Le stanze degli Aillard erano ampie e luminose; le pareti di luce illuminavano di delicati colori Callina, che, inginocchiata sul tappeto, giocava con un animaletto delle foreste, dal mantello a strisce. L'animale le balzava sulla spalla, facendo le fusa e poi correva a nascondere la testa dentro la sua manica.
Linnell sedeva accanto a Callina e aveva sulle ginocchia un'arpa. In piedi, dietro di lei, c'era Regis. Tutti avvertirono immediatamente la mia presenza. Linnell posò l'arpa, e Callina si affrettò ad alzarsi, posò a terra l'animaletto e si aggiustò la veste.
Io, però, andai subito da Callina e la abbracciai. Non si rendeva conto di quanto mi fosse cara, in momenti come quello, in cui la vedevo meno controllata, meno distante. La tenni tra le mie braccia per un momento, poi il vecchio timore si infilò tra noi come la lama di una spada e ci indusse a separarci. Sta' attento, mi dissi.
Per staccarsi da me, Callina prese a parlare di Linnell. «Povera piccola», disse. «Temo che lei e Derik abbiano litigato. Lei gli vuole bene…»
«A me», la interruppi, «interessa solo sapere a chi vuoi bene tu.»
«Sono una Guardiana», rispose lei. «E una comynara!»
«Comynara!» dissi io, con amarezza. «I Comyn firmerebbero la tua condanna a morte con la stessa indifferenza con cui firmano il tuo certificato di nozze, se la cosa servisse alla loro causa!»
«Se servisse alla mia causa, la firmerei io stessa», disse.
Io la presi per la spalla.
«Intendi lasciarti vendere da loro?» le chiesi, pronunciando quelle parole come se fossero una maledizione. «Che debito abbiamo, nei riguardi del Consiglio? I Comyn hanno giocato con la nostra vita fin da quando siamo nati!»
«Lew, non credo che tu capisca», rispose lei. «Sono stata una pazza, a lasciarti pensare che potessimo appartenere l'uno all'altra. Non sarà mai possibile.»
Sollevò le mani e mi allontanò da sé, ciecamente.
«Posso sposare Beltran, e mantenere il mio potere per aiutare te e i Comyn, solo perché non lo amo, capisci?»
Capivo. La lasciai e feci un passo indietro, fissandola costernato. Il lavoro con le matrici, per un uomo, ha i suoi aspetti frustranti. Ma non mi ero mai soffermato a pensare (o meglio, non me ne era mai importato nulla) dei particolari fastidi che poteva dare a una giovane donna. Prima che potessi protestare, Callina si rivolse a Regis.
«Ashara ci ha chiamati», gli disse. «Vieni anche tu?»
«Non ora», rispose Regis.
In quelle poche ore, il giovane Hastur era cambiato: sembrava più maturo, più grave. Sorrideva come sempre, ma io mi sentivo a disagio in sua presenza. Provavo un senso di colpa quando mi accorgevo che aveva innalzato uno schermo mentale nei miei riguardi, ma in un certo senso preferivo che fosse così.
Una cameriera avvolse Callina in un mantello simile a un'ombra grigia. Mentre uscivamo, e mentre scendevamo la scala, Linnell rimase accanto alla tenda, a guardarci e a sorriderci. Le luci colorate dell'interno, riflesse dalla sua veste, le diedero l'aspetto di una statua color dell'arcobaleno, avvolta in un'aureola dorata. All'improvviso, per un momento, la vaga inquietudine che provavo da qualche minuto prese forma in un pensiero netto, uno di quei lampi di chiaroveggenza di cui, nei momenti di tensione, tutti i lettori dei pensieri fanno l'esperienza.
Linnell era condannata!
«Lew, che cos'hai?» mi chiese Callina.
Io battei le palpebre. La certezza, l'istante in cui il mio cervello aveva lasciato la consueta traccia spazio-temporale, era finito, e rimaneva solo la confusione, il senso di tragedia. Quando alzai di nuovo gli occhi, la tenda era chiusa e Linnell era rientrata nella stanza.
All'esterno cadeva la solita pioggia serale. Nella vecchia città di Thendara, ai piedi del monte, le luci erano spente, ma la Zona Terrestre splendeva di forti insegne al neon, rosse, gialle, verdi, che illuminavano la notte. Io mi fermai accanto alla ringhiera.
«Preferirei essere laggiù», dissi con voce stanca, «o in un altro posto qualunque, tranne questo castello infernale.»
«Anche nella Zona Terrestre?» chiese lei.
«Anche nella Zona Terrestre», risposi.
«Allora, perché non ci vai?» continuò. «Nessuno ti trattiene qui, se non vuoi più starci.»
Mi voltai verso di lei. Il vento le scuoteva le falde del mantello, che battevano come ali; i capelli, come una fine pioggia, le velavano la faccia. Girai la schiena alle luci e la attirai a me. Per un attimo cercò di resistere, poi, all'improvviso, mi strinse selvaggiamente; le sue labbra cercarono le mie come se fosse in preda a un terrore disperato. Quando ci staccammo, tremava come una foglia.
«Che cosa faremo, Lew?» mi chiese. «Che cosa faremo, adesso?»
Con un gesto brusco, indicai le luci al neon.
«Andiamo a sposarci nella Zona Terrestre», le dissi. «Mettiamo i Comyn davanti al fatto compiuto, e lasciamo che si cerchino un'altra marionetta con cui giocare.»
Lentamente, il suo sguardo parve spegnersi. Voltò la schiena alla città e indicò le montagne lontane. Di nuovo sentii ritornare l'illusione: Un fumo bianco e sottile, una strana fiamma…
«Laggiù», