18 La forza di questo posto

Perrin correva attraverso il buio. Strascichi di caligine acquosa gli sfioravano la faccia e si condensavano nella sua barba. La sua mente era annebbiata, distante. Dove stava andando? Cosa stava facendo? Perché stava correndo?

Ruggì e caricò, squarciando l’oscurità velata e sbucando all’aria aperta. Trasse un profondo respiro e atterrò in cima a una ripida collina ricoperta di corta erba a chiazze, con un anello di alberi alla base. Il cielo rombava e si rimestava di nuvole, come una pentola di catrame ribollente.

Era nel sogno del lupo. Il suo corpo sonnecchiava nel mondo reale, sulla sommità di questa collina, con Faile. Sorrise, respirando profondamente. I suoi problemi non erano diminuiti. In effetti, con l’ultimatum dei Manti Bianchi, parevano ingigantiti. Ma tutto andava bene con Faile. Quel semplice fatto cambiava così tanto. Con lei al suo fianco, lui poteva fare qualunque cosa.

Balzò giù dalle pendici della collina e attraversò la zona aperta dove il suo esercito era accampato. Erano stati lì abbastanza a lungo che erano apparsi dei segni nel sogno del lupo. Tende riflettevano il mondo della veglia, anche se i loro lembi erano in una posizione diversa ogni volta che li guardava. Fosse per i fuochi da campo nel terreno, solchi nei sentieri, occasionali pezzi di rifiuti o attrezzi gettati. Questi comparivano di colpo, poi svanivano.

Si mosse rapido attraverso il campo, ogni passo che gliene faceva percorrere dieci. Una volta avrebbe potuto trovare sinistra la mancanza di persone nell’accampamento, ma era abituato al sogno del lupo ora. Questo era naturale.

Perrin si avvicinò alla statua al lato del campo, poi alzò lo sguardo verso la pietra butterata dal tempo, ricoperta di licheni color nero, arancione e verde. La statua doveva essere stata in una posa strana, se era caduta in tal modo. Sembrava quasi che fosse stata creata così: un enorme braccio che spuntava dal terreno argilloso.

Perrin svoltò a sudest, verso il punto in cui si sarebbe trovato l’accampamento dei Manti Bianchi. Doveva fare i conti con loro. Era sempre più certo — fiducioso, perfino — di non poter continuare finché non avesse affrontato queste ombre dal passato.

C’era solo un modo per occuparsi di loro per certo. Una trappola attenta usando gli Asha’man e le Sapienti, e Perrin avrebbe potuto colpire i Figli con tanta forza da mandarli in pezzi. Forse poteva perfino distruggerli in maniera permanente come organizzazione.

Aveva i mezzi, l’opportunità e la motivazione. Niente più paura per quelle terre, niente più processi farsa dei Manti Bianchi. Balzò in avanti, librandosi per trenta piedi e cadendo delicatamente a terra. Poi partì correndo a sudest lungo la strada.

Trovò l’accampamento dei Manti Bianchi in una concavità boscosa, con migliaia di tende montate in stretti anelli. Le tende di circa diecimila Figli, assieme ad altrettanti mercenari e altri soldati. Balwer stimava che questo fosse il grosso dei Figli rimasti, anche se non era stato chiaro su come aveva ottenuto quell’informazione. C’era da sperare che l’odio di quell’uomo polveroso verso i Manti Bianchi non stesse offuscando il suo giudizio.

Perrin si mosse fra le tende, guardando per vedere se riusciva a scoprire qualcosa che fosse sfuggito a Elyas e agli Aiel. Era improbabile, ma supponeva che valesse la pena tentare, già che era qui. Inoltre voleva vedere quel posto con i propri occhi. Sollevò lembi, si mosse fra raggruppamenti di tende, per ispezionare il posto e avere un’idea sia del campo che dei suoi occupanti. L’accampamento era disposto in modo molto ordinato. Gli interni erano meno stabili delle tende stesse, ma anche quello che vide era sistemato per bene.

Ai Manti Bianchi piacevano le cose pulite, ordinate e piegate attentamente. E amavano fingere che l’intero mondo potesse essere lucidato e pulito allo stesso modo, le persone definite e spiegate con una o due parole.

Perrin scosse il capo, dirigendosi verso la tenda del lord Capitano Comandante. La disposizione delle tende lo condusse lì facilmente, nell’anello centrale. Non era molto più grande delle altre tende, e Perrin vi si infilò dentro, cercando di vedere se riusciva a trovare qualcosa di utile. Era ammobiliata in modo semplice, con un giaciglio arrotolabile che era in una posizione diversa ogni volta che Perrin lo guardava, assieme a un tavolo su cui erano posati oggetti che scomparivano e apparivano a caso.

Perrin vi si accostò, prendendo qualcosa che comparve lì. Un anello con sigillo. Non riconobbe il sigillo, un pugnale alato, ma lo memorizzò appena prima che svanisse dalle sue dita, troppo transitorio per rimanere a lungo nel sogno del lupo. Anche se si era incontrato col capo dei Manti Bianchi e aveva intrattenuto una corrispondenza con quell’uomo, non sapeva molto del suo passato. Forse questo avrebbe aiutato.

Cercò nella tenda ancora per un po’, non trovando nulla di utile, poi si diresse a quella più grande dove Gaul aveva spiegato che erano trattenuti molti dei prigionieri. Qui vide il cappello di mastro Gill apparire per un momento, poi scomparire.

Soddisfatto, Perrin uscì dalla tenda. Mentre lo faceva, scoprì che qualcosa lo turbava. Non avrebbe dovuto tentare qualcosa del genere quando Faile era stata rapita? Aveva mandato numerosi esploratori a Malden. Luce, aveva dovuto trattenersi dal precipitarsi lì per trovare Faile per conto suo! Ma non aveva mai provato a visitare quel posto nel sogno del lupo.

Forse sarebbe stato inutile. Ma non aveva considerato quella possibilità e ciò lo turbava.

Rimase immobile mentre passava accanto a un carretto lasciato accanto a una delle tende dei Manti Bianchi. Il retro era aperto e lì giaceva un lupo argenteo brizzolato, che lo osservava.

«Lascio che la mia attenzione si restringa troppo, Hopper» disse Perrin. «Quando mi lascio consumare da un obiettivo, questo può rendermi incauto. Può essere pericoloso. Come in battaglia, quando concentrarti sull’avversario di fronte a te può lasciarti esposto all’arciere sul fianco.»

