24 Opporre resistenza

«Riposo a letto» annunciò Melfane, togliendo l’orecchio dal tubo di legno che aveva messo contro il petto di Elayne. La levatrice era una donna bassa e dalle guance piene che oggi portava i capelli legati indietro da una sciarpa azzurro trasparente.

Il suo abito ordinato era bianco e azzurro cielo intonato, indossato come a sfidare il cielo perennemente coperto.

«Cosa?» domandò Elayne.

«Una settimana» disse Melfane, agitando un dito tozzo verso Elayne. «Non dovrai alzarti in piedi per una settimana.»

Elayne sbatté le palpebre, la sua spossatezza che la abbandonava per il momento. Melfane sorrise allegramente mentre assegnava a Elayne questa impossibile punizione. Riposo a letto? Per una settimana?

Birgitte era in piedi sulla soglia, Mat nella stanza accanto. Lui era uscito fuori per la visita di Melfane, ma altrimenti aveva aleggiato vicino a lei in maniera protettiva quasi quanto Birgitte. Dal modo in cui parlavano non si sarebbe mai detto che tenevano a lei, però: i due si erano scambiati imprecazioni, ciascuno cercando di superare l’altro. Elayne ne aveva imparate alcune nuove. Chi sapeva che i centopiedi facevano quelle cose?

I suoi bambini erano al sicuro, a quanto Melfane poteva capire. Quella era la parte importante. «Il riposo a letto è ovviamente impossibile» disse Elayne. «Ho fin troppo da fare.»

«Be’, dovrà essere fatto dal letto» replicò Melfane, la sua voce amichevole ma assolutamente irremovibile. «Il tuo corpo e il tuo bambino hanno subito una forte tensione. Hanno bisogno di tempo per recuperare. Mi prenderò cura di te e mi accerterò che osservi una dieta rigorosa

«Ma...»

«Non sentirò scuse» la interruppe Melfane.

«Io sono la regina» disse Elayne, esasperata.

«E io sono la levatrice della regina» replicò Melfane, ancora calma. «Non c’è soldato o attendente in questo palazzo che non mi aiuterà, se stabilisco che la tua salute — e quella del tuo bambino — è a rischio.» Incontrò gli occhi di Elayne. «Ti piacerebbe mettere alla prova le mie parole, maestà?»

Elayne si fece piccola, immaginando le sue stesse guardie che le impedivano di uscire dalle sue stanze. O, peggio, che la legavano al letto. Lanciò un’occhiata a Birgitte, ma ricevette solo un cenno di soddisfazione con il capo. «Non è più di quello che ti meriti» pareva dire quel gesto.

Elayne si rimise seduta sul suo letto, frustrata. Era un enorme letto a quattro piazze, decorato in rosso e bianco. La stanza era riccamente adornata, scintillante con varie creazioni di cristallo e rubino. Sarebbe stata proprio una prigione meravigliosamente dorata. Luce! Questo non era giusto! Si abbottonò il davanti del suo abito.

«Vedo che non hai intenzione di mettere alla prova la mia parola» disse Melfane, mettendosi in piedi dal lato del letto. «Mostri saggezza.» Lanciò un’occhiata a Birgitte. «Ti consentirò un incontro con il capitano generale per valutare gli eventi della serata. Ma non più di mezz’ora, bada. Non voglio che ti affatichi!»

«Ma...»

Melaine agitò di nuovo il dito verso di lei. «Mezz’ora, maestà. Sei una donna, non una bestia da aratro. Hai bisogno di riposo e di cure.» Si voltò verso Birgitte. «Non turbarla eccessivamente.»

«Non me lo sognerei neanche» disse Birgitte. La sua rabbia si stava finalmente cominciando a placare, rimpiazzata da divertimento. Donna insopportabile.

Melfane si ritirò nella camera esterna. Birgitte rimase dov’era, osservando Elayne attraverso occhi stretti. Un certo scontento ribolliva e si agitava ancora dal legame. Le due continuarono a fissarsi per un lungo momento.

«Cosa dobbiamo fare con te, Elayne Trakand?» chiese infine Birgitte.

«Chiudermi a chiave nella mia stanza da letto, pare» sbottò Elayne.

«Non male come soluzione.»

«E mi terresti qui per sempre?» chiese Elayne. «Come Gelfina delle storie, rinchiusa per mille anni nella torre dimenticata?»

Birgitte sospirò. «No. Ma sei mesi o giù di lì aiuterebbero a far abbassare i miei livelli di apprensione.»

«Non abbiamo tempo per questo» replicò Elayne. «Non abbiamo tempo per molte cose, in questo periodo. Bisogna correre dei rischi.»

«Rischi che riguardano la regina dell’Andor che se ne va da sola ad affrontare una folla di membri dell’Ajah Nera? Sei come un idiota in preda alla sete di sangue sul campo di battaglia, che carica più avanti rispetto ai suoi compagni, cercando la morte senza un commilitone che gli guardi le spalle col suo scudo!»

Elayne sbatté le palpebre alla rabbia della donna.

«Non ti fidi di me, Elayne?» chiese Birgitte. «Ti sbarazzeresti di me, se potessi?»

«Cosa? No! Certo che mi fido di te.»

«Allora perché non lasci che ti aiuti? Io non dovrei essere qui ora. Non ho uno scopo tranne quello che le circostanze mi hanno dato. Tu mi hai reso tua Custode, ma non mi permetti di proteggerti! Come posso essere la tua guardia del corpo se non mi dici quando stai per metterti in pericolo?»

A Elayne venne voglia di tirar su le coperte per proteggersi da quegli occhi. Come poteva essere Birgitte quella che provava così tanto dolore? Era Elayne quella che era stata ferita! «Se significa qualcosa,» disse lei «non intendo farlo di nuovo.»

«No. Farai qualcos’altro di avventato.»

«Voglio dire che intendo essere più accorta. Forse hai ragione e la visione non è una garanzia perfetta. Di sicuro non ha impedito che venissi colta dal panico quando ho percepito un reale pericolo.»

«Tu non hai percepito un reale pericolo quando l’Ajah Nera ti ha rinchiuso in un carretto e ha cercato di portarti via?»

Elayne esitò. Sarebbe dovuta essere spaventata in quel momento, ma non lo era stata. Non solo per via della visione di Min. L’Ajah Nera non l’avrebbe mai uccisa, non in quelle circostanze. Lei era troppo preziosa.

Sentire quel coltello entrare nel suo fianco, penetrarle la pelle, scavare verso il suo ventre... quello era stato diverso. Il terrore. Riusciva a ricordare il mondo che si andava scurendo attorno a lei, il suo cuore che pulsava sempre più forte, come i tamburi al termine di un’esecuzione. Quelli che venivano prima del silenzio.

