CAPITOLO 1

I

Il pavimento del mondo era increspato come il fondale di un oceano. Il Sole al tramonto inchiostrava d’ombra violetta ogni increspatura. Screziate e chiazzate, le dune basse si ammonticchiavano una dietro l’altra, come individui ammantati nelle coperte, e riempivano il mondo fino agli orli.

Gli orli si ergevano alti e crudeli. L’orizzonte orientale era una muraglia azzurronera sotto un arco ampio e basso di ruggine corrosa, le cui estremità sprofondavano in lontananza, a destra e a sinistra. Qualche massa rocciosa più vicina brillava arancione nella faccia rivolta verso il Sole, crivellata e lucente contro lo sfondo monotono d’ombra sotto l’orlo arrugginito. Sopra quell’orizzonte, minuscole scaglie di luce senza tremolii si aprivano un varco, trafiggendo i neri labirinti della Creazione.

E verso quell’orizzonte correva l’amsir. I piedi dalle grosse dita unghiute sbattevano e frusciavano tra le increspature, sollevando effimeri sprazzi di sabbia grossolana che subito ricadevano. Ogni volta che giungeva sulla cima d’una duna, l’amsir emergeva dall’ombra sempre più fitta e, come le rocce, luccicava fiocamente; e poi, a differenza delle rocce, scendeva caprioleggiando, e spariva per riapparire sull’altura successiva. L’amsir era alto poco meno di due braccia. Teneva un giavellotto dall’asta metallica stretto contro il torace, con le mani minuscole che spuntavano a metà delle ossa principali delle ali.

Honor White Jackson lo stava inseguendo, e aveva un’opinione diversa, ma l’amsir era molto bello. La faccia rostrata era tutta angoli e fessure, come la visiera d’un cavaliere, e teneva protese, per conservare l’equilibrio, le grandi ali traslucide inette al volo. Aggraziato come la sposa di un folletto, procedeva a falcate, in uno svolazzare di lunghi nastri merlettati che crescevano dal corno del corpo gonfio e dagli esili arti inferiori. Quei nastri assicuravano un ottimo isolamento per gli amsir in riposo, ed erano molto utili anche per gli umani della Spina di Ferro. Ora avevano l’effetto di trasformare la bestia in uno sfuggente prodigio, un essere pallido e inquieto che procedeva a passi rapidi e saltellanti, forse gioiosi.

Le ali, che avevano un’apertura di oltre tre braccia e mezzo da una all’altra delle estremità dure come chiodi, luccicavano di un tenue color corallo nella luce morente del sole ed erano utilissime per cambiare direzione con esasperante ingegnosità. Molte volte, mentre lo rincorreva, White Jackson aveva mantenuto l’andatura per tirare, con il brutale dardo dalla punta vitrea già incoccato nella scanalatura del bastone d’osso di amsir. E, ogni volta, l’amsir aveva alzato una spalla, in un movimento carico di disdegno, virando sul perno della resistenza di quattordici braccia quadrate di superficie frenante, ed era ripartito su una direttrice leggermente modificata. Dietro le feritoie delle rotonde torrette di corno che velavano gli occhi, le pupille si volgevano indietro, scintillando.

Mentre lasciavano scie appaiate di color magenta sul grande deserto, White Jackson e l’amsir, insieme, creavano una certa bellezza, superiore a quella del loro aspetto individuale. Jackson era piuttosto magro, alto, slanciato, brunito. Non si sarebbe mai immaginato che discendesse da una razza evolutasi per lanciarsi da un ramo all’altro, senza raddrizzare quasi mai la schiena. Come l’amsir, aveva la faccia magra e gli occhi scintillanti. Come l’amsir, correva con eleganza, toccando la superficie con le dita appuntite dei piedi solo il tempo necessario per creare lo slancio per il passo successivo, cercando di non posare mai il piede di piatto. Portava una vecchissima calotta metallica, lucente, con uno spuntone aguzzo e un sottogola nuovo, fatto di trina d’amsir. Aveva un quarto di litro d’acqua in una vescica di amsir legata sulle reni, e portava il dardo di riserva sotto l’ascella sinistra. Muscoloso e teso quanto l’amsir era etereo allo sguardo, era ben consapevole che quella scena dipendeva da una sospetta pigrizia della selvaggina, non meno che dalla sua energia.