Hopper socchiuse la bocca, sorridendo alla maniera dei lupi. Balzò giù dal carro. Perrin poteva percepire altri lupi nei paraggi, gli altri del branco con cui aveva corso in precedenza. Danza Quercia, Scintille e Sconfinato.

«D’accordo» disse a Hopper. «Sono pronto a imparare.»

Hopper si accovacciò, osservando Perrin. Segui, trasmise il lupo.

Poi scomparve.

Perrin imprecò, guardandosi attorno. Dov’era andato il lupo? Si mosse attraverso il campo, cercandolo, ma non riuscì a percepire Hopper da nessuna parte. Si protese all’infuori con la mente. Nulla.

Giovane Toro. All’improvviso Hopper fu dietro di lui. Segui. Scomparve di nuovo.

Perrin bofonchiò, poi si mosse per l’accampamento in un lampo. Quando non trovò il lupo, si trasferì al campo di grano dove aveva incontrato Hopper l’ultima volta. Il lupo non era lì. Perrin rimase tra le spighe ondeggianti, frustrato.

Hopper lo trovò pochi minuti dopo. Il lupo odorava d’insoddisfazione. Segui!, trasmise.

«Non so come» disse Perrin. «Hopper, non so dove stai andando.»

Il lupo si mise a sedere. Inviò un’immagine di un cucciolo di lupo, che si univa agli altri del branco. Il cucciolo guardava gli anziani e faceva quello che facevano loro.

«Io non sono un lupo, Hopper» disse Perrin. «Non imparo come fate voi. Devi spiegarmi quello che vuoi che faccia.»

Segui qui. Il lupo mandò un’immagine, stranamente, di Emond’s Field. Poi svanì.

Perrin lo seguì, comparendo su un prato familiare. Un gruppo di edifici lo fiancheggiava, cosa che gli sembrava sbagliata. Emond’s Field sarebbe dovuto essere un piccolo villaggio, non una cittadina con mura di pietra e una strada che correva oltre la locanda del sindaco, lastricata di pietra. Molto era cambiato nel breve tempo in cui era stato via.

«Perché siamo venuti qui?» domandò Perrin. Lo stendardo con la testa di lupo, cosa inquietante, sventolava ancora sull’asta sopra il prato. Sarebbe potuto essere un trucco del sogno del lupo, ma ne dubitava. Sapeva fin troppo bene con quanto entusiasmo la gente dei Fiumi Gemelli sventolava la bandiera di "Perrin Occhidoro".

Gli uomini sono strani, trasmise Hopper.

Perrin si voltò verso il vecchio lupo.

Gli uomini pensano strani pensieri, disse Hopper. Noi non cerchiamo di capirli. Perché il cervo fugge, il passero vola, l’albero cresce? Lo fanno. Tutto qua.

«Molto bene» disse Perrin.

Non posso insegnare a un passero a cacciare, continuò Hopper. E un passero non insegna a un lupo a volare.

«Ma qui tu puoi volare» disse Perrin.

Sì. E non mi è stato insegnato. Lo so. L’odore di Hopper era pieno di emozione e confusione. Tutti i lupi ricordavano ogni cosa che uno della loro razza sapeva. Hopper era frustrato perché voleva insegnare a Perrin, ma non era abituato a fare cose alla maniera della gente.

«Per favore» disse Perrin. «Cerca di spiegarmi cosa intendi. Mi dici sempre che sono qui 'con troppa forza’. È pericoloso, dici. Perché?»

Tu sonnecchi, disse Hopper. L’altro te. Non puoi stare qui troppo a lungo. Devi sempre ricordare che sei innaturale qui. Questa non è la tua tana.

Hopper si voltò verso le case attorno a loro. Questa è la tua tana, la tana del tuo genitore. Questo posto. Ricordalo. Ti impedirà di perderti. È così che faceva una volta la tua razza. Tu comprendi.

Non era una domanda, anche se era una sorta di supplica. Hopper non era certo di come spiegare ulteriormente.

«Posso tentare» pensò Perrin, interpretando le immagini trasmesse meglio che poteva. Ma Hopper si sbagliava. Questo posto non era casa sua. La casa di Perrin era con Faile. Aveva bisogno di ricordarsi quello, in qualche modo, per impedire di essere attirato con troppa forza nel sogno del lupo.

Io ho visto la tua lei nella tua mente, Giovane Toro, trasmise Hopper, inclinando il capo. Lei è come un alveare di api, con miele dolce e pungiglioni acuminati. L’immagine di Faile mandata da Hopper era quella di un lupo femmina molto disorientante. Una che un momento avrebbe mordicchiato il suo naso per giocare, poi quello successivo gli avrebbe ringhiato contro, rifiutandosi di condividere la sua carne.

Perrin sorrise.

Il ricordo è una parte, trasmise Hopper. Ma l’altra parte sei tu. Tu devi rimanere come Giovane Toro. Il riflesso di un lupo nell’acqua, che scintillava e diventava indistinto mentre veniva attraversato dalle increspature.

«Io non capisco.»

La forza di questo posto, Hopper inviò un’immagine di un lupo intagliato nella pietra, è la forza che hai tu. Il lupo rifletté per un momento. Resta. Rimani. Sii tu.

Detto questo, il lupo si alzò e indietreggiò, come preparandosi per avventarsi su Perrin.

Confuso, Perrin immaginò sé stesso così com’era, mantenendo quell’immagine nella sua testa con quanta più forza possibile.

Hopper corse e balzò su di lui, sbattendo il proprio corpo contro Perrin. Lo aveva fatto già altre volte, in qualche modo obbligando Perrin a uscire dal sogno del lupo.

Stavolta, però, Perrin era pronto e in attesa. D’istinto, Perrin spinse a sua volta. Il sogno del lupo tremolò attorno a lui, poi tornò di nuovo saldo. Hopper rimbalzò via da lui, anche se quel lupo così pesante avrebbe dovuto scaraventare a terra Perrin.

Hopper scosse il capo, come intontito. Bene, trasmise. Bene. Tu impari. Ancora.

Perrin si fece forza appena in tempo prima che Hopper lo urtasse una seconda volta. Perrin bofonchiò, ma rimase saldo.

Qui, trasmise Hopper, dando un’immagine di un campo di grano. Hopper scomparve e Perrin lo seguì. Non appena riapparve, il lupo andò a sbattere contro di lui, mente e corpo.