Birgitte osservò Elayne come valutandola. Lei poteva percepire le emozioni di Elayne. Era regina. Non poteva evitare i rischi. Ma... forse poteva trattenersi.

«Be’,» disse Birgitte «almeno hai scoperto qualcosa?»

«Sì» disse Elayne. «Io...»

In quel momento una testa avvolta in una sciarpa apparve sulla soglia. Mat aveva gli occhi chiusi. «Sei coperta?»

«Sì» disse Elayne. «E molto più alla moda di te, Matrim Cauthon. Quella sciarpa ha un’aria ridicola.»

Lui si accigliò, aprendo gli occhi e tirando via la sciarpa, rivelando il volto angoloso lì sotto. «Provaci tu a muoverti per la città senza essere riconosciuta» disse lui. «Ogni macellaio, locandiere e dannato accattone sul retro pare sapere che aspetto ho, di questi tempi.»

«Le Sorelle Nere stavano progettando di farti assassinare» disse Elayne.

«Cosa?» domandò Mat.

Elayne annuì. «Una ti ha menzionato. Pareva come se gli Amici delle Tenebre ti stessero cercando da qualche tempo, con l’intento di ucciderti.»

Birgitte scrollò le spalle. «Sono Amici delle Tenebre. Senza dubbio ci vogliono tutti morti.»

«Questo era diverso» disse Elayne. «Pareva più... veemente. Ti suggerisco di mantenere il pieno possesso delle tue facoltà mentali per un po’.»

«Questo sì che sarà difficile» osservò Birgitte. «Dal momento che lui non ha mai avuto delle facoltà mentali.»

Mat roteò gli occhi. «Mi sono forse perso la tua spiegazione su cosa stavi facendo nelle maledette segrete, seduta in una pozza del tuo stesso sangue, avendo proprio l’aria di esserti trovata nello schieramento perdente di schermaglia sul campo?»

«Stavo interrogando l’Ajah Nera» disse Elayne. «I dettagli non sono cosa che ti riguardi. Birgitte, hai un rapporto dai terreni?»

«Nessuno ha visto Mellar andarsene» disse la Custode. «Anche se abbiamo trovato il corpo del segretario a pianterreno, ancora caldo. Morto per una coltellata alla schiena.»

Elayne sospirò. «Shiaine?»

«Andata,» disse Birgitte «assieme a Marillin Gemalphin e Falion Bhoda.»

«L’Ombra non poteva lasciarle in nostro possesso» disse Elayne con un sospiro. «Sapevano troppo. Dovevano finire salvate o eliminate.»

«Be’,» disse Mat con una scrollata di spalle «tu sei viva e tre di loro sono morte. A me sembra un esito ragionevolmente buono.»

Ma quelli che sono scappati hanno una copia del tuo medaglione, pensò Elayne. Non lo disse ad alta voce. Non menzionò nemmeno l’invasione di cui aveva parlato Chesmal. Ne avrebbe parlato con Birgitte al più presto, naturalmente, ma prima voleva rifletterci da sola.

Mat aveva detto che gli eventi di quella notte avevano avuto un "esito ragionevolmente buono". Ma più Elayne ci pensava su, più si sentiva insoddisfatta. Stava per giungere un’invasione dell’Andor, ma lei non sapeva quando. L’Ombra voleva Mat morto, ma come Birgitte aveva fatto notare, quella non era una sorpresa. In effetti, l’unico risultato certo delle avventure della serata era il senso di stanchezza che Elayne provava. Quello e l’essere confinata una settimana nelle sue stanze.

«Mat» disse, togliendosi il suo medaglione. «Ecco, è tempo che te lo restituisca. Dovresti sapere che probabilmente mi ha salvato la vita, stanotte.»

Lui le si avvicinò e lo prese con impazienza, poi esitò. «Sei stata in grado di...»

«Copiarlo? Non perfettamente. Ma fino a un certo punto.»

Mat se lo rimise addosso, con aria preoccupata. «Be’, è bello riaverlo. Volevo chiederti qualcosa. Ora potrebbe non essere il momento.»

«Parla» disse Elayne, stanca. «Magari lo è.»

«Be’, si tratta del gholam


«La città è stata svuotata della maggior parte dei civili» disse Yoeli mentre lui e Ituralde attraversavano il cancello di Maradon a piedi. «Siamo vicini alla Macchia; questa non è la prima volta che abbiamo evacuato. La mia stessa sorella, Sigrid, guida gli Ultimi Cavalieri, che montano la guardia dal costone a sudest e manderanno la notizia se dovessimo cadere. Avrà passato parola ai nostri posti di guardia per la Saldea, richiedendo aiuto. Accenderà un grosso fuoco per allertarci, se dovessero arrivare.»

L’uomo dal volto magro guardò Ituralde, la sua espressione cupa. «Ci saranno poche truppe che potranno venire in nostro aiuto. La regina Tenobia ne ha prese molte con sé quando è andata a cercare il Drago Rinato.»

Ituralde annuì. Camminava senza zoppicare: Antail, uno degli Asha’man, era piuttosto abile nella Guarigione. I suoi uomini avevano montato un campo frettoloso nel cortile appena dentro i cancelli cittadini. I Trolloc avevano preso le tende che loro avevano lasciato indietro, poi vi avevano dato fuoco di notte per illuminarli mentre banchettavano con i feriti. Ituralde aveva spostato alcune delle sue truppe negli edifici vuoti, ma voleva altri vicino al cancello nel caso di un assalto.

Gli Asha’man e le Aes Sedai avevano lavorato per Guarire gli uomini di Ituralde, ma solo i casi peggiori potevano ricevere cure. Ituralde annuì ad Antail, che stava lavorando con i feriti in una sezione delimitata da corde della piazza. Antail non vide il suo cenno col capo. Era concentrato e sudava, al lavoro con un Potere a cui Ituralde non voleva pensare.

«Sei certo di volerli vedere?» chiese Yoeli. Teneva la lunga lancia di un cavaliere sulla spalla, con la punta a cui era legato un pennacchio triangolare giallo e nero. Era chiamato lo Stendardo del Traditore dai Saldeani qui.

La città trasudava ostilità, diversi gruppi di Saldeani che si fissavano a vicenda con espressioni cupe. Molti indossavano strisce di stoffa nera e stoffa gialla intrecciate assieme e legate ai foderi delle loro spade. Annuirono a Yoeli.

Desya gavane cierto cuendar isain carentin, pensò Ituralde. Una frase nella Lingua Antica. Voleva dire: "Un cuore risoluto vale dieci discussioni." Poteva indovinare cosa significava quello stendardo. A volte un uomo sapeva cosa doveva fare, anche se pareva sbagliato.

