La colazione era apparecchiata sull’erba: tutto era disposto in bell’ordine su una grande tovaglia bianca che senza dubbio era stata intessuta sul momento dalle api. I piatti eleganti avevano i colori della terra, dolcemente luminosi, delicatamente modellati in forme che sembravano fluttuare in attesa delle mani, delle dita, delle labbra. Jackson pensò che erano abbastanza fragili da piacere agli insetti, non soltanto all’uomo.
Si disposero sull’erba in atteggiamenti comodi, e Jackson li imitò. Fece colazione con tamales, varie leccornie, Riesling e conversazione, mentre le api di Comp portavano il lichene ad Ahmuls.
Non fecero piatti per Ahmuls. Forse Comp pensava che con quelle mani avrebbe fatto a pezzi qualunque utensile fabbricato dalle api, o forse non voleva produrre oggetti abbastanza goffi da risultare robusti. Ahmuls mangiò con fare burbero, sbirciandoli tutti quanti.
I sensi di Jackson erano presi dal profumo vivace delle donne, dal suono delle parole ordinate e cantate, non borbottate o muggite, o dall’orizzonte di un azzurro perfetto, senza la Spina. Quando guardava Ahmuls, e lo faceva di rado, lo guardava con la coda dell’occhio.
«Non è molto diverso dal modo in cui lo ricordi, vero?», stava chiedendo educatamente Kringle. «Immagino che ti sia fatto un quadro della situazione. Quando Comp raggiunse la soglia dell’efficienza, certi fattori esterni grossolani furono modificati quasi da un giorno all’altro, ma le verità rimasero.
«Abbiamo ancora i vecchi servizi: vitto, abbigliamento — o il controllo dei fattori che un tempo rendevano necessario l’abbigliamento — e abitazioni». Girò lo sguardo sull’erba folta, inarcò le sopracciglia in un’espressione di scusa e sorrise a Jackson.
«Ecco, per l’esattezza la distinzione tra abbigliamento e alloggio è scomparsa. In effetti, dipendeva dalla distinzione tra ambiente favorevole e ambiente ostile, e quando questo fu superato… Ma tu capisci cosa intendo. È molto simile al passato. La gente è la stessa. Noi abbiamo gli stessi sentimenti che tu ricordi… che ricordi della vecchia Terra e anche di Marte, scommetterei, Abbiamo gioie e dolori, rapporti sociali…».
Kringle guardò Ahmuls, Pall, e poi di nuovo Jackson. «Vi sono difficoltà grandi e piccole, come sempre… distinzioni tra individui… livelli di risultati ottenuti… Noi tendiamo a pensare che le nostre vite abbiano un tenore eguale, poiché il servizio esterno è così efficiente. E naturalmente siamo beneducati, poiché ognuno di noi riceve da Comp la sua parte, e nessuno considera un altro come potenziale fornitore o consumatore di beni e servizi. Non abbiamo bisogno di adularci a vicenda, né di parlare con durezza. Mi segui? Ah, vedo che ci riesci. Però…». Kringle aggrottò la fronte guardando un tamale. «Però, se ci portassi su Marte, vedresti che cambiamento! In pochissimo tempo, quelli fisicamente deboli e tardi di riflessi verrebbero eliminati, sì. Ma gli altri, ah, gli altri no. L’animale è troppo resistente, non credi? Immagino che in poco tempo io mi troverei alla testa di un gruppo numericamente più piccolo. Lo ammetto. Ma credo che, se postulassimo una specie di “indice di durezza” — compris? — la misura di una certa qualità fondamentale, che svanirebbe in coloro che vi partecipano in misura insufficiente (come avverrà sempre), ma che crescerebbe negli altri… Capisci dove voglio arrivare? L’“indice di durezza” dei superstiti di questo piccolo gruppo, su Marte, darebbe un totale certo non inferiore, forse superiore a quello attuale del gruppo intero». Kringle sorrise, con fare incoraggiante. «E sarebbe il fattore cruciale, no? La misura dell’umanità. Si potrebbe affermare che, finché l’indice non si abbassa, l’umanità non si sminuisce, indipendentemente da quello che potrebbe essere a ogni dato momento il numero degli esseri umani».
