prontamente dalla parete. Lui sedette, con la sensazione di essere lì da molto tempo. «Bene. Allora ascolta. Prima eravamo in un posto chiamato Marte».

«Amirs», ripeté studiatamente Ahmuls.

«Bene: dunque c’erano due posti dove viveva la gente. Il mio posto e il tuo».

«Un posto solo, dove vivevano gli amsir. Tu non sei gente. Forse io non sono gente. Ma almeno non sono molle come te».

«C’erano due posti dove viveva la gente. Gli amsir e gli umani. Ma venivano dallo stesso posto. Gli amsir avevano un aspetto diverso dagli umani perché qualcuno voleva vedere se si potevano cambiare gli umani».

«Gli umani sono diversi dagli amsir. Gli amsir sono la gente».

E avanti così. Jackson trascorse gran parte del resto del viaggio tentando di spiegare la genetica ad Ahmuls. Ma Ahmuls era convinto di sapere già più di quanto potesse insegnargli chiunque. Stava quasi sempre seduto sulla cuccetta, mangiando piccole confezioni cubiche di lichene che gli venivano preparate da Susìem secondo il menu prescritto dal dottore, ma ascoltava perché Jackson avrebbe potuto ammazzarlo, se non l’avesse ascoltato. Questo, Ahmuls sembrava averlo imparato molto prima di avere Jackson per insegnante.

Finalmente, Susiem annunciò a Jackson che tra poche ore sarebbero atterrati a Columbus, Ohio, e che lui avrebbe fatto bene a cercare di rendersi presentabile.

«Sta bene», disse Jackson. «Ahmuls, hai sentito? Fra poco avrai la possibilità di vedere veramente qualcosa. Vedrai più gente e più macchinari di quanti tu e io possiamo immaginare. Vedrai il posto da dove veniamo tutti. La tua gente, la mia gente, la gente degli amsir. Veniamo tutti dallo stesso posto. Vedrai gente che vive in case alte come duecento case. Vedrai posti che, al confronto, il posto dove vivono gli amsir non sembra più grande di una casa degli amsir di fronte al villaggio intero. Vedrai cose che sfrecciano nel cielo trecento, cinquecento volte più veloci di quanto possa volare un amsir scendendo in picchiata».

Ahmuls chiese: «Quante dozzine fanno?».

«Oh, buon Dio. E va bene. Non imparare. Sto cercando di dirti che vedrai tante cose e non saprai come comportarti. Avrai più possibilità di essere felice di quanto hai mai pensato». Be’, sembrava ragionevole. Quel mondo così grande e così complesso doveva pure aver qualcosa da offrire a quel povero fenomeno da baraccone.

Quel povero, pericoloso fenomeno da baraccone. «E avrai anche tante occasioni di comportarti da stupido e di soffrire. Quindi te lo dico per l’ultima volta: se non vuoi imparare, d’accordo, non sei obbligato a farlo. Ma, per Dio, sappi almeno che sei stupido. Non andare a cacciarti nei guai. Guarda e aspetta. Cammina in punta di piedi. Magari, dopo un po’ capirai che ti sto dicendo la verità. Quando sarai pronto, fammelo sapere, e io ti spiegherò di nuovo».

«Ho già capito tutto», disse Ahmuls, giocherellando con le pieghe di pelle che gli crescevano sulle braccia, dove avrebbe dovuto avere le ali.

III

Poco prima di raggiungere l’atmosfera, Jackson scese in infermeria per stare con Ahmuls: sapeva che il frastuono e i cambiamenti d’accelerazione l’avrebbero sconvolto. Jackson portava la tuta celeste di capitano, con le spalline delle Università Associate.

«Che cos’hai addosso?», chiese Ahmuls.

«Questi sono vestiti», disse Jackson. «Ho detto a Susiem di prepararne anche per te. Ecco». Gli porse la tuta confezionata su misura. «Devi indossarli anche tu. È come una coperta. Serve per proteggerti dal freddo e dal sole».

«Non ti avevo mai visto portare i vestiti».

«Be’, non li portavo. Ma adesso so che è meglio».

«Io non lo so, che è meglio».

«Senti, vuoi che tutti pensino che sei strano?».

«Chi, quella gente molle che hai detto che somiglia tutta a te?».

«Avanti, Ahmuls, vestiti».

«Mi ammazzerai se non mi vesto? Non ho freddo, e non c’è il sole. Non sono abbastanza furbi da entrare in quelle loro grandi case ammonticchiate, quando ce n’è bisogno?». Ahmuls lasciò cadere la tuta sul pavimento.