I due camminarono per un po’ per le strade. Maradon era come molte città delle Marche di Confine: mura dritte, edifici squadrati, strade strette. Le case parevano rocche fortificate, con finestre piccole e porte robuste. Le strade curvavano in strani modi e non c’erano tetti di paglia: solo tegole di ardesia, ignifughe. Il sangue secco a diverse intersezioni chiave era difficile da distinguere contro la pietra scura, ma Ituralde sapeva cosa cercare. Il salvataggio di Yoeli delle sue truppe era avvenuto dopo un combattimento fra i Saldeani.

Raggiunsero un edificio privo di segni particolari. Per un forestiero non ci sarebbe stato modo di sapere che questa particolare abitazione apparteneva a Vram Torkumen, lontano cugino della regina, nominato lord della città in sua assenza. I soldati alla porta indossavano giallo e nero. Rivolsero il saluto a Yoeli.

All’interno, Ituralde e Yoeli salirono su una stretta scalinata e percorsero tre rampe. C’erano soldati quasi in ogni stanza. Nella stanza più in alto, quattro uomini che portavano lo Stendardo del Traditore sorvegliavano una grossa porta intarsiata d’oro. Il corridoio era scuro: strette finestre e un tappeto di nero, verde e rosso.

«Qualcosa da riferire, Tarran?» chiese Yoeli.

«Nulla, signore» disse l’uomo con un saluto. Portava lunghi baffi e aveva le gambe incurvate di un uomo molto a suo agio in sella.

Yoeli annuì. «Grazie, Tarran. Per tutto quello che fai.»

«Sto con te, signore. E ci rimarrò fino alla fine.»

«Che tu possa tenere i tuoi occhi verso nord, ma il tuo cuore verso sud, amico mio» disse Yoeli, inspirando a fondo e aprendo la porta. Ituralde lo seguì.

All’interno della stanza, un Saldeano in una ricca veste rossa sedeva accanto a un focolare, sorseggiando una coppa di vino.

Una donna con un abito elegante ricamava nella sedia di fronte a lui. Nessuno dei due alzò lo sguardo.

«Lord Torkumen» disse Yoeli. «Questo è Rodel Ituralde, capo dell’esercito domanese.»

L’uomo al focolare sospirò sopra la sua coppa di vino. «Non bussi, non aspetti che sia io a parlarti per primo, giungi a un’ora in cui ho espresso la mia necessità di una silenziosa contemplazione.»

«Sul serio, Vram,» disse la donna «ti aspetti delle buone maniere da quest’uomo? Ora?»

Yoeli posò in silenzio la mano sull’elsa della sua spada. La stanza conteneva un guazzabuglio di mobili: un letto dal lato della stanza che ovviamente non doveva stare lì, alcune cassapanche e degli armadi.

«Dunque,» disse Vram «Rodel Ituralde. Tu sei uno dei gran capitani. Mi rendo conto che potrebbe essere un insulto chiedere, ma devo rispettare le formalità. Ti rendi conto che, portando delle truppe sul nostro suolo, hai rischiato una guerra?»

«Io servo il Drago Rinato» disse Ituralde. «Tarmon Gai’don giunge, e tutte le precedenti fedeltà, i confini e le leggi sono soggetti al volere del Drago.»

Vram schioccò la lingua. «Fautore del Drago. Ho avuto dei rapporti, naturalmente, e quegli uomini di cui ti avvali sembravano un indizio evidente. Ma è comunque così strano da sentire. Non ti rendi conto di quanto suoni completamente stupido?»

Ituralde incontrò gli occhi dell’uomo. Lui non si era considerato un Fautore del Drago, ma non serviva a nulla chiamare un cavallo una roccia e aspettarsi che tutti gli altri fossero d’accordo. «Non t’importa dell’invasione dei Trolloc?»

«Ci sono stati Trolloc in passato» disse Vram. «Ci sono sempre stati Trolloc.»

«La regina...» disse Yoeli.

«La regina» lo interruppe Vram «tornerà presto dalla sua spedizione per smascherare e catturare questo falso Drago. Una volta accaduto questo, lei ti farà giustiziare, traditore. Tu, Rodel Ituralde, probabilmente verrai risparmiato per via del tuo rango, ma non mi piacerebbe essere nei panni della tua famiglia quando riceveranno la richiesta di riscatto. Spero che tu abbia ricchezze da accompagnare alla tua reputazione. Altrimenti, con molta probabilità trascorrerai molti dei tuoi prossimi anni a non comandare altro che i ratti della tua cella.»

«Capisco» disse Ituralde. «Quando sei passato all’Ombra?»

Vram sgranò gli occhi e si alzò in piedi. «Osi definirmi un Amico delle Tenebre?»

«Ho conosciuto alcuni Saldeani ai miei tempi» disse Ituralde. «Alcuni li ho chiamati amici; contro altri ho combattuto. Ma non ne ho mai conosciuto uno che avrebbe guardato degli uomini combattere contro la Progenie dell’Ombra e non avrebbe offerto loro aiuto.»

«Se avessi una spada...» disse Vram.

«Che tu possa bruciare, Vram Torkumen» disse Ituralde. «Sono venuto qui a dirti questo, da parte degli uomini che ho perso.»

L’uomo parve sconcertato mentre Ituralde si voltava per andarsene. Yoeli si unì a lui, chiudendo la porta.

«Non sei d’accordo con la mia accusa?» chiese Ituralde, unendosi al traditore mentre tornavano alle scale.

«Sinceramente non riesco a decidere se sia uno sciocco o un Amico delle Tenebre» disse Yoeli. «Dovrebbe essere l’uno o l’altro per non mettere assieme la verità dall’inverno, quelle nubi e le voci secondo cui al’Thor ha conquistato mezzo mondo.»

«Allora non hai nulla da temere» disse Ituralde. «Non sarai giustiziato.»

«Ho ucciso i miei compatrioti,» disse Yoeli «organizzato una rivolta contro il governante designato dalla mia regina e preso il comando della città, anche se non ho una goccia di sangue nobile.»

«Questo cambierà nel momento in cui Tenobia tornerà, te lo garantisco» disse Ituralde. «Ti sei guadagnato un titolo di sicuro.»

Yoeli si fermò sulla rampa scura, illuminata solo da sopra e sotto. «Vedo che non capisci. Ho tradito i miei giuramenti e ucciso degli amici. Io esigerò l’esecuzione, come è mio diritto.»

Ituralde provò un brivido. Dannati abitanti delle Marche di Confine, pensò. «Giura fedeltà al Drago. Lui soppianta tutti i giuramenti. Non sprecare la tua vita. Combatti accanto a me all’Ultima Battaglia.»