«Ottimo ragionamento», mormorò Durstine, che era vicina a Jackson. Si chinò per prendere un altro boccone dal piatto più vicino ai piedi di Jackson. Girò la testa per guardarlo in faccia e inarcò le sopracciglia dorate con aria interrogativa. Al suo cenno, gli porse il pezzo di formaggio e ne prese un altro per sé. Si muoveva splendidamente; si piegò, prese il formaggio, lo porse, si riassestò in un unico, composto gesto fluente.
Jackson lasciò ammorbidire il formaggio contro il palato. Doveva ammettere che ascoltava appena le parole di Kringle. E probabilmente non era un gran danno, a giudicare da quel poco che aveva sentito. Ma, cribbio, pensò, che meraviglia parlare e mangiare, così. E nessun motivo di preoccupazione, nessun obbligo di uscire in caccia per pagare tutto questo.
«Anche oggi», stava dicendo Kringle, «in un certo senso siamo il risultato selezionato di un numero maggiore, ma forse meno sufficiente. Considera che in larga misura l’impulso procreativo è in realtà un riflesso del panico, che non è una qualità di durezza, e della noia, che è certo un sintomo d’insufficienza. Direi che la popolazione mondiale è all’incirca, oh, un cinque per cento del numero di mille anni fa. È una tragedia? Be’, io rispondo: cosa può contare il numero, se l’indice è invariato?».
Kringle piegò leggermente la testa, sorrise con garbo e centellinò il vino, con le mani raccolte simmetricamente intorno al calice: tutto il gesto era una dichiarazione dell’avvenuto completamento d’una struttura. «Quindi, ora tu ci comprendi».
Be’, forse non questa mattina, ma vi comprenderò, si disse Jackson. Questa è la cosa più meravigliosa… C’è tutto il tempo e tutto il mondo. Il Riesling è delizioso, alla mattina.
Tutto intorno a lui c’erano voci sommesse. Che importanza aveva ciò che dicevano? Era con loro.
Cominciò a ridacchiare, guardando Ahmuls con il lichene in bocca e le api che gli sfrecciavano intorno alla faccia. Chi lo crederebbe, pensò. Dove sono gli amsir, e dove sono tutti coloro che credevano in Ariwol?
Eppure, ripensando al passato, non poteva affermare onestamente di aver mai detto a se stesso che c’era qualcosa di meglio delle Spine. Aveva solo avvertito la sensazione incessante che qualcosa non andasse. E non aveva mai cercato di cambiare le cose.
Aveva solo avuto il buon senso di non permettere che le cose cambiassero lui.
Era tutto lì. E adesso, torna indietro e prova a spiegarlo a Black. O a tua madre. Certo, era semplice. Ti bastava essere Jackson Greytoke, perduto fra i primati, come un castello Tudor che ti aspettava in patria, su un’isola scettrata.
Cominciò a ridere ancora più forte quando comprese che aveva fatto una cosa incredibile, splendida, meravigliosa.
Era lì, di suo diritto. Era uno di loro.
Guardandolo ridere, gli altri sorrisero. La piccola Pall gli porse un calice di vino, e i grandi occhi castani scintillarono di nuovo, come sempre. «È bello, non è vero?», chiese. «Deve essere piacevole».
Questo trascendeva i suoi sogni più arditi. Rimase seduto sull’erba, con le ginocchia sollevate, sorseggiando il vino, e il tocco pesante e familiare della Terra era su di lui.
«Quindi siamo d’accordo, no?», disse Kringle, tendendosi in avanti, e sul suo stomaco muscoloso si formarono tre grinze. Jackson pensò che forse Kringle era un po’ lento, se mai avesse dovuto correre. «Non esistono differenze essenziali tra te e, poniamo, me», continuò Kringle. «Dopo una certa esposizione al tuo ambiente, io, per esempio, finirei per assomigliarti fisicamente. E non ci sono differenze essenziali in fatto di capacità».
Le dita di Durstine avevano trovato il rilievo della cicatrice lasciata dal becco dell’amsir, attraverso la stoffa leggera, sulla spalla di Jackson. Kringle aggrottò fuggevolmente la fronte, sebbene tenesse quasi sempre lo sguardo sul volto di Jackson.