Perrin cadde a terra stavolta, tutto quanto che tremolava e luccicava. Si sentì spinto via, costretto a uscire dal sogno del lupo e a tornare ai suoi sogni normali.

No!, pensò, mantenendo un’immagine di sé stesso inginocchiato tra quei campi di grano. Lui era lì. Lo immaginava, solido e reale. Sentiva l’odore dell’avena e dell’aria umida, viva delle fragranze di terra e foglie cadute.

Bene, trasmise Hopper. Impari in fretta.

«Non c’è alternativa» disse Perrin, rialzandosi in piedi.

L’Ultima Caccia arriva, convenne Hopper, inviando un’immagine dell’accampamento dei Manti Bianchi.

Perrin seguì, stando pronto. Non giunse nessun attacco. Si guardò attorno in cerca del lupo.

Qualcosa si schiantò contro la sua mente. Non ci fu alcun movimento, solo l’attacco mentale. Non fu forte quanto prima, ma fu inatteso. Perrin riusci a malapena a ricacciarlo indietro.

Hopper cadde dall’aria, atterrando con delicatezza al suolo. Stai sempre all’erta, trasmise il lupo. Sempre, ma in particolare quando ti muovi. Un’immagine di un lupo cauto, che saggiava l’aria prima di muoversi in un pascolo aperto.

«Capisco.»

Ma non venire con troppa forza, lo rimproverò Hopper.

Immediatamente, Perrin si costrinse a ricordare Faile e il posto dove dormiva. La sua casa. Lui... svanì un poco. La sua pelle non divenne trasparente e il sogno del lupo rimase lo stesso, ma si sentì più esposto.

Bene, trasmise Hopper. Sempre pronto, ma non reggendoti mai con troppa forza. Come portare un cucciolo tra i denti.

«Questo non sarà un equilibrio facile» disse Perrin.

Hopper emanò un odore lievemente confuso. Certo che era difficile.

Perrin sorrise. «E ora?»

Correre, trasmise Hopper. Poi altro esercizio.

Il lupo schizzò via, sfrecciando in un insieme indistinto di grigio e argento verso la strada. Perrin lo seguì. Percepiva determinazione da Hopper, un odore che era stranamente simile a quello di Tam quando addestrava i profughi a combattere. Questo fece sorridere Perrin.

Corsero lungo la strada e Perrin si esercitò con l’equilibrio di non essere nel sogno con troppa forza, tuttavia essere pronto a rafforzare la sua sensazione di in qualunque momento. Di tanto in tanto Hopper lo attaccava, cercando di scagliarlo via dal sogno del lupo. Continuarono finché — tutt’a un tratto — Hopper non smise di correre.

Perrin fece qualche altro passo, slanciandosi davanti al lupo, prima di fermarsi. C’era qualcosa di fronte a lui. Un muro viola traslucido che tagliava la strada proprio di traverso. Si estendeva fino al cielo e in lontananza sia a sinistra che a destra.

«Hopper?» chiese Perrin. «Cos’è questo?»

Sbagliato, trasmise Hopper. Non dovrebbe essere qui. Il lupo odorava di rabbia.

Perrin fece un passo avanti e sollevò una mano verso la superficie, ma esitò. Sembrava vetro. Non aveva mai visto nulla del genere nel sogno del lupo. Poteva trattarsi di una bolla di male? Alzò lo sguardo verso il cielo.

All’improvviso il muro risplendette e scomparve. Perrin sbatté le palpebre, barcollando all’indietro. Lanciò un’occhiata a Hopper. Il lupo era accovacciato, e fissava il punto dove si era trovato il muro. Vieni, Giovane Toro, trasmise infine il lupo. Ci eserciteremo in un altro posto.

Si allontanò a balzi. Perrin tornò a guardare lungo la strada. Qualunque cosa fosse stata il muro, non aveva lasciato alcun segno visibile della sua esistenza.

Turbato, Perrin seguì Hopper.


«Che io sia folgorato, dove sono quegli arcieri!» Rodel Ituralde si arrampicò fino in cima al pendio. «Li volevo in formazioni sulle torri avanzate un’ora fa per dare il cambio ai balestrieri!»

Davanti a lui, risuonavano i fragori, le urla, i grugniti, i tonfi e il frastuono della battaglia. Una banda di Trolloc si era precipitata ad attraversare il fiume, superandolo grazie a zattere da guado o a un rozzo ponte galleggiante fatto con tronchi legati assieme. I Trolloc odiavano attraversare l’acqua. Dovevano sforzarsi parecchio per farlo.

Questo era il motivo per cui questa fortificazione era così utile.

Il fianco della collina digradava direttamente verso l’unico guado di dimensioni ragionevoli per diverse leghe. A nord, i Trolloc ribollivano attraverso un valico fuori dalla Macchia e giungevano dritto nel fiume Arinelle. Quando potevano essere costretti ad attraversarlo, si trovavano di fronte il fianco della collina, dove erano state scavate trincee, su cui erano stati impilati dei bastioni e in cima alla quale erano state poste delle torri per gli arcieri. Non c’era modo per raggiungere la città di Maradon dalla Macchia senza passare per questa collina.

Era una posizione ideale per trattenere una forza molto più numerosa, ma perfino le fortificazioni migliori potevano essere sopraffatte, in particolare quando i tuoi uomini erano stanchi dopo settimane di combattimenti. I Trolloc avevano attraversato ed erano risaliti su per il pendio sotto una pioggia di frecce, cadendo nelle trincee, avendo difficoltà a sormontare gli alti bastioni.

Il fianco della collina aveva in cima un’area piatta, dove Ituralde aveva la sua postazione di comando, nel campo superiore. Impartiva gli ordini mentre guardava giù verso la massa intrecciata di trincee, bastioni e torri. I Trolloc stavano morendo per mano di picchieri dietro uno dei bastioni. Ituralde osservò finché l’ultimo dei Trolloc — una bestia enorme dalla faccia da ariete — ruggiva e moriva con tre picche in pancia.

Pareva come se stesse arrivando un’altra ondata, con il Myrddraal che guidava un’altra massa di Trolloc attraverso il valico. Nel fiume erano caduti abbastanza corpi da intasarlo per il momento, facendolo scorrere rosso, con le carcasse che fornivano un passaggio per quelli che stavano arrivando di corsa.

«Arcieri!» tuonò Ituralde. «Dove sono quei dannati...»