White Jackson, inoltre, era consapevole che l’esasperante zigzagare dell’amsir aveva una direttrice comune, e lo conduceva progressivamente lontano dalla sicurezza della Spina di Ferro. Quel maledetto uccellaccio cercava di adescarlo. White Jackson era un Honor da poco tempo, e se questo era ciò che poteva aspettarsi dal modo di vita che aveva scelto, intendeva studiarlo bene finché era ancora abbastanza giovane per imparare. Perciò, sebbene di tanto in tanto si posasse sulle piante dei piedi nei balzi più lenti e sussultanti che avevano lo scopo di trasferire l’energia al bastone da lancio, non si attendeva per le sue fatiche nulla più di quanto ottenesse: una serie di bruschi tonfi dell’orlo della calotta contro il cuoio capelluto. Non aveva motivo di dubitare di essere più duro e più astuto di qualunque amsir o di qualunque uomo al mondo. Se non lo era, non era troppo presto per impararlo. Era rassegnato a continuare a correre per tutto il giorno, escludendo un solo limite irrinunciabile; e prevedeva che l’amsir avrebbe fatto scattare la trappola appena fosse abbastanza buio. Era addirittura disposto a collaborare perché scattasse, se la trappola era quella che sospettava.

Mentre correvano, giocando l’uno con l’altro, Famsir aveva indubbiamente i suoi motivi per essere dov’era. Intanto, Jackson pensava che, se avesse preso l’amsir, suo fratello Black l’avrebbe trattato in un certo modo; e l’avrebbe trattato in un modo diverso se non l’avesse preso. Comunque, suo fratello era sempre buono con lui. Pensava che sarebbe stato piacevole sedere alla tavola della comunità con il contegno di chi ha ucciso ciò che sta per essere mangiato. Immaginava che questo avrebbe avuto effetto sulle donne e avrebbe potuto contribuire a togliergli di torno gli anziani. Ma tutto questo era colorato dalla gioia semplice d’essere forte, instancabile, d’essere un Honor in un mondo circondato dalla sabbia e dagli amsir, popolato soprattutto da scialbi contadini, e incentrato intorno alla Spina, da cui i contadini non si allontanavano mai.

Girò la testa per individuare la Spina. Si era allontanato di molto. Solo la sommità del profilo nero era visibile sopra l’orizzonte. Non c’era dubbio: se avesse perso ora la calotta, per lui vi sarebbero stati brevi, orribili momenti di morte, e null’altro. Ciò che lo sconcertava era il fatto che l’amsir non lo ritenesse abbastanza intelligente.

Honor White Jackson, ancora più dei vecchi, saggi contadini che si guardavano bene dal desiderare qualcosa al di là dei campi si rendeva conto chiaramente che era una gran brutta cosa allontanarsi dalla vista della Spina. Era una gran brutta cosa anche allontanarsi dal perimetro dei campi senza la calotta. La verità a proposito della calotta gli era stata dimostrata da suo fratello, che l’aveva condotto nel deserto e poi gliel’aveva tolta dalla testa. L’aria intorno a White Jackson s’era istantaneamente mutata in un ghiaccio bruciante e sitibondo. Il sole era divenuto un pallido, freddo martello che gli aveva fatto prudere la pelle per ore dopo che la calotta gli era stata rimessa sulla testa, e che, se ne avesse avuto l’occasione, avrebbe annerito il suo cadavere congelato. La verità che non ci si doveva mai allontanare dalla vista della Spina, calotta o non calotta, Jackson l’accettava per fede sulla parola di Black, un Honor professionista e rispettato. C’erano anche gli anziani, naturalmente, i quali sapevano tante maledette cose che solo il fatto di tenere sempre la bocca aperta impediva che gli traboccassero dalle orecchie. E c’erano le donne degli anziani, il cui compito nella vita sembrava essere mentire nel dare alle ragazze ogni sorta di utili allusioni sugli inganni e le difficoltà della vita.

Con tutte quelle informazioni che circolavano tra gli umani sin da quando il tempo aveva avuto inizio con la creazione della Spina, era inconcepibile che gli amsir non avessero dedotto quanto c’era di vero e quanto gli umani credevano, in modo da regolarsi di conseguenza. Gli amsir, dopotutto, erano nel deserto al di là dei campi fin dall’inizio del tempo, e avevano visto molti contadini usare l’aratro e molti Honor balzare fuori da una duna, in un’imboscata notturna.

Si diceva che il mondo non fosse stato fatto per gli amsir: gli amsir erano stati fatti per il mondo. In ogni caso, non era un mondo per gli uomini, e si poteva presumere che gli uomini lo sapessero. Quindi, pensò White Jackson mentre correva sulla sabbia, con lievi vortici nello spazio immediatamente intorno a lui, come se l’aria fosse quasi acqua bollente, che intenzioni aveva l’amsir? Si aspettava davvero che lui lo seguisse oltre l’orizzonte della Spina e stramazzasse morto per fargli piacere?

Sembrava che fosse proprio così.

Era proprio così. Dopo aver visto un amsir sfuggire a un’imboscata e mantenere scrupolosamente una velocità dimezzata fingendo di correre con tutte le sue forze, White Jackson era pronto a credere che cacciare gli amsir fosse molto più complicato di quanto gli avessero mai detto. Poco prima, la bestia aveva cominciato a farlo girare intorno a una delle rare rocce affioranti, e Jackson si era aspettato che altri tre o quattro amsir lo attendessero per balzargli addosso. E invece non era accaduto nulla; la curva ampia del loro percorso aveva ormai superato la spugnosa sporgenza di roccia arancio-sanguigna, e cominciava a ripiegare dietro di essa. La distanza dalla roccia gli permetteva di vedere che lui e l’uccellaccio infido erano le due sole cose vive, in quell’area.

Bene. Erano più o meno lontani dalla Spina quanto era disposto ad arrivare Honor White Jackson. Avrebbe dovuto ritornare di notte, e risolvere il problema del percorso invertendo i ricordi di ogni cambiamento di direzione e di ogni tratto che aveva coperto dopo averla lasciata. Sperava che avrebbe dovuto compiere il tragitto di ritorno con i trentacinque chili dell’amsir sulle spalle, ed era pronto a cominciare. Ancora otto passi, e sarebbe incespicato, avrebbe perso il bastone e il dardo, si sarebbe graffiato la faccia e avrebbe cercato di tornare indietro strisciando, come se l’amsir l’avesse attirato oltre l’orizzonte. Se l’uccellaccio non ci fosse cascato, tanto peggio. Altrimenti, si sarebbe buscato diritto nella gola il dardo di riserva di Jackson.

Ma dopo tre passi soltanto, il mondo divenne freddo e la sua gola si riempì di schegge. Aveva continuato ad avanzare a un’andatura che copriva tre braccia e mezzo al secondo, comodamente, facendo i suoi piani, e adesso barcollava in avanti, agitando le braccia, incapace di fermarsi fino a quando fosse caduto, incapace di fare qualunque cosa che non fosse cercare di strappare un respiro all’aria irrespirabile. Pensò che i suoi globi oculari sarebbero gelati. Cercò con lo sguardo indignato la Spina, e non riuscì a comprendere perché, se era ancora entro l’orizzonte della Spina, una rossa rupe affiorante che si parava in mezzo facesse lo stesso effetto che perdere la calotta. Black Jackson non gli aveva mai detto nulla in proposito, e neppure gli altri.

E adesso quel maledetto amsir si stava girando.

II

L’amsir si avventò come una furia: niente al mondo poteva muoversi più veloce di un essere della sua specie quando lo voleva, e quello voleva Honor White Jackson, e subito. Le ali erano sollevate, come un uncino per ogni luna. Il giavellotto era stretto, a metà dell’asta, nella minuscola mano destra che spuntava dove l’ala si ripiegava, a metà apertura: il pollice e le tre dita erano stretti in un pugno ossuto. L’amsir accelerava e i suoi passi diventavano più lunghi e incalzanti. Sembrava quasi volare. Le ali si piegavano in coppe coriacee nell’aria rarefatta e battevano con una pulsazione rumorosa che sollevava onde di polvere accanto alle ginocchia scattanti. Adesso White Jackson poteva vederlo bene in faccia… Il sogghigno estasiato del becco, l’esaltazione dell’adrenalina che brillava negli occhi. Gli artigli ridacchiavano sulla sabbia.

E quasi Jackson non se ne curava. Sapeva cosa causava quell’effetto: erano il freddo e l’asfissia a preoccuparlo solo di ciò che avveniva dentro di lui. Dopo che Black gli aveva mostrato il trucco con la calotta, aveva riflettuto a lungo su quel che era successo e, sebbene diverse vecchie gli avessero detto che era una specie di colpo di sole e forse la punizione dell’empietà, lui aveva concluso che erano stati il freddo e la mancanza d’aria. Una mancanza d’aria improvvisa che colpiva un uomo a metà d’un respiro e quasi gli arrestava il cuore per la paura, quando un’utile azione quotidiana all’improvviso non gli procurava altro che una disperata delusione. Quindi comprendeva perché il suo corpo avrebbe voluto raggomitolarsi su se stesso e le sue mani avrebbero voluto battere sulla gola.

Aveva fatto una prova, convincendo uno dei figli del vicino a colpirlo allo stomaco, e aveva provato una sensazione molto simile… Niente freddo, o bruciore agli occhi e al naso, ma la stessa impotenza, fino a quando lo spasmo era passato e lui aveva potuto ansimare. Immaginava che, se avesse riflettuto abbastanza, avrebbe potuto spiegare anche il freddo, e la cosa che creava screpolature sanguinanti entro le sue narici. Ma l’asmir avanzava. Il bastone e il dardo di White Jackson erano lontani, sulla sabbia, come se li avesse gettati via apposta, e lui stava morendo.

Nonostante tutti i suoi ragionamenti, non avrebbe avuto scampo se non avesse pianificato in anticipo di simulare la stessa scena. Non aveva aria… Niente aria, e non si può resistere a lungo senza cercare di respirare, se si hanno i polmoni vuoti, anche se si sa di non avere più aria intorno. Ma aveva l’altro dardo, e mentre si piegava su se stesso si portò una mano all’ascella in un gesto naturale. L’amsir l’aveva raggiunto. Era su, in aria, al culmine di un grande balzo, con le ali incurvate, e Jackson non capiva perché non allargasse quei piedi simili a clave unghiute, pronti a dilaniarlo nella discesa. Lui l’avrebbe fatto. Ma l’amsir era lassù, e gli cadeva addosso da un’altezza pari alla sua lunghezza. Le estremità delle ali, adesso, erano ripiegate all’indietro e verso il basso, e la mano, che stringeva il giavellotto era inclinata verso di lui. La lucente punta metallica stava per colpire la sabbia proprio davanti ai suoi occhi, e l’amsir strillò: «Arrenditi! Arrenditi!».

White Jackson era raggomitolato sulle ginocchia e sul petto, con la faccia sulla sabbia e gli occhi roteanti. Teneva il dardo nella mano, sotto il corpo, con la punta che sporgeva dal pugno, per imprimergli maggiore potenza. «Arrenditi, diavolo bagnato!», strillò l’amsir, mentre Jackson gli posava la mano aperta sulla caviglia, dura come uno scarafaggio.

Vi fu un gran chiasso, un turbine d’ali, e Jackson trascinò l’amsir sulla sabbia, al suo livello. Con un sussulto si buttò sul corpo, che era altrettanto duro, e avviluppato in veli svolazzanti, e lui stesso si trovò avviluppato tra ali e unghie, con la testa incassata al massimo tra le spalle, e il becco che lo dilaniava. Il colpo trapassò la gola dell’amsir, la spina dorsale; e poi ancora un altro colpo attraverso il petto dell’amsir e in una bolla (una delle due più grandi, là dentro, sotto il corno e il resto), e Jackson abbracciò l’amsir con tutto l’affetto del mondo, con la bocca sullo squarcio del petto, aspirando, aspirando.

L’amsir sussultò e sbatté le ali tambureggianti, scalciò con le gambe, inarcò la schiena, ma White Jackson non lo mollò. Ciò che usciva dall’amsir era caldo di vita e gonfio come un grido; quando i suoi polmoni ne furono pieni da scoppiare, dovette serrare la gola per resistere alla pressione. E non poteva muovere la testa, perché la sua bocca era l’unico tappo che aveva per bloccarlo.

Non doveva respirare; non doveva respirare. Poteva continuare così in eterno. Era completamente diverso dall’essere privo d’aria. Era la libertà di non dover respirare, come gli Honor che lui aveva visto danzare intorno alla Spina, con le bolle delle prede appena uccise, danzare tutta la notte, ingurgitando il vento degli amsir dalle bolle, ma senza mai respirare, espirando solo di tanto in tanto e accostando la bocca alle parti smembrate del petto degli amsir, ridendo e gridando, come si diceva che gridassero di gioia i morti, su Ariwol.

L’amsir stava morendo. La testa poteva essere morta, o forse poteva vivere per sempre, ma chi poteva dirlo, quando soltanto la pelle la collegava al collo, e non aveva il fiato per urlare? Gli occhi erano chiusi. Qualcosa di limpido e denso sgorgava dalle palpebre chiuse e si coagulava immediatamente in una crosta. Le punte delle ali fremevano ancora. Ma Honor White Jackson era molto più vivo dell’amsir, e lo sollevò. Barcollando e sogghignando come poteva, si avvicinò rapidamente, barcollando, al giavellotto, al bastone da lancio e ai dardi, quello lontano e quello vicino, con le macchie fresche sulla corta asta d’osso di amsir. Li raccolse tutti nelle mani, con le braccia strette sul corpo dell’amsir, e poi girò intorno all’ombra della roccia. Aveva ancora freddo ma non se ne curava; era ilare come un bambino solleticato, ebbro di ossigeno puro, con il suo primo amsir, come il più ingombrante secchio d’acqua fresca del mondo in una giornata afosa.

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