«Non so. Dovremmo provare, no?», rispose Jackson in tono ragionevole. Girò lo sguardo sugli altri. Stavano tutti chiacchierando educatamente tra loro, e mangiucchiavano. Eppure, adesso che li guardava di nuovo, pareva che istintivamente volgessero lo sguardo su di lui ogni volta che volgeva lo sguardo su di loro. Le donne erano all’incirca metà e metà: alcune sembravano pronte a giocare in un modo o nell’altro, notò Jackson. Gli uomini… Be’, era strano, ma sembrava sapessero cosa pensavano le donne. Sembrava che lo sapessero senza guardarle, mentre guardavano lui.
«Provare?», disse Kringle. «È già stato provato, no? Abbiamo pur sempre antenati comuni, lo sai».
«Sì, certo, ma questo vale anche per gli amsir. E anche per lui». Jackson indicò Ahmuls con un cenno del capo. Flette la spalla sotto la mano di Durstine e strizzò l’occhio a Pall. Columbus, che era in mezzo al gruppo e si era mostrato tanto ansioso di fare colazione, vide la strizzata d’occhio. Guardò Jackson, e fece crocchiare le dita, lentamente, pensosamente.
Ah, è così, pensò Jackson. Inimicizia nell’Eden. Be’, stai a sentire, amico, ne ho fatto a meno per molto tempo.
E insieme a quel pensiero c’era il presentimento che presto lui avrebbe perso il carattere di novità, e si sarebbero fatti concorrenza per le loro donne su una base di eguaglianza. Forse un po’ meno, rammentò a se stesso, perché lui aveva gli arti pesanti. Ammiccò a Columbus. Ma «presto» non significa «subito», pensò.
Quando girò di nuovo la testa verso Kringle, vide che mentre la sua attenzione era altrove erano accadute molte cose. Kringle prendeva i minuscoli cubetti di formaggio e li gettava via dal pollice con il medio. Non badava molto a quel che faceva… Giocherellava oziosamente con il cibo, in una bella mattina, perfettamente a suo agio, e fantasticava. Ma tutti quei cubetti di formaggio li lanciava ad Ahmuls. Rimbalzavano sul petto e sulle cosce del mostro, rimbalzavano senza far rumore e cadevano sull’erba, dove le api li prelevavano e senza dubbio li trasformavano immediatamente in nutrimento per le piante. Jackson deviò lo sguardo da Kringle ad Ahmuls, con aria interrogativa. Bevve un altro sorso di vino. E adesso, come diavolo andrà a finire?, si chiese.
Poco a poco, Ahmuls se ne accorse. «Ehi… ehi, tu!».
Lentamente, Kringle alzò il viso e spalancò gli occhi: adesso si poteva dire che guardasse Ahmuls. «Parli con me?».
«Sei tu che lo fai?».
«Prego? Forse, se parlassi più lentamente…».
«Vuole che tu la smetta», disse Jackson.
«Davvero?», disse Kringle, girando la testa. «Ahmuls! C’è qualcosa che ti dà fastidio?».
«Sì. Piantala».
Kringle alzò le mani vuote. «Ho smesso. Qual è il tuo problema?».
«Non tirarmi addosso quella merda!».
Kringle inarcò le sopracciglia. Prese un altro cubetto di formaggio e, tenendolo con eleganza tra le dita, lo mordicchiò. «Come mi hai chiamato?».
Jackson si sporse verso Kringle, sogghignando un po’. «Senti, non voglio immischiarmene, ma lui sarebbe capace di farti in mille pezzi e di lanciarli in aria prima che i tuoi piedi smettessero di muoversi».
«Davvero?». Gli occhi di Kringle si volsero di nuovo, per un attimo, verso Jackson.
Una delle minuscole api argentee si staccò dallo sciame che attorniava Ahmuls, saettò vicino a Jackson e disse: «Qui è Comp. Perdona se io mi immischio, ma credo che tu stia dimenticando ciò che hai imparato. Costoro ne sono partecipi, e ne sanno anche di più. Inoltre, sanno tutto ciò che è accaduto a bordo di quel veicolo antiquato. Tutte le informazioni dell’archivio di Susiem, naturalmente, sono state trasferite a me. Quindi erano integralmente accessibili a tutti, e Kringle è tra coloro che le hanno assorbite».
«Puoi sempre chiedere a Comp qualunque cosa», mormorò Durstine all’orecchio di Jackson. «E lui te lo dirà. Se vuoi sapere molte cose, allora uno dei suoi extero…».