Finalmente una compagnia di arcieri gli corse davanti, alcune delle riserve che lui aveva tenuto indietro. Per la maggior parte avevano la carnagione ramata dei Domanesi, anche se mischiati fra loro c’erano alcuni Tarabonesi sparsi. Portavano un’ampia varietà di archi: stretti archi lunghi domanesi, archi corti serpentini saldeani recuperati da posti di guardia o villaggi, perfino qualche alto arco lungo dei Fiumi Gemelli.

«Lidrin» chiamò Ituralde. Il giovane ufficiale dagli occhi duri si precipitò per il fianco della collina da lui. L’uniforme marrone di Lidrin era stazzonata e sporca alle ginocchia, non perché fosse indisciplinato, ma perché c’erano delle volte in cui i suoi uomini avevano bisogno di lui più di quanto avessero bisogno del bucato.

«Vai con quegli arcieri alle torri» disse Ituralde. «Quei Trolloc stanno per tentare un altro assalto. Non voglio che un altro manipolo faccia irruzione sulla sommità, sono stato chiaro? Se conquistano la nostra posizione e la usano contro di noi, la mia sarà una mattinata pessima.»

Lidrin non sorrise a quel commento, come avrebbe potuto fare una volta. Non sorrideva quasi per niente, ormai; di solito solo quando riusciva a uccidere un Trolloc. Gli rivolse il saluto, voltandosi per correre dietro agli arcieri.

Ituralde si voltò e guardò giù lungo il versante posteriore della collina. Lì era situato il campo inferiore, all’ombra delle ripide pendici. Questa collina un tempo era stata una formazione naturale, ma i Saldeani l’avevano modificata nel corso degli anni, con un lungo pendio che si estendeva verso il fiume e uno più ripido dal lato opposto. Nel campo inferiore, le sue truppe potevano dormire e mangiare, e lì le loro provviste potevano essere protette, tenute al sicuro dalle frecce nemiche dalle ripide pendici su cui ora si trovava Ituralde.

Entrambi i suoi campi, quello superiore e quello inferiore, erano raffazzonati. Alcune delle tende erano state comprate da villaggi saldeani, altre erano di fattura domanese e dozzine erano state portate tramite passaggi da ogni dove. Un vasto numero di esse erano enormi strutture cairhienesi con motivi a strisce. Tenevano i suoi uomini lontano dalla pioggia e questo era sufficiente.

Di sicuro i Saldeani sapevano come costruire le fortificazioni. Se solo Ituralde fosse stato in grado di convincerli a lasciare il loro nascondiglio nella città di Maradon e a venire ad aiutarli.

«Ora,» disse Ituralde «dove...»

Si interruppe quando qualcosa oscurò il cielo. Ebbe a malapena il tempo di imprecare e di tuffarsi al riparo quando piovve una raffica di grossi oggetti, in un arco alto per poi cadere sul campo superiore, suscitando urla di dolore e confusione. Quelli non erano macigni: erano cadaveri. I massicci corpi di Trolloc morti. L’esercito della Progenie dell’Ombra aveva infine sistemato i suoi trabucchi.

Una parte di Ituralde era impressionata di averli portati a tanto. Senza dubbio quell’equipaggiamento d’assedio era stato portato per l’assalto a Maradon, che era poco più a sud. Montare i trabucchi dall’altra parte del guado per attaccare invece le linee di Ituralde non solo avrebbe rallentato la Progenie dell’Ombra, ma avrebbe esposto i loro trabucchi al suo contrattacco.

Lui non si era aspettato che scagliassero carcasse. Imprecò quando il cielo si oscurò di nuovo, con altri corpi che cadevano e abbattevano tende o schiacciavano soldati.

«Guaritori!» tuonò Ituralde. «Dove sono quegli Asha’man?» Aveva preteso molto dagli Asha’man fin da quando questo assedio era cominciato. Fino all’orlo dell’esaurimento. Ora li teneva indietro, usandoli solo quando gli assalti dei Trolloc si avvicinavano troppo al campo superiore.

«Signore!» Un giovane messaggero con dello sporco sotto le unghie si precipitò su dalle linee del fronte. Il suo volto da Domanese era terreo ed era ancora troppo giovane per avere dei veri e propri baffi. «Il capitano Finsas riferisce che l’esercito della Progenie dell’Ombra sta spostando i trabucchi entro il raggio. Stando alla sua stima, ce ne sono sedici.»

«Fa’ sapere al capitano Finsas che il suo dannato tempismo potrebbe essere migliore» ringhiò Ituralde.

«Sono spiacente, mio signore. Li hanno fatti avanzare attraverso il valico prima che riuscissimo a renderci conto di cosa stava accadendo. La raffica iniziale ha colpito il nostro posto di guardia. Lord Finsas stesso è rimasto ferito.»

Ituralde annuì; Rajabi stava arrivando per prendere il comando del campo superiore e organizzare i feriti. In basso, parecchi dei corpi avevano colpito anche il campo inferiore. I trabucchi potevano arrivare ad avere l’altezza e la gittata per lanciare sopra la collina fin sui suoi uomini nella loro zona precedentemente sicura. Avrebbe dovuto far arretrare il campo inferiore, più in là per la pianura in direzione di Maradon, il che avrebbe ritardato i tempi di risposta. Dannate ceneri.

Non ho mai imprecato così tanto, pensò Ituralde.

Era quel ragazzo, il Drago Rinato. Rand al’Thor aveva fatto delle promesse a Ituralde, alcune esplicite, altre sottintese. Promesse di proteggere l’Arad Doman dai Seanchan. Promesse che Ituralde poteva vivere, invece di morire intrappolato dai Seanchan. Promesse di dargli qualcosa da fare, qualcosa di importante, qualcosa di vitale. Qualcosa di impossibile.

Trattenere l’Ombra. Combattere finché non fosse arrivato aiuto.

Il cielo si oscurò di nuovo e Ituralde si tuffò nel padiglione di comando, che aveva un tetto di legno come precauzione contro le armi d’assedio. Aveva temuto delle scariche di rocce più piccole, non di carcasse. Gli uomini si sparpagliarono per aiutare a portare i feriti alla relativa sicurezza del campo inferiore e da lì lungo la pianura verso Maradon. Rajabi guidava quello sforzo. L’uomo imponente aveva un collo spesso quanto un frassino di dieci anni, e le braccia quasi altrettanto. Ora zoppicava nel camminare, dal momento che la sua gamba sinistra era stata ferita nel combattimento e amputata sotto il ginocchio. Le Aes Sedai lo avevano guarito meglio che potevano e lui camminava su una gamba di legno. Si era rifiutato di ritirarsi attraverso i passaggi con quelli feriti gravemente e Ituralde non l’aveva obbligato. Non gettavi via un buon ufficiale per via di una ferita.