Jackson scosse la testa. «E va bene, Ahmuls. Va bene». Si sdraiò su un’altra cuccetta. Aveva già la pelle irritata in un paio di punti per l’attrito, e faticava ad abituarsi all’idea di essere così avviluppato alle gambe e all’inguine. Ma era tremendamente imbarazzato al pensiero di uscire dalla nave, in uno spazioporto di gente, con un fenomeno da baraccone tutto nudo al suo fianco. A pensarci bene, era la prima volta in vita sua che si sentiva veramente imbarazzato.

Era una sensazione spiacevolissima. E assorbì una parte considerevole della sua attenzione mentre la nave scendeva. Ahmuls continuò a piagnucolare e a dibattersi sulla cuccetta. Che ne sarà di lui?, si chiese Jackson.

Ma la Terra era verde e pastorale, con le colline coronate d’olmi, i rari edifici bassi e di un bianco puro. «Questo è lo spazioporto delle Università Associate», disse Susiem, mentre Jackson guardava dal Portello aperto della camera di compensazione, come un bambino che ha appena visto un dardo colpire di sbieco un bersaglio e rimbalzare via. «Vi sono stati cambiamenti sociali sulla Terra, dopo il mio ultimo contatto con il Progetto. Mi è stato assicurato che verrai informato di tali cambiamenti da un’altra fonte. Tu e il tuo compagno dovete sbarcare immediatamente da questa nave, poiché non è più classificata abitabile. Attenti tutti! Il capitano scende a terra!».

«Addio, amici», disse il dottore, mentre Jackson e Ahmuls si calavano giù per la scaletta. «Non preoccuparti, Ahmuls… Il tuo menù è registrato. Mi è stato riferito che quando avrai fame non dovrai fare altro che dirlo a voce alta».

«L’ho sempre fatto», disse Ahmuls.

Jackson alzò lo sguardo verso Susiem. La nave stava cominciando a emettere un suono vibrante. Notò uno sciame di insetti colorati, danzanti, che turbinavano intorno all’estremità della prua. Sfrecciarono come proiettili dalla cima della collinetta più vicina, in una fiumana che si addensò rapidamente, si divise per passare fra i tronchi e si radunò sempre più appassionatamente intorno alla nave. Il suono vibrante aumentò di volume, e Jackson vide che adesso Susiem era smussata. La prua era scomparsa. Sotto il suo sguardo, gli insetti, volando in una spirale serrata, divorando un altro strato di metallo dello scafo, e poi le girarono di nuovo intorno, consumando un poco di più a ogni passaggio, transitando molto rapidamente. Era come un esercito di termiti pazze che distruggesse la casa di Elmer Fudd.

Alcuni insetti si staccarono da Susiem e sfrecciarono verso il suolo. Uno, molto vicino, sembrava eseguire un’azione tipica: aveva in bocca un piccolo pezzo di acciaio per astronavi, e stava girando su se stesso come una trivella. Penetrò per poco meno di un metro nel terreno, a giudicare dalla velocità, poi risalì con le mandibole vuote e sfrecciò via immediatamente per andare a prendere un altro frammento.

Insetti più grandi scesero dal cielo, penetrarono negli spazi dei ponti e tra le componenti, dietro le paratie sventrate. Ripartirono ronzando, trasportando alcune componenti tra le appendici a tenaglia e gettando via quasi tutte le altre che caddero in una scia, al di là della rimpicciolita Susiem, con tonfi secchi sopra l’erba folta e verde e ben tagliata e i delicati fiori selvatici. Insetti che si muovevano al suolo e altri esseri metallici dello stesso tipo attendevano per raccoglierle: le facevano a pezzi, ne seppellivano alcune, e altre le trangugiavano come se possedessero un apparato digerente.

«Ehi!», gridò Jackson, cercando di comunicare con Susiem prima che sulla Terra non restasse più nessuno in grado di spiegargli quel che stava succedendo. Ma ormai era troppo tardi. Susiem e il dottore e il robot che serviva i pasti e il robot addetto alla manutenzione e tutto il resto, eccettuata la tuta di Jackson, erano morti e inutili. Be’, no, non inutili. Una quantità di minerali preziosi era stata appena restituita al suolo della Terra.

Ahmuls si guardava intorno. «Sta arrivando gente», disse. «E non è mica vestita».

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