«Exteroaffettori», disse Comp.
«È esatto, uno dei suoi exteroaffettori te le comunicherà per assorbimento».
Kringle lanciò un altro pezzetto di formaggio ad Ahmuls. Lo colpì alla punta del naso. Ahmuls si alzò.
Kringle si alzò. «C’è qualcosa che posso fare per te, bestia?», disse senza cambiare tono di voce. Jackson vide le dita di Kringle assumere la posizione esatta.
Anche Jackson si alzò. «Calma, tutti quanti», disse.
«Ma questo sarebbe contrario alla natura della bestia», disse Kringle. Si stava leccando la punta delle dita. La sua bocca era più in alto della testa di Ahmuls. E si poteva far collassare una spina dorsale, con una pressione sulla testa.
«Ascolta, Ahmuls, lui può ammazzarti», disse Jackson. «Guarda come tiene le mani. Ricordi cosa succede?».
Ahmuls scrutò, attento. «Siete tutti così furbi?».
Kringle gettò a Jackson un’occhiata languida. «Non sono sicuro che sia molto cortese, intromettersi nella conversazione degli altri».
«Bene, neppure io ne sono sicuro. Ma non credo che sia cortese tirare veleno addosso a qualcuno fino a quando non si arrabbia abbastanza perché tu possa ucciderlo».
«O questo non è veleno, o lui non è un umano», mormorò Durstine.
«Ottimamente formulato, mia cara. Continua a pensare con la stessa chiarezza», disse Kringle.
Ahmuls li stava scrutando uno dopo l’altro, mentre Durstine voltava sdegnosamente le spalle a Kringle, scostandosi i capelli dal collo e toccando deliberatamente il polpaccio di Jackson, in piedi accanto a lei. Kringle guardava Durstine, e Pall guardava un po’ Durstine e un po’ Jackson. Solo le api guardavano dove stavano andando; ma. quando una di esse cercò di gettare un altro pezzetto di lichene in bocca ad Ahmuls, questi grugnì, e mosse fulmineamente la mano, afferrò l’argentea pepita ronzante. Durstine soffocò un grido: «Com’è svelto!». Ahmuls lanciò l’ape verso Kringle. L’ape lo colpì con forza alla spalla, e Kringle si portò la mano sulla chiazza rossa che gli fioriva sulla pelle.
«Ai!», disse Durstine.
Vi fu un fruscio sull’erba, dietro Jackson; girò la testa per guardare. S’erano puntellati sui gomiti o sulle ginocchia o s’erano alzati in piedi; avevano smesso di starsene sdraiati e di parlare. Tenevano le teste alte, e i loro occhi brillavano, e le bocche socchiuse erano un po’ incurvate agli angoli.
Kringle era teso: vi fu solo una lievissima increspatura serpentina dei muscoli, su un polpaccio e sulla coscia, quando spostò il proprio peso, e un guizzo regolare cominciò sotto la pelle, appena sopra il gomito sinistro. Scostò la mano dall’ematoma causato dall’ape e si guardò le dita: ma non c’era niente, e l’ape, naturalmente, era volata via.
«Attaccami. Attaccami, animale!», mormorò Kringle. Teneva pronte le braccia e le gambe: le dita erano rigide e immobili, e la saliva luccicava sui denti inferiori.
«Ehi, ti dò fastidio, vero?», gli disse Ahmuls. «Come attorno alla Spina. Erano sempre quelli piccoli e malconci quelli che mi prendevano in giro. Il solo che non lo faceva era il capo di tutto quanto. Perché non mi lasci in pace? Forse diventerai un capo anche tu».
«Prova a toccarmi», implorò Kringle in un sussurro. «Prova solo a mettermi una mano addosso… per favore».
Oh, mio Dio, mio Dio, pensò Jackson, visualizzando quel che sarebbe accaduto nell’istante in cui Kringle avesse avuto un pretesto per scattare. Ahmuls, povero, stupido figlio di puttana… lo sapevo che qui non avresti potuto farcela. Perché non mi hai ascoltato? Perché non hai voluto imparare?
«No che non ti tocco», disse Ahmuls. «Credi che sono matto? Lasciami in pace, e io non ti toccherò».
«Lasciarti in pace? Sei tu che non lasci in pace me!», gemette Kringle.