Un giovane ufficiale trasalì mentre una carcassa gonfia sbatteva contro la cima del padiglione con un tonfo. L’ufficiale — Zhell — non aveva la pelle ramata di un Domanese, anche se i suoi baffi erano proprio secondo quella moda e aveva un neo artificiale a forma di freccia sulla guancia.

Non potevano reggere contro i Trolloc qui per molto altro tempo, non con i numeri che stavano schierando. Ituralde avrebbe dovuto ripiegare, punto per punto, sempre più all’interno della Saldea, sempre più in direzione dell’Arad Doman. Strano come si stesse sempre ritirando verso la sua patria. Prima da sud, ora da nordest.

L’Arad Doman sarebbe stato schiacciato tra i Seanchan e i Trolloc. Sarà meglio che tu mantenga la tua parola, ragazzo.

Non poteva ritirarsi dentro Maradon, purtroppo. I Saldeani lì avevano messo bene in chiaro che consideravano Ituralde — e il Drago Rinato — come degli invasori. Dannati sciocchi. Almeno aveva un’opportunità di distruggere quelle macchine d’assedio.

Un altro corpo colpì la cima del padiglione di comando, ma il tetto tenne. Dalla puzza — e in alcuni casi dagli spruzzi — di quei Trolloc morti, non avevano scelto quelli appena deceduti a causa di questo assalto. Fiducioso che i suoi ufficiali stessero provvedendo ai loro compiti — ora non era il momento per interferire — Ituralde serrò le mani dietro di sé. Vedendolo, soldati sia dentro che fuori dal padiglione si ersero un po’ più dritti. Il migliore dei piani durava solo finché non colpiva la prima freccia, ma un comandante determinato e incrollabile poteva portare ordine al caos grazie al modo in cui si presentava.

Sopra di loro la tempesta ribolliva, nubi di argento e nero come un pentolone annerito appeso sopra un fuoco da campo, con pezzi di acciaio che scintillavano ai margini della fuliggine incrostata. Era innaturale. Che i suoi uomini vedessero che lui non lo temeva, perfino quando su di loro piovevano cadaveri.

I feriti vennero portati via e gli uomini nel campo inferiore iniziarono a smontarlo, preparandosi a spostarlo più indietro. Lui fece in modo che i suoi arcieri e balestrieri continuassero a tirare, con i picchieri pronti lungo i bastioni. Aveva una cavalleria numerosa, ma non poteva più usarla.

Quei trabucchi, se li avesse lasciati stare, avrebbero logorato i suoi uomini con macigni e pietre più piccole, ma Ituralde aveva intenzione di bruciarli prima che potessero riuscirci, usando un Asha’man o una squadra apposita con frecce infuocate attraverso un passaggio.

Se solo potessi ritirarmi dentro Maradon. Ma il lord saldeano lì non lo avrebbe lasciato entrare; se Ituralde avesse ripiegato verso la città, sarebbe stato schiacciato contro quelle mura dai Trolloc.

Dannati, dannatissimi sciocchi. Che genere di idioti negavano a degli uomini un rifugio quando un esercito di Progenie dell’Ombra stava bussando alle loro porte?

«Voglio un rapporto sui danni» disse Ituralde al tenente Nils. «Prepara gli arcieri per un attacco a quelle macchine d’assedio e porta due degli Asha’man che sono in servizio. Di’ al capitano Creedin di occuparsi di quell’assalto di Trolloc al guado. Raddoppieranno i loro sforzi a seguito di questo attacco e riterranno di averci fatto perdere l’organizzazione.»

Il giovane uomo annuì e si affrettò ad allontanarsi mentre Rajabi entrava zoppicando nel padiglione, sfregandosi l’ampio mento. «Ci avevi visto giusto su quei trabucchi. Li hanno davvero montati per attaccarci.»

«Cerco sempre di vederci giusto» disse Ituralde. «Quando non lo faccio, perdiamo.»

Rajabi grugnì. Sopra di loro la tempesta ribolliva. In lontananza, Ituralde poteva sentire richiami di Trolloc. Colpi di tamburi di guerra. Urla di uomini.

«C’è qualcosa di sbagliato» disse Ituralde.

«Tutta questa dannata guerra è sbagliata» disse Rajabi. «Noi non dovremmo essere qui; dovrebbero esserci i Saldeani. Il loro intero esercito, non solo i pochi cavalieri che il lord Drago ci ha dato.»

«Ma soprattutto» disse Ituralde, esaminando il cielo. «Perché carcasse, Rajabi?»

«Per demoralizzarci.»

Non era una tattica senza precedenti. Ma le prime raffiche? Perché non usare pietre quando avrebbero causato più danni e poi passare ai corpi una volta esaurito l’effetto sorpresa? I Trolloc non erano portati per la tattica, ma i Fade... quelli potevano essere ingegnosi. Ituralde l’aveva imparato in prima persona.

Mentre fissava il cielo, cadde un’altra massiccia scarica, come generata dalle nubi nere. Luce, dove avevano preso così tanti trabucchi? Abbastanza da scagliare centinaia di corpi morti.

Stando alla sua stima, ce ne sono sedici, aveva detto il ragazzo. Neanche lontanamente sufficienti. Alcune di quelle carcasse stavano cadendo in maniera troppo uniforme?

Il pensiero lo colpì come uno scroscio di pioggia fredda. «Arcieri, attenti ai cieli! Quelli non sono corpi!»

Era troppo tardi. Mentre gridava, i Draghkar spiegarono le loro ali; ben oltre metà delle "carcasse" in questa raffica erano Progenie dell’Ombra vivente, che si nascondeva tra i cadaveri che cadevano. Dopo il primo attacco di Draghkar sul suo esercito alcuni giorni prima, Ituralde aveva lasciato gli arcieri in una rotazione permanente a controllare i cieli giorno e notte.

Ma gli arcieri non avevano ordini di tirare su corpi che precipitavano. Ituralde continuò a urlare mentre balzava fuori dal padiglione e sfoderava di colpo la spada dal suo fodero. Il campo superiore divenne un caos mentre i Draghkar piombavano in mezzo ai soldati. Un gruppo numeroso cadde attorno al padiglione di comando, con i loro occhi neri troppo grandi che luccicavano, attirando uomini nella loro direzione con dolci canzoni.