«Non mi nasconderò dietro delle scuse, lord Ituralde» disse l’uomo, continuando a scendere le scale. «Non più di quanto potessi guardare i tuoi uomini morire. Vieni. Provvediamo ad alloggiare quegli Asha’man. Mi piacerebbe molto vedere questi "passaggi" di cui parli. Se li potessimo usare per mandare fuori dei messaggi e portare dentro delle provviste, questo potrebbe essere un assedio davvero interessante.»

Ituralde sospirò ma lo seguì. Non parlarono di fuggire via tramite i passaggi. Yoeli non avrebbe abbandonato la città. E, si rese conto Ituralde, lui non avrebbe abbandonato Yoeli e i suoi uomini. Non dopo quello che avevano passato per salvarlo.

Questo era un posto buono come un altro per opporre resistenza. Meglio di parecchie situazioni in cui si era trovato di recente, questo era certo.


Perrin entrò nella loro tenda e trovò Faile che si pettinava i capelli. Era bellissima. Ogni giorno si meravigliava che lei fosse davvero tornata.

Faile si voltò verso di lui e sorrise dalla soddisfazione. Stava usando il nuovo pettine d’argento che lui le aveva lasciato sul cuscino, qualcosa che aveva ottenuto in uno scambio da Gaul, che l’aveva trovato a Malden. Se questo shanna’har era importante per lei, allora Perrin intendeva trattarlo allo stesso modo.

«I messaggeri sono tornati» disse Perrin, chiudendo i lembi della tenda. «I Manti Bianchi hanno scelto un campo di battaglia. Luce, Faile. Mi costringeranno a spazzarli via.»

«Io non vedo un problema in questo» disse lei. «Vinceremo.»

«Probabilmente» disse Perrin, sedendosi sui cuscini accanto al loro pagliericcio per dormire. «Ma per quanto gli Asha’man faranno la maggior parte del lavoro all’inizio, dovremo comunque avvicinarci per combattere. Questo significa che perderemo gente. Bravi uomini di cui avremo bisogno all’Ultima Battaglia.» Si costrinse a rilassare i pugni che aveva serrato. «La Luce folgori quei Manti Bianchi per quello che hanno fatto e per quello che stanno facendo.»

«Allora è una gradita opportunità per sconfiggerli.»

Perrin grugnì una risposta e non spiegò la profondità della frustrazione che provava. Avrebbe perso quello scontro con i Manti Bianchi, qualunque cosa fosse successa. Degli uomini sarebbero morti su entrambi i fronti. Uomini di cui avevano bisogno.

Il fulmine balenò all’esterno, proiettando ombre sul tetto di tela. Faile si diresse alla loro cassapanca, tirando fuori una camicia da notte per sé e mettendo da parte una vestaglia per lui. Pensava che un lord dovesse avere una vestaglia a portata di mano in caso avessero avuto bisogno di lui di notte. Aveva avuto ragione un paio di volte, finora.

Lo superò, odorando di preoccupazione, anche se la sua espressione era affabile. Lui aveva esaurito tutte le possibilità per una risoluzione pacifica con i Manti Bianchi. Pareva che, volente o nolente, gli sarebbe toccato uccidere di nuovo molto presto.

Si spogliò fino a restare in indumenti intimi e si stese, poi iniziò ad assopirsi prima che Faile avesse finito di cambiarsi.


Entrò nel sogno del lupo sotto la grande spada che impalava il terreno. In lontananza poteva distinguere la collina che Gaul aveva definito un "buon punto d’osservazione". Il sito del campo era rifornito da dietro da un torrente.

Perrin si voltò e si affrettò verso l’accampamento dei Manti Bianchi. Erano situati come una diga in un fiume, impedendogli di andare avanti.

«Hopper?» chiamò, guardandosi attorno per il campo dei Manti Bianchi, tende immobili erette in un campo aperto. Non ci fu risposta, così Perrin ispezionò il campo ancora per un po’. Balwer non aveva riconosciuto il sigillo che Perrin aveva descritto. Chi guidava questi Manti Bianchi?

Circa un’ora più tardi, Perrin non era giunto a nessuna conclusione su quello. Però era piuttosto certo di quali fossero le tende in cui conservavano le loro provviste; quelle potevano non essere sorvegliate quanto i prigionieri e, con dei passaggi, sarebbe potuto essere in grado di bruciarle.

Forse. Le lettere del loro lord Capitano Comandante erano piene di frasi come: "Sto dando alla tua gente il beneficio del dubbio sulla loro consapevolezza della tua natura" e "La mia pazienza per i tuoi ritardi si assottiglia sempre più" e "Ci sono solo due opzioni. Consegnati a un giusto processo o porta il tuo esercito a subire il giudizio della Luce."

C’era uno strano senso dell’onore in quest’uomo, uno che Perrin aveva visto accennato quando si era incontrato con lui, ma che poteva percepire ancor di più attraverso le lettere. Ma chi era? Firmava le sue lettere solo "Lord Capitano Comandante dei Figli della Luce".

Perrin si spostò sulla strada. Dov’era Hopper? Perrin partì a una rapida corsa. Dopo qualche momento, si spostò sull’erba. La terra era così soffice che ogni passo pareva far balzare il suo piede di nuovo in aria.

Si protese in fuori e pensò di percepire qualcosa verso sud. Corse verso di esso; desiderò andare più veloce, così lo fece. Alberi e colline sfrecciavano accanto.

I lupi erano al corrente di lui. Era il branco di Danza Quercia, con Sconfinato, Scintille, Luce del Mattino e altri. Perrin poteva sentirli trasmettere a vicenda sussurri distanti di immagini e odore. Si mosse più veloce, avvertendo il vento diventare un ruggito attorno a lui.

I lupi iniziarono a spostarsi ancora più a sud. Aspettate!, trasmise lui. Devo incontrarmi con voi!

Quelli risposero solo con divertimento. All’improvviso erano diretti a est e lui si arrestò di colpo, poi si fermò. Corse con tutta la rapidità con cui sapeva farlo, ma quando si avvicinò, tutt’a un tratto quelli furono altrove. Si erano spostati, scomparendo da sud e apparendo a nord di lui.

Perrin ringhiò e all’improvviso fu a quattro zampe. La sua pelliccia si increspò, la sua bocca aperta mentre scattava verso nord, ingoiando il vento sibilante. Ma i lupi rimanevano avanti, lontani.

Ululò. Quelli gli rimandarono richiami di scherno.

Si spinse più veloce, saltando dalla sommità di una collina all’altra, rimbalzando sugli alberi, il terreno indistinto. In pochi momenti, le Montagne di Nebbia sorsero alla sua sinistra e lui le costeggiò in un lampo.

I lupi svoltarono a est. Perché non riusciva a riprenderli? Poteva sentire il loro odore più avanti. Giovane Toro lanciò il suo ululato verso di loro, ma non ottenne risposta.

Non venire con troppa forza, Giovane Toro.

Giovane Toro si arrestò e il mondo sussultò attorno a lui. Il branco principale continuò a est, ma Hopper se ne stava accovacciato accanto all’ampia ansa di un torrente. Giovane Toro era stato qui in precedenza: era la tana dei suoi genitori. Aveva viaggiato lungo il fiume stesso sul dorso di uno degli alberi galleggianti degli umani. Lui...

No... no... ricorda Faile!

La sua pelliccia si trasformò in vestiti e lui si ritrovò su mani e ginocchia. Guardò torvo Hopper. «Perché sei corso via?» domandò Perrin.

Tu desideri apprendere, trasmise Hopper. Diventi più abile. Più veloce. Allunghi le gambe e corri. Questo è bene.

Perrin si guardò indietro verso la direzione da cui era venuto, pensando alla sua velocità. Era balzato da collina a collina. Era stato meraviglioso. «Ma dovevo diventare lupo per farlo» disse Perrin. «E questo minacciava di farmi essere qui "con troppa forza". A che serve addestrarmi se mi fa fare cose che tu hai proibito?»

Sei veloce a dare colpe, Giovane Toro. Un giovane lupo che ululava e guaiva fuori dalla tana, facendo trambusto. Questa non è una cosa da lupi.

Hopper scomparve in un batter d’occhio.

Perrin ringhiò, guardando a est, dove percepiva i lupi. Partì di corsa dietro di loro, andando più cauto. Non poteva permettersi di lasciare che il lupo lo consumasse. Sarebbe finito come Noam, intrappolato in una gabbia, la sua umanità scomparsa. Perché Hopper l’avrebbe incoraggiato a fare una cosa del genere?

Questa non è una cosa da lupi. Era intesa come un’accusa oppure Hopper si riferiva solo a quello che stava accadendo a Perrin?

Tutti gli altri sapevano di terminare la caccia, Giovane Toro, trasmise Hopper da lontano. Solo tu hai dovuto essere fermato.

Perrin si immobilizzò, arrestandosi sulla riva del fiume. La caccia al cervo bianco. All’improvviso Hopper fu lì, accanto al fiume con lui.

«Questo è cominciato quando ho iniziato a percepire i lupi» inviò Perrin. «La prima volta che ho perso il controllo di me stesso è stato con quei Manti Bianchi.»

Hopper si stese a terra, posando la testa sulle zampe. Spesso tu sei qui con troppa forza, trasmise il lupo. È quello che fai.

Hopper gliel’aveva detto, di tanto in tanto, fin da quando lui aveva conosciuto il lupo e il sogno del lupo. Ma tutt’a un tratto Perrin vide un nuovo significato in questo. Riguardava l’essere nel sogno del lupo, ma anche Perrin stesso.

Aveva iniziato a dare la colpa ai lupi per quello che lui faceva, per com’era quando combatteva, per come era diventato quando cercava Faile. Ma erano i lupi la causa di questo? O era qualche parte di lui? Era possibile che fosse stato quello a farlo diventare un fratello dei lupi fin dall’inizio?

«È possibile» disse Perrin «correre su quattro zampe ma non venire qui con troppa forza?»

Certo che sì, trasmise Hopper, ridendo come facevano i lupi — come se quello che Perrin aveva scoperto fosse la cosa più ovvia al mondo. Forse lo era.

Forse lui non era come i lupi perché era un fratello dei lupi. Forse era un fratello dei lupi perché era come i lupi. Non aveva bisogno di controllare loro. Aveva bisogno di controllare sé stesso.

«Il branco» disse Perrin. «Come li raggiungo? Muovendomi più rapidamente?»

Quello è un modo. Un altro è essere dove vuoi.

Perrin si accigliò. Poi chiuse gli occhi e usò la direzione in cui stavano correndo i lupi per indovinare dove sarebbero stati. Qualcosa traslò.

Quando aprì gli occhi, era in piedi su una collina sabbiosa, con ciuffi di lunghi fili d’erba che spuntavano dal suolo. Una montagna enorme con la vetta spezzata — rotta come se fosse stata schiaffeggiata dalla mano di un gigante — si innalzava alla sua destra.

Un branco di lupi spuntò dalla foresta. Molti di essi stavano ridendo. Giovane Toro, che cacciava quando avrebbe dovuto cercare la fine! Giovane Toro, che cercava la fine quando si sarebbe dovuto godere la caccia! Lui sorrise, tentando di avere un atteggiamento benigno nei confronti di quelle risate, anche se per la verità si sentiva come il giorno in cui suo cugino Wil gli aveva fatto cadere addosso un secchio di piume bagnate.

Qualcosa fluttuò in aria. Una penna di pollo. Umida attorno ai bordi. Perrin sussultò, accorgendosi che erano sparse attorno a lui per terra. Mentre sbatteva le palpebre, quelle svanirono. I lupi odorarono molto divertiti, mandando immagini di Giovane Toro cosparso di penne.

Perditi nei sogni qui, Giovane Toro, trasmise Hopper, e quei sogni diventano questo sogno.

Perrin si grattò la barba, reprimendo il suo imbarazzo. Aveva sperimentato in precedenza la natura imprevedibile del sogno del lupo. «Hopper» disse, voltandosi verso il lupo. «Quanto potrei cambiare dei miei paraggi, se volessi?»

Se tu volessi?, disse Hopper. Non riguarda quello che tu vuoi, Giovane Toro. Riguarda quello di cui hai bisogno. Quello che sai.

Perrin si accigliò. A volte quello che voleva dire il lupo lo confondeva ancora.

All’improvviso gli altri lupi del branco si voltarono — tutti assieme come un solo lupo — e guardarono verso sudovest. Scomparvero.

Sono andati qui. Hopper inviò un’immagine di una distante valletta boscosa. Il lupo si preparò a seguirli.

«Hopper!» disse Perrin, venendo avanti. «Come lo sapevi? Dove sono andati? Te l’hanno detto?»

No. Ma posso seguirli.

«Come?» chiese Perrin.

È una cosa che ho sempre saputo, trasmise Hopper. Come camminare. O saltare.

«Sì, ma come

Il lupo odorava di smarrimento. È un odore, rispose infine, anche se 'odore’ era molto più complesso di quello. Era una sensazione, un’impressione e un profumo, tutto quanto in uno.

«Va’ da qualche parte» disse Perrin. «Lasciami provare a seguirti.»

Hopper scomparve. Perrin si diresse dov’era stato il lupo.

Fiutalo, inviò Hopper da lontano. Era quasi simile a un messaggio trasmesso. Di riflesso, Perrin si protese verso l’esterno. Trovò dozzine di lupi. In effetti, era stupito da quanti di essi fossero qui, sulle pendici di Montedrago. Perrin non ne aveva mai percepiti così tanti radunati in un solo posto prima. Perché si trovavano qui? E il cielo sembrava più tempestoso in questo posto che non in altre zone del sogno del lupo?

Non riusciva a percepire Hopper: il lupo si era estraniato, in qualche modo, rendendo Perrin incapace di individuare dove fosse. Perrin si calmò. Fiutalo, aveva trasmesso Hopper. Fiutarlo come? Perrin chiuse gli occhi e lasciò che il suo naso gli portasse gli odori della zona. Coni di pino e resina, penne e foglie, ericacee e cicuta.

E... qualcos’altro. Sì, poteva fiutare qualcosa. Un odore distante e persistente che pareva fuori posto. Molti degli odori erano gli stessi: lo stesso fertile senso di natura, la stessa ricchezza di alberi. Ma quelli erano misti agli odori di muschio e pietra umida. L’aria era diversa. Polline e fiori.

Perrin strinse gli occhi, inalando a fondo. In qualche modo, si costruì nella mente un’immagine da quegli odori. Quel procedimento non era dissimile dal modo in cui i messaggi di un lupo si traducevano in parole.

Lì, pensò. Qualcosa traslò.

Perrin aprì gli occhi. Era seduto su un affioramento roccioso in mezzo a dei pini; era sul fianco di Montedrago, a diverse ore di camminata più in alto da dove era stato. L’affioramento di roccia era coperto di licheni e sporgeva sopra gli alberi che si estendevano lì sotto. Una chiazza di respirelle violette cresceva qui, dove la luce del sole poteva raggiungere i boccioli. Era bello vedere fiori che non fossero avvizziti o morenti, anche se solo nel sogno del lupo.

Vieni, trasmise Hopper. Segui.

E scomparve.

Perrin chiuse gli occhi, inspirando. Il procedimento fu più facile stavolta. Quercia ed erba, fango e umidità. Pareva che ogni posto avesse il suo odore specifico.

Perrin traslò, poi aprì gli occhi. Era accucciato in un campo vicino alla strada di Jehannah. Era il posto dove il branco di Danza Quercia era andato prima, e Hopper si muoveva per il prato, odorando di curiosità. Il branco aveva proseguito, ma erano ancora vicini.

«Posso farlo sempre?» chiese Perrin a Hopper. «Fiutare dove un lupo è andato nel sogno?»

Chiunque può farlo, disse Hopper. Se può fiutare come fa un lupo. Sogghignò.

Perrin annuì pensieroso.

Hopper tornò verso di lui a balzi per il prato. Dobbiamo esercitarci, Giovane Toro. Tu sei ancora un cucciolo con zampe corte e pelliccia soffice. Noi...

Hopper si immobilizzò all’improvviso.

«Cosa c’è?» domandò Perrin.

All’improvviso un lupo ululò di dolore. Perrin si voltò. Era Luce del Mattino. L’ululato si interruppe e la mente del lupo si spense, scomparendo.

Hopper ringhiò, i suoi odori pieni di panico, rabbia e tristezza.

«Cos’era quello?» chiese Perrin.

Siamo cacciati. Vai, Giovane Toro! Dobbiamo andare.

Le menti degli altri membri del branco balzarono via. Perrin ringhiò. Quando un lupo moriva nel sogno del lupo, era per sempre. Nessuna rinascita, nessuna corsa col naso al vento. Solo una cosa cacciava gli spiriti dei lupi.

L’Assassino.

Giovane Toro!, trasmise Hopper. Dobbiamo andare!

Perrin continuò a ringhiare. Luce del Mattino aveva inviato un ultimo impeto di sorpresa e dolore, la sua ultima visione del mondo. Perrin formò un’immagine da quel guazzabuglio. Poi chiuse gli occhi.

Giovane Toro! No! Lui...

Trasla. Perrin spalancò gli occhi e si ritrovò in una piccola radura vicino a dove la sua gente era accampata nel mondo reale. Un uomo abbronzato e muscoloso con capelli scuri e occhi azzurri era accovacciato al centro della radura, col cadavere di un lupo ai suoi piedi. L’Assassino era un uomo dalle braccia forti e il suo odore era vagamente inumano, come un uomo misto a pietra. Indossava abiti scuri; cuoio e lana nera. Mentre Perrin osservava, l’Assassino cominciò a scuoiare il cadavere.

Perrin caricò in avanti. L’Assassino alzò lo sguardo dalla sorpresa. Assomigliava a Lan in un modo quasi sinistro, il suo volto tutto angoli e linee affilate. Perrin ruggì, col martello all’improvviso tra le mani.

L’Assassino scomparve in un batter d’occhio e il martello di Perrin attraversò l’aria vuota. Perrin respirò a fondo. Gli odori erano lì! Salmastro e legno, umido d’acqua. Gabbiani e i loro escrementi. Perrin usò la sua capacità appena acquisita per scagliarsi verso quella località distante.

Trasla.

Perrin comparve su un molo vuoto in una città che non riconobbe. L’Assassino era in piedi lì vicino, che esaminava il suo arco.

Perrin attaccò. L’Assassino sollevò la testa, sgranando gli occhi col suo odore che si faceva stupito. Alzò l’arco per bloccare, ma il colpo di Perrin lo mandò in frantumi.

Con un ruggito, Perrin tirò indietro la sua arma e la vibrò di nuovo, stavolta verso la testa dell’Assassino. Stranamente, l’Assassino sorrise, gli occhi scuri che scintillavano di divertimento. Odorava d’impazienza, all’improvviso. Impazienza di uccidere. Una spada apparve nella sua mano sollevata e lui la ruotò per bloccare il colpo di Perrin.

Il martello rimbalzò troppo forte, come se avesse colpito della pietra. Perrin barcollò e l’Assassino allungò una mano, mettendogliela contro la spalla. Spinse.

La sua forza era immensa. Lo spintone scagliò Perrin all’indietro sul molo, ma il legno scomparve mentre colpiva. Perrin passò attraverso l’aria vuota, finendo tra gli schizzi nell’acqua sottostante. Il suo urlo divenne un gorgoglio, liquido scuro che lo circondava.

Si sforzò di nuotare verso l’alto, lasciando cadere il suo martello, ma scoprì che la superficie si era inspiegabilmente trasformata in ghiaccio. Delle corde serpeggiarono dalle profondità, avvolgendosi attorno alle braccia di Perrin e trascinandolo verso il basso. Attraverso la superficie congelata sopra di lui, poteva vedere un’ombra muoversi. L’Assassino, che sollevava il suo arco riformato.

Il ghiaccio svanì e l’acqua si separò. Colò via da Perrin e lui si ritrovò a fissare in alto verso una freccia puntata dritta al suo cuore.

L’Assassino scagliò.

Perrin desiderò di essere lontano.

Trasla. Annaspò, colpendo l’affioramento di pietra dove si era trovato con Hopper. Perrin cadde in ginocchio, con acqua di mare che gli colava dal corpo. Sputacchiò, asciugandosi la faccia, il cuore che martellava.

Hopper apparve accanto a lui, col fiatone, il suo odore arrabbiato. Stupido cucciolo! Inseguire un leone quando sei a malapena svezzato?

Perrin rabbrividì e si mise a sedere. L’Assassino l’avrebbe seguito? Poteva farlo? I minuti passarono e nessuno apparve, così Perrin iniziò a rilassarsi. Lo scambio con l’Assassino era avvenuto così rapidamente da sembrare qualcosa di indistinto. Quella forza... era più di quanto qualunque uomo avrebbe potuto avere. E il ghiaccio, le corde...

«Lui ha cambiato le cose» disse Perrin. «Ha fatto scomparire il molo sotto di me, ha creato corde per legarmi, ha spinto via l’acqua in modo da poter avere una traiettoria sgombra per la sua freccia.»

Lui è un leone. Uccide. Pericoloso.

«Ho bisogno di imparare. Devo affrontarlo, Hopper.»

Tu sei troppo giovane. Queste cose vanno oltre le tue capacità.

«Troppo giovane?» disse Perrin alzandosi in piedi. «Hopper, l’Ultima Caccia è quasi su di noi!»

Hopper si stese con la testa sulle zampe.

«Mi dici sempre che sono troppo giovane» proseguì Perrin. «O che non so cosa sto facendo. Be’, a che scopo insegnarmi se non per mostrarmi come combattere uomini come l’Assassino?»

Vedremo, trasmise Hopper. Per stanotte andrai. Abbiamo finito.

Perrin percepì un’impronta luttuosa nel messaggio, e anche un senso di definitività. Stanotte, il branco di Danza Quercia e Hopper avrebbero pianto per Luce del Mattino.

Sospirando, Perrin sedette a gambe incrociate. Si concentrò e riuscì a imitare le cose che Hopper aveva fatto nel gettarlo fuori dal sogno.

Quello scomparve attorno a lui.


Si svegliò sul giaciglio nella sua tenda buia, con Faile accoccolata accanto a lui.

Restò disteso per un po’, lo sguardo fisso sul soffitto di tela. L’oscurità gli ricordava il cielo in tempesta nel sogno del lupo. Il sonno pareva distante quanto Caemlyn. Alla fine si alzò — districandosi con cautela da Faile — e si infilò pantaloni e camicia.

Fuori il campo era buio, ma c’era abbastanza luce per i suoi occhi. Annuì a Kenly Maerin e Jaim Dawtry, gli uomini dei Fiumi Gemelli che sorvegliavano la sua tenda quella notte.

«Che ora è?» chiese a uno di loro.

«Dopo mezzanotte, lord Perrin» disse Jaim.

Perrin grugnì. Fulmini distanti illuminarono il paesaggio. Lui si allontanò e gli uomini cominciarono a seguirlo. «Non ci sarà bisogno di una scorta» disse loro. «Sorvegliate la mia tenda: lady Faile dorme ancora.»

La sua tenda era vicino al bordo dell’accampamento. Questo gli piaceva: gli dava la sensazione di essere un po’ più appartata, annidata vicino al versante della collina sul lato occidentale del campo. Anche se era tardi, superò Gaul che affilava la sua lancia accanto a un tronco caduto. L’alto Cane di Pietra si alzò e iniziò a seguirlo, e Perrin non lo cacciò via. Di recente Gaul aveva la sensazione di non aver portato a termine il compito che lui stesso si era dato di vegliare su Perrin e aveva aumentato i propri sforzi. Perrin pensava che in realtà volesse solo una scusa per stare lontano dalla sua stessa tenda e dalle due donne gai’shain che avevano preso residenza lì.

Gaul si tenne a distanza e Perrin ne fu lieto. Era così che si sentivano tutti i governanti? Non c’era da meravigliarsi che così tante nazioni finissero in guerra le une contro le altre: i loro capi non avevano mai tempo di pensare per conto loro, e probabilmente attaccavano per fare in modo che la gente smettesse di tormentarli!

Poco lontano, entrò in una macchia di alberi con una piccola pila di tronchi. Denton — il suo servitore finché non avevano recuperato Lamgwin — si era accigliato quando Perrin aveva fatto domande in merito. Un tempo un lord minore di Cairhien, Denton si era rifiutato di tornare alla sua posizione. Ora si riteneva un servitore e non avrebbe lasciato che nessuno lo convincesse del contrario.

C’era un’ascia. Non la mortale lama a mezzaluna che lui una volta aveva portato in battaglia, ma una robusta scure da boscaiolo con una testa di ottimo acciaio e un manico reso liscio dalle mani sudate degli operai. Perrin si rimboccò le maniche, poi si sputò sui palmi e raccolse la scure. Tenere del legno lavorato fra le mani gli dava una bella sensazione. Se la sollevò fino alla spalla, mise il primo ciocco in piedi davanti a lui, poi fece un passo indietro e calò l’ascia.

Colpì il ciocco dritto per dritto, con schegge che volavano nella scura aria notturna. Poi spaccò una delle due metà. Gaul si mise a sedere accanto a un albero, tirando fuori una lancia e continuando ad affilarne la punta. Il raschiare di metallo contro metallo accompagnava i tonfi della scure di Perrin contro il legno.

Era una bella sensazione. Come mai la sua mente lavorava tanto meglio quando stava facendo qualcosa? Loial parlava molto di starsene seduti a pensare. Perrin non credeva che sarebbe riuscito a capire nulla a quel modo.

Spaccò un altro ciocco, il taglio dell’ascia netto. Era proprio vero? Poteva dare la colpa alla sua stessa natura per il modo in cui agiva, non ai lupi? Non si era mai comportato a quel modo nei Fiumi Gemelli.

Spaccò un altro ciocco. Sono sempre stato bravo nel concentrare la mia attenzione. Quello era parte di ciò che aveva colpito mastro Luhhan. Davi un progetto a Perrin e lui continuava a lavorarci finché non aveva finito.

Spaccò le metà di quel ciocco.

Forse i cambiamenti in lui erano un risultato dell’incontro col mondo esterno. Aveva incolpato i lupi per molte cose e aveva fatto a Hopper delle richieste innaturali. I lupi non erano stupidi o semplici, ma a loro non importava delle cose come facevano gli umani. Doveva essere stato molto difficile per Hopper insegnare in un modo che Perrin comprendesse.