«E allora me ne vado. Non sono mica matto». Ahmuls si voltò per andarsene, gonfiandosi e increspandosi, e si allontanò. Kringle lo fissò sbalordito, a occhi sgranati.
«Torna qui!».
«No», disse Ahmuls, girando appena la testa.
Neppure Jackson riusciva a crederlo. Dove sarebbe andato? Non c’era niente, là: soltanto erba e case bianche alla Walt Disney ed exteroaffettori. «Ehi! Aspetta! Aspetta!», disse Jackson, alzandosi. «Non andartene così!».
Ahmuls girò la testa, tenendo la faccia in modo da poter vedere Jackson. «Cos’hai, tu? A te non dò fastidio. Non darò mai fastidio a uno come te. Se voialtri volete questo posto, tenetevelo. Volete prendermi in giro, eh? C’è tanto spazio. Vi stancherete di prendermi in giro prima che io non trovi più spazio per andare. Credete che sono matto, che voglio farmi picchiare ancora per discutere con voialtri? Siete matti voi!».
E dove sarebbe andato, per trovare un posto che gli volesse bene? Con un paio di passi svelti, Jackson lo raggiunse. Posò la mano sulla spalla che sembrava pasta da pane. «Oh, su, avanti… Aspetta». Si accorse di avere assunto un tono implorante. «Senti, siamo appena arrivati. Devi avere un po’ di pazienza. Per te stesso. Voglio dire, qui c’è gente buona e gente cattiva, credo. E questo non m’impedirà di essere felice, qui. Tu potresti…».
«Io non sono come te. Io non sono come loro».
Kringle si stava avvicinando. L’atmosfera era cambiata. Sogghignava baldanzoso. Gli altri uomini sorridevano e ridevano di Ahmuls.
«Non cercare di addolcirlo», disse Kringle. «Non vuol saperne di noi. Lo capisce, quando ha perso. E in una cosa ha ragione. Non è come noi». Il suo sguardo guizzò per un attimo su Jackson. «O come te».
Ecco, pensò Jackson, con la gelida rapidità di un furetto, e se scoprissi che non posso vivere con costoro e poi scoprissi che mi è impossibile anche ritrovare Ahmuls, se si perde chissà dove?
«Senti, vuoi lasciarci in pace in modo che io possa parlargli?».
«Be’, non vedo il motivo perché tu debba perdere la pazienza». Kringle tornò indietro, verso gli altri. Si chinò, prese un bocconcino dalle dita di Durstine, e cominciò a masticarlo con gli incisivi, delicatamente, restando di fronte a lei in modo che Durstine avrebbe dovuto allungare le braccia intorno a lui, se avesse voluto prendere un altro po’ di cibo.
«Vieni, Ahmuls», disse Jackson.
«Ehi… Faccia a faccia, sull’infinita distesa della prateria, il muscoloso Jackson Greystoke e il suo mostruoso avversario si affrontavano», commentò Chester.
Durstine rise. Poi disse: «La battaglia tra due superbe macchine fisiche stava per avere inizio. Lì, nella pacifica radura che non aveva visto scene di violenza da venti secoli, all’improvviso vi fu il risveglio dell’antichissima eredità terrestre della lotta tra la forza bruta e l’intelligenza».
Donder declamò: «Un grande silenzio scese sulla terra mentre la Natura stessa pareva trattenere il respiro, nella fremente attesa dello scontro spaventoso».
«Cosa? Cosa stanno dicendo?», borbottò Ahmuls. Jackson girò la testa. Durstine e alcuni degli altri, e persino Kringle, stavano guardando lui e Ahmuls con occhi ridenti. Alcuni degli altri erano tornati a far colazione, e sorseggiavano e mangiucchiavano con grazia. Stavano tutti oziando.
Pall sembrava interessata: ma le persone dai grandi occhi umidi sembrano spesso emozionate quando in realtà si limitano a sfoggiare un fenomeno fisiologico.
«Lascia stare», disse Jackson ad Ahmuls. «Devi fare quello che vuoi».
Ahmuls disse: «Giusto». Salì pesantemente il pendio della depressione, profilato contro l’orizzonte pallido del mattino inoltrato, e cominciò a sparire, dalle gambe in su, mentre scendeva sull’altro versante, fuori dalla visuale di Jackson.