Ituralde gridò più forte che poteva, riempiendosi le orecchie col suono della sua stessa voce. Una delle bestie venne verso di lui, ma il suo urlo gli impedì di udirne la cantilena. La bestia parve sorpresa — perlomeno quanto poteva sembrarlo una creatura così inumana — mentre lui si precipitava verso di essa, fingendo di essere attirato, poi le trafiggeva il collo con un affondo esperto. Del sangue scuro sgocciolò giù per una pelle bianco latte mentre Ituralde strappava via la sua lama, ancora urlando.

Vide Rajabi inciampare e crollare a terra mentre uno della Progenie dell’Ombra gli balzava sopra. Ituralde non riusci ad andare da lui, poiché si trovò di fronte un altro dei mostri. In un benedetto istante, notò palle di fuoco piovere sui Draghkar dal cielo: gli Asha’man.

Ma allo stesso tempo, in lontananza, sentì i tamburi di guerra diventare più fragorosi. Come aveva previsto, quella ribollente armata di Trolloc avrebbe colpito attraversando il guado con tutta la forza di cui disponeva. Luce, a volte odiava proprio avere ragione.

Farai meglio a mantenere la tua promessa di mandarmi aiuto, ragazzo, pensò Ituralde mentre combatteva il secondo Draghkar, il suo urlo che si faceva roco. Luce, farai davvero meglio!


Faile camminava a grandi passi per l’accampamento di Perrin, con l’aria che risuonava di chiacchiericci, grugniti di fatica e urla di uomini che sbraitavano ordini. Perrin aveva mandato un’ultima richiesta di parlamentare ai Manti Bianchi e ancora non c’era stata risposta.

Faile si sentiva ristorata. Aveva trascorso l’intera notte accoccolata contro Perrin in cima alla loro collina. Lei aveva portato parecchie lenzuola e coperte. Per certi versi, la collina erbosa era stata più confortevole della loro tenda.

Gli esploratori erano tornati da Cairhien quella mattina; presto sarebbe arrivato il loro rapporto. Per ora, Faile si era fatta il bagno e aveva mangiato.

Era tempo di fare qualcosa per Berelain.

Attraversò l’erba calpestata verso la parte del campo dove si trovavano i Mayenesi, sentendo la propria rabbia crescere. Berelain era andata troppo oltre. Perrin affermava che le voci provenivano dalle cameriere di Berelain, non da lei in persona, ma Faile vedeva la verità. La Prima era una maestra nella manipolazione e nel controllare le dicerie. Quello era uno dei modi migliori per governare da una posizione di relativa debolezza. La Prima agiva così a Mayene e faceva lo stesso qui al campo, dove Faile rappresentava la fazione più forte come moglie di Perrin.

Un paio di uomini delle Guardie Alate erano di piantone all’ingresso della zona mayenese, con i loro pettorali dipinti di cremisi e gli elmi alati a forma di pentole che si estendevano giù lungo la loro nuca. Si ersero più alti quando Faile si avvicinò, impugnando lance che erano quasi ornamentali, con pennacchi che sventolavano con il falco dorato in volo riprodotto sul loro campo azzurro.

Faile dovette allungare il collo per incontrare i loro occhi. «Scortatemi dalla vostra signora» ordinò.

Le guardie annuirono, una sollevando una mano guantata e facendo cenno ad altri due uomini dall’interno del campo di sostituirle. «Ci è stato detto di aspettarci il tuo arrivo» disse la guardia a Faile con voce profonda.

Faile sollevò un sopracciglio. «Oggi?»

«No. La Prima ha detto semplicemente che, se fossi venuta, avremmo dovuto obbedirti.»

«Certo che mi si deve obbedienza. Questo è l’accampamento di mio marito.»

Le guardie non discussero con lei, anche se probabilmente non erano d’accordo. Berelain era stata mandata per accompagnare Perrin, ma a lui non era stato dato un comando esplicito su di lei o sulle sue truppe.

Faile seguì gli uomini. Per un miracolo, il terreno stava cominciando davvero ad asciugarsi. Faile aveva detto a Perrin che le voci non la infastidivano, ma era offesa dall’audacia di Berelain. Quella donna, pensò Faile. Come osa...

No. No, Faile non poteva continuare lungo quel sentiero. Una buona gara di urla l’avrebbe fatta sentire meglio, ma avrebbe suffragato le voci. Cos’altro avrebbe supposto la gente se l’avesse vista dirigersi nella tenda della Prima e poi urlarle contro? Faile doveva restare calma. Quello sarebbe stato difficile.

Il campo mayenese era disposto con file di uomini che si irradiavano da una tenda centrale come i raggi di una ruota. Le Guardie Alate non avevano tende — quelle erano con mastro Gill — ma c’era una disposizione molto ordinata in quei raggruppamenti. Sembravano quasi troppo uniformi, le coperte piegate, le pile di lance, le aste dei cavalli e le buche per il fuoco a intervalli regolari. Il padiglione centrale di Berelain era lavanda e marroncino, uno di quelli recuperati da Malden. Faile mantenne la propria compostezza mentre le due guardie imponenti la conducevano fino alla tenda. Una bussò sul palo al di fuori per chiedere il permesso di entrare.

Rispose la voce pacata di Berelain, così la guardia spinse indietro il lembo di ingresso per Faile. Mentre lei faceva per entrare, un fruscio all’interno la fece indietreggiare, e Annoura uscì. La Aes Sedai annuì a Faile, con le trecce a incorniciarle il viso che dondolavano. Pareva scontenta; non aveva ancora riguadagnato il favore della sua signora.

Faile trasse un profondo respiro, poi entrò nel padiglione. Dentro era fresco. Il pavimento era ricoperto da un tappeto marroncino e verde con un motivo a edera intrecciata. Anche se il padiglione sembrava vuoto senza l’abituale mobilio da viaggio di Berelain, lei aveva comunque un paio di robuste sedie di quercia e un tavolo leggero da Malden.

La Prima si alzò. «Lady Faile» disse con calma. Oggi indossava il diadema di Mayene. Quella coroncina aveva in sé una semplice magnificenza, disadorna tranne per il falco dorato che spiccava il volo come se balzasse verso la luce solare che penetrava a chiazze attraverso il soffitto della tenda. Lì dei lembi erano stati rimossi per lasciar entrare la luce. L’abito della Prima era verde e oro, con una cintura molto semplice in vita e una scollatura vertiginosa.

Faile sedette su una delle sedie. Questa conversazione era pericolosa: poteva condurre al disastro. Ma doveva essere fatta.

«Confido che tu stia bene» disse Berelain. «Le piogge degli ultimi giorni non sono state troppo spossanti?»

«Le piogge sono state tremende, Berelain» disse Faile. «Ma non sono qui per parlare di quelle.»

Berelain increspò le labbra perfette. Per la Luce, quanto era bella quella donna! Faile si sentiva proprio squallida a paragone, col suo naso troppo grande e il seno troppo piccolo. La sua voce non era affatto melodiosa quanto quella di Berelain. Perché il Creatore faceva delle persone perfette come Berelain? Era forse una presa in giro per il resto di loro?

Ma Perrin non amava Berelain. Lui amava Faile. Ricorda questo.

«Molto bene» disse Berelain. «Supponevo che questa discussione sarebbe giunta. Lascia che ti rassicuri che le voci sono assolutamente false: non è accaduto nulla di inappropriato fra me e tuo marito.»

«Questo me l’ha già detto lui» replicò Faile «e mi fido della sua parola più della tua.»

Questo fece accigliare Berelain. Lei era una maestra di interazioni politiche e possedeva una capacità e una sottigliezza che Faile invidiava. Malgrado la sua giovinezza, Berelain aveva mantenuto la sua minuscola città-stato libera dalla più grande e più potente Tear. Faile riusciva solo a immaginare quanto equilibrismo, doppi giochi politici e semplice ingegnosità avesse dovuto richiedere.

«Dunque perché sei venuta da me?» chiese Berelain, mettendosi a sedere. «Se il tuo cuore è in pace, allora non c’è alcun problema.»

«Sappiamo entrambe che il fatto che tu abbia dormito o no con mio marito non è un problema qui» disse Faile, e Berelain sgranò gli occhi. «Non è quello che è successo, bensì ciò che viene presunto a farmi arrabbiare.»

«Si possono trovare dicerie in ogni posto dove la gente si riunisce» disse Berelain. «In particolare dove gli uomini spettegolano.»

«È improbabile che dicerie così forti e persistenti siano sorte senza incoraggiamento» disse Faile. «Ora tutti nel campo — inclusi i profughi votati a me — presumono che tu abbia portato a letto mio marito mentre io ero via. Questo non solo mi fa sembrare una sciocca, ma getta un’ombra sull’onore di Perrin. Non può comandare se le persone lo considerano il tipo d’uomo che corre nelle braccia di un’altra donna nel momento in cui sua moglie è assente.»

«Altri governanti hanno superato dicerie simili» disse Berelain «e per molti di loro tali dicerie non erano infondate. Le monarchie sopravvivono all’infedeltà.»

«Forse a Illian o Tear,» disse Faile «ma la Saldea si aspetta di meglio dai suoi monarchi. E così la gente dei Fiumi Gemelli. Perrin non è come gli altri governanti. Il modo in cui i suoi uomini lo guardano lo lacera dall’interno.»

«Penso che tu lo sottovaluti» disse Berelain. «Lo supererà e imparerà a usare le dicerie a suo vantaggio. Questo lo renderà più forte come uomo e come governante.»

Faile studiò la donna. «Tu non lo capisci affatto, vero?»

Berelain reagì come se fosse stata schiaffeggiata, ritraendosi. Era ovvio che non le piaceva la schiettezza di questa conversazione. Questo poteva dare un leggero vantaggio a Faile.

«Io capisco gli uomini, lady Faile» disse Berelain con freddezza. «E tuo marito non fa eccezione. Dal momento che hai deciso di essere franca, io farò lo stesso. Sei stata scaltra a prendere Aybara quando l’hai fatto, unendo la Saldea al Drago Rinato, ma non pensare che lui rimarrà tuo senza contese.»

Faile trasse un profondo respiro. Era il momento di fare la sua mossa. «La reputazione di Perrin è stata gravemente danneggiata da quello che hai fatto, mia lady Prima. Per il mio stesso disonore potrei essere stata capace di perdonarti. Ma non per il suo.»

«Non vedo cosa si possa fare.»

«Io sì» disse Faile. «E sono piuttosto certa che una di noi dovrà morire.»

Berelain rimase impassibile. «Prego?»

«Nelle Marche di Confine, se una donna scopre che un’altra ha portato a letto suo marito, le viene concessa l’opportunità di uno scontro a coltello.» Quello era vero, anche se si trattava di una vecchia tradizione, ormai osservata di rado. «L’unico modo per ripulire il mio nome è che noi due combattiamo.»

«E questo cosa dimostrerebbe?»

«Se non altro, se tu morissi, ciò impedirebbe che chiunque pensasse che continui ancora a dormire con mio marito alle mie spalle.»

«Mi stai davvero minacciando nella mia stessa tenda?»

«Questa non è una minaccia» disse Faile, rimanendo ferma. Luce, sperava che le cose andassero nel modo giusto. «Questa è una sfida.»

Berelain la studiò, i suoi occhi calcolatori. «Effettuerò una dichiarazione pubblica. Redarguirò pubblicamente le mie cameriere per le loro dicerie e dirò all’accampamento che non è successo nulla.»

«Pensi davvero che questo fermerà le voci? Non hai mosso obiezioni contro di esse prima del mio ritorno; questo viene visto come una prova. E naturalmente, ora ci si aspetterebbe che tu agisca come se non fosse successo nulla.»

«Non puoi essere seria su questa... sfida.»

«Quando si tratta dell’onore di mio marito, Berelain, io sono sempre seria.» Incontrò gli occhi della donna e vi vide preoccupazione. Berelain non voleva scontrarsi con lei. E, naturalmente, Faile non voleva scontrarsi con Berelain, e non solo perché non era certa se potesse vincere o no. Anche se lei aveva sempre voluto ottenere vendetta sulla Prima per quella volta in cui Berelain le aveva portato via il coltello.

«Annuncerò formalmente la sfida questa sera, davanti all’intero accampamento» disse Faile, mantenendo la propria voce uniforme. «Avrai un giorno per rispondere o per andartene.»

«Io non farò parte di questa follia.»

«Ne fai già parte» disse Faile, alzandosi in piedi. «È ciò a cui hai dato inizio nel momento in cui hai lasciato che quelle voci circolassero.»