Cosa gli doveva il lupo? Hopper era morto durante quella notte fatale, così tanto tempo prima. La notte in cui Perrin aveva ucciso un uomo per la prima volta, la notte in cui Perrin aveva perso per la prima volta il controllo di sé in battaglia. Hopper non doveva nulla a Perrin, ma lo aveva salvato in diverse occasioni: in effetti, Perrin si rese conto che l’intervento di Hopper era servito a impedirgli di perdere sé stesso e diventare un lupo.

Vibrò la scure contro il ciocco, un colpo di striscio che lo sbatté da un lato. Lo riposizionò e continuò. Il sommesso rumore di Gaul che affilava lo calmava. Spaccò il ciocco.

Perrin rimase assorto in quello che stava facendo, forse troppo. Quello era vero.

Ma allo stesso tempo, se un uomo voleva concludere qualcosa, doveva lavorare su un unico progetto finché non era completo. Perrin aveva conosciuto uomini che non erano mai sembrati capaci di terminare nulla, e le loro fattorie erano un caos. Lui non poteva vivere così.

Doveva esserci un equilibrio. Perrin aveva affermato di essere stato trascinato in un mondo di problemi molto più grandi di lui. Aveva affermato di essere un uomo semplice.

E se si fosse sbagliato? E se lui fosse stato un uomo complesso che per caso un tempo aveva vissuto una vita semplice? Dopotutto, se lui era così semplice, perché si era innamorato di una donna tanto complicata?

I ciocchi spaccati si stavano accumulando. Perrin si chinò, raccogliendone i quarti, le loro venature ruvide contro le sue dita. Dita callose; non sarebbe mai stato un lord come quelle creature viziate di Cairhien. Ma c’erano altri tipi di lord, uomini come lo stesso padre di Faile. O uomini come Lan, che sembrava più un’arma che un uomo.

Perrin impilò il legno. Gli piaceva guidare i lupi nel suo sogno, ma i lupi non si aspettavano che tu li proteggessi o provvedessi loro, oppure elaborassi delle leggi per loro. Non venivano a piangere da te quando i loro cari morivano sotto il tuo comando.

Non era il comando a preoccuparlo. Erano tutte le cose che venivano con esso.

Riuscì a fiutare Elyas avvicinarsi. Con il suo naturale odore terroso, all’olfatto sembrava un lupo. Quasi.

«Fai le ore piccole» disse Elyas accostandosi a lui. Perrin udì un fruscio in direzione di Gaul mentre faceva scivolare di nuovo al suo posto la sua lancia sulla custodia dell’arco, poi si ritirava col silenzio di un passero che prendeva il volo. Sarebbe rimasto vicino, ma non avrebbe ascoltato.

Perrin alzò lo sguardo verso il cielo buio, posando la scure sulla spalla. «A volte mi sento più sveglio di notte che durante il giorno.»

Elyas sorrise. Perrin non lo vide, ma poté fiutare il divertimento.

«Hai mai cercato di evitarlo, Elyas?» chiese Perrin. «Ignorare le voci, fingere che nulla in te fosse cambiato?»

«L’ho fatto» disse Elyas. Aveva una voce bassa e profonda, una che in qualche modo faceva venire in mente la terra in movimento. Borbottii distanti. «Volevo, ma poi le Aes Sedai avevano intenzione di domarmi. Dovetti scappare.»

«Ti manca la tua vecchia vita?»

Elyas scrollò le spalle: Perrin poté sentire il movimento, la stoffa che frusciava contro sé stessa. «Nessun Custode vuole abbandonare il suo dovere. A volte altre cose sono più importanti. O... be’, forse sono solo più esigenti. Io non mi pento delle mie scelte.»

«Io non posso andarmene, Elyas. Non lo farò.»

«Io ho lasciato la mia vita per i lupi. Questo non significa che tu debba farlo.»

«Noam ha dovuto» disse Perrin.

«Ha davvero dovuto?» disse Elyas.

«Lo ha consumato. Ha smesso di essere umano.»

Perrin colse un odore di preoccupazione. Elyas non aveva risposte.

«Visiti mai i lupi nei tuoi sogni, Elyas?» chiese Perrin. «Un posto dove lupi morti corrono e vivono di nuovo?»

Elyas si voltò, fissandolo. «Quel posto è pericoloso, Perrin. È un altro mondo, anche se in qualche modo legato a questo. Le leggende dicono che le Aes Sedai dell’antichità potevano recarvisi.»

«E anche altre persone» disse Perrin, pensando all’Assassino.

«Stai attento nel sogno. Io me ne tengo alla larga.» Il suo odore era cauto.

«Hai mai problemi?» chiese Perrin. «A separare te stesso dal lupo?»

«Un tempo.»

«Ma non più?»

«Ho trovato un equilibrio» disse Elyas.

«Come?»

L’uomo più anziano rimase in silenzio per un momento. «Vorrei saperlo. È solo qualcosa che ho imparato, Perrin. Qualcosa che tu dovrai imparare.»

O finirò come Noam. Perrin incontrò gli occhi dorati di Elyas, poi annuì. «Grazie.»

«Per il consiglio?»

«No» disse Perrin. «Per essere tornato indietro. Per avermi mostrato che uno di noi, almeno, può vivere con i lupi e non perdere sé stesso.»

«Non è nulla» disse Elyas. «Avevo dimenticato che poteva essere bello stare con la gente, tanto per cambiare. Non so quanto a lungo posso restare, però. L’Ultima Caccia è quasi qui.»

Perrin alzò di nuovo lo sguardo verso il cielo. «Proprio così. Passa parola a Tam e agli altri per me. Ho preso la mia decisione. I Manti Bianchi hanno scelto un posto per combattere. Ho deciso di procedere e incontrarli domani.»

«D’accordo» disse Elyas. «Non odori come se volessi farlo, però.»

«Dev’essere fatto» disse Perrin. «E questo è quanto.» Tutti volevano che lui fosse un lord. Bene, questo era il genere di cose che i lord facevano. Prendevano decisioni che nessuno voleva prendere.

L’avrebbe comunque nauseato dare l’ordine. Aveva avuto una visione di quei lupi che facevano correre delle pecore verso una bestia. A lui pareva che forse si trattasse di quello che stava facendo, indirizzando i Manti Bianchi verso la distruzione. Di certo indossavano il colore della lana delle pecore.

Ma cosa pensare della visione di Faile e degli altri che si avvicinavano a un dirupo? Elyas si allontanò, lasciando Perrin con la scure ancora sulla spalla. Si sentiva come se non avesse tagliato ciocchi, ma corpi.

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