Ancora una volta vi fu il rapido, sotterraneo fruscio del pensiero. «Comp, gli starai dietro?».
«Oh, io so sempre dove sono tutti quanti, è ovvio», gli disse all’orecchio un’ape. «Anche se non potrei predire dove andranno. Ma credo che non sia un problema predire dove andrà lui. Troverà il posto».
Che posto, Comp? No, mi diresti solo un nome che non conosco. Che genere di posto?».
«Una specie di zoo».
«Uno zoo?».
«Unozoo, unozoo, unozoo, zoo, zoo», canterellò Kringle, lanciandosi in un walzer con Durstine. Chester afferrò Elyra. Cincinnatus prese Pall tra le braccia.
Poco dopo, stavano tutti volteggiando sull’erba, come aironi nella stagione del corteggiamento, canticchiando, sorridendo, con i volti accaldati. Gli occhi ridenti: solo Durstine ammiccava e Jackson, solo Pall sembrava temporaneamente frastornata, eppure anche lei canterellava: «Unozoo, unozoo, unozoo zoo zoo, unozoo, unozoo, u-unozoo-oo, ah, ah, ah, ah, zoo, zoo, zoo».
Bene, e adesso che cosa farai?, si chiese Jackson. Ti metterai a urlare? Ti comporterai come una scimmia mentre quelli ballano il walzer? E cosa importa se sono pazzi…? Non sono graziosi? Come un gruppo scultoreo motorizzato di serafini fatto di lame di rasoio?
Ahmuls era già molto lontano; i ballerini avevano dimostrato quello che volevano dimostrare e si stavano fermando, si lasciavano cadere sull’erba.
«Non credo che potresti istruirlo», disse Jackson all’ape. «Hai a disposizione soltanto tutte le risorse di un pianeta».
«Non ne vedo la necessità», disse Comp. «Posso renderlo più felice? Posso renderlo umano senza sottrargli la sua essenza? Non ha storia e non ha futuro. Tutte le sue aspirazioni sono circoscritte a lui stesso». Comp sapeva di aver enunciato un’affermazione inconfutabile. L’ape volò lontana dall’orecchio di Jackson.
Erano ancora tutti accaldati, e ridacchiavano. Guardavano Jackson, incuriositi; e lui li guardava.
«Il tuo fedele compagno ti ha lasciato senza parola, Cavaliere Mascherato delle pianure?», chiese Jimmy. «Ti ha tolto il fiato?».
«L’unico essere al quale sia mai stato fedele è su Marte», disse Jackson, con voce tesa. «A meno che sia morto. Lui sbagliava nel giudicarmi, capisci?».
«Oh, vieni a mangiare con noi, Jackson», disse Kringle. «Se vuoi». Si adagiò, cingendo Durstine con un braccio. Durstine roteò gli occhi e rivolse a Jackson un broncio seducente.
«Sì… vieni con noi. Non arrabbiarti».
Pall ridacchiò. «Che strano, scappar via a quel modo. E avresti dovuto vedere la tua faccia quando noi ci siamo messi a ballare, Jackson!».
«Sì… come se non avesse mai sentito parlare delle abitudini civili», disse Chester. «O se non sapesse comunicare».
Jackson si sentiva sempre più nervoso. Se quelli pensavano che Kringle fosse grande, quando era di quell’umore, allora avevano ancora qualcosa da imparare…
«Jackson comunica benissimo», disse Durstine.
«Sì», disse Kringle. «Credo, Chester, che nel suo ambiente Jackson ti sorprenderebbe».
«Questo vorrei proprio vederlo», disse Jimmy.
«Be’, è perfettamente possibile che tu lo veda», disse Kringle in tono ragionevole. «Se Jackson è disposto».
«Chissà se lo è», disse Chester.
«Ma certo che lo è!», esclamò Pall.
Girare il viso di qua e di là, mentre parlavano, era come correre da un tunnel all’altro, tra mille intersezioni, e senza la minima guida.
«Certo che lo farai», gli disse in faccia Durstine, morbida e calda, con una torsione del corpo che portava ancora più vicini la sua bocca e il suo respiro.
«Fare che cosa?».
«Combattere!».
«Combattere che cosa?».
«Un amsir».
«Perché?».
«Per me!».
«Dove?».
«Qui!».
«Qui!».
«Come?».
«Non è un problema», disse Comp.