Faile si voltò per uscire dalla tenda. Dovette sforzarsi molto per nascondere il proprio nervosismo. Berelain aveva visto quanto la fronte le formicolava di sudore? Faile si sentiva come se stesse camminando sul filo stesso di una spada. Se la notizia di questa sfida fosse arrivata a Perrin, lui si sarebbe infuriato. Faile doveva sperare che...

«Lady Faile» disse Berelain da dietro. La voce della Prima era alterata dalla preoccupazione. «Di sicuro possiamo arrivare a un’altra soluzione. Non forzare tutto questo.»

Faile si fermò, il suo cuore che palpitava. Si voltò. La Prima pareva sinceramente preoccupata. Sì, credeva proprio che Faile fosse tanto assetata di sangue da lanciare questa sfida.

«Ti voglio fuori dalla vita di Perrin, Berelain» disse Faile. «Io lo otterrò, in un modo o nell’altro.»

«Desideri che me ne vada?» chiese Berelain. «I compiti assegnatimi dal lord Drago sono terminati. Suppongo di poter prendere i miei uomini e marciare in un’altra direzione.»

No, Faile non voleva che se ne andasse. La scomparsa delle sue truppe sarebbe stato un duro colpo di fronte a quell’incombente esercito di Manti Bianchi. E Perrin avrebbe avuto ancora bisogno delle Guardie Alate, sospettava Faile.

«No» disse Faile. «Andartene non farà nulla per le dicerie, Berelain.»

«Avrà lo stesso effetto che avrebbe uccidermi» disse la donna in tono asciutto. «Se combattessimo e tu in qualche modo riuscissi a uccidermi, tutto quello che si direbbe è che hai scoperto l’infedeltà di tuo marito e ti sei adirata. Non riesco a capire come questo aiuterebbe la tua posizione. Non farebbe che incoraggiare le dicerie.»

«Capisci il mio problema, allora» disse Faile, lasciando trasparire la sua esasperazione. «Pare non esserci alcun modo di sbarazzarci di queste voci.»

Berelain la esaminò. La donna una volta aveva promesso che avrebbe preso Perrin. Lo aveva quasi giurato. Di recente pareva aver indietreggiato da quel proposito, in parte. E i suoi occhi mostravano accenni di preoccupazione.

Si rende conto che ha lasciato che questa storia andasse troppo oltre, pensò Faile, comprendendo. Ma certo. Berelain non si era aspettata che Faile tornasse da Malden. Ecco perché aveva fatto una mossa tanto audace.

Ora si rendeva conto di essersi spinta troppo oltre. E pensava legittimamente che Faile fosse tanto sconvolta da sfidarla a duello in pubblico.

«Non ho mai voluto questo, Berelain» disse Faile, tornando nella tenda. «E nemmeno Perrin. Le tue attenzioni sono una seccatura per entrambi.»

«Tuo marito ha fatto poco per dissuadermi» disse Berelain, le braccia conserte. «Durante la tua assenza, ci sono stati dei casi in cui lui mi ha direttamente incoraggiato.»

«Tu lo capisci così poco, Berelain.» Era stupefacente quanto la donna potesse essere così cieca mentre era così intelligente in altri modi.

«Questo lo dici tu» replicò Berelain.

«Adesso hai due scelte, Berelain» disse Faile, accostandosi a lei. «Puoi scontrarti con me, e una di noi morirà. Hai ragione, questo non metterebbe fine alle dicerie. Ma metterebbe fine alle tue possibilità con Perrin. O saresti morta, o saresti la donna che ha ucciso sua moglie.

«L’altra tua scelta» disse Faile, incontrando gli occhi di Berelain «è di escogitare un modo per distruggere queste voci una volta per tutte. Tu hai causato questa confusione. Tu la aggiusterai.»

Ed ecco il suo azzardo. Faile non riusciva a pensare a un modo per sfuggire alla situazione, ma Berelain era molto più esperta di lei a questo proposito. Così Faile era venuta, preparata a manipolare Berelain e indurla a pensare che era pronta a fare qualcosa di irragionevole. Poi avrebbe lasciato che l’impressionante acume politico della donna aggredisse la situazione.

Avrebbe funzionato?

Faile incontrò gli occhi di Berelain e si concesse di provare rabbia. Il suo oltraggio per quello che era successo. Veniva picchiata, lasciata a congelare e umiliata dal loro nemico comune. E durante tutto questo, Berelain aveva l’impudenza di fare qualcosa del genere?

Sostenne gli occhi di Faile. No, Faile non aveva altrettanta esperienza politica quanto Berelain. Ma aveva qualcosa che alla donna mancava. Lei amava Perrin. In modo vero, profondo. Avrebbe fatto qualunque cosa per impedire che a lui venisse fatto del male.

La Prima la esaminò. «Molto bene» disse. «E sia. Sii fiera di te stessa, Faile. E... raro che mi distolga da un trofeo che ho desiderato per molto tempo.»

«Non hai detto come potremmo liberarci delle dicerie.»

«Potrebbe esserci un metodo» disse Berelain. «Ma sarà sgradevole.»

Faile sollevò un sopracciglio.

«Sarà necessario che veniamo viste come amiche» spiegò Berelain. «Discutere, essere ai ferri corti, questo alimenterà le dicerie. Ma se veniamo viste a trascorrere del tempo assieme, questo le metterà a tacere. Assieme a un ripudio formale da parte mia di quelle voci, ciò probabilmente sarà sufficiente.»

Faile si sedette sulla sedia che aveva occupato prima. Amiche? Lei detestava questa donna.

«Dovrebbe essere una recita credibile» disse Berelain, alzandosi e dirigendosi verso il tavolino di servizio all’angolo della tenda. Si versò del vino gelato. «Solo quello funzionerebbe.»

«Ti troverai anche un altro uomo» disse Faile. «Qualcuno a cui rivolgere le tue attenzioni, per un periodo, almeno. Per dimostrare che non sei interessata a Perrin.»

Berelain sollevò la coppa. «Sì» disse. «Sospetto che anche quello aiuterebbe. Puoi inscenare una recita del genere, Faile ni Bashere t’Aybara?»

Credevi che fossi pronta a ucciderti per questo, vero?, pensò Faile. «Te lo assicuro.»

Berelain esitò con la coppa a metà strada verso le labbra. Poi sorrise e bevve. «Vedremo, allora,» disse, abbassando la coppa «cosa verrà da tutto questo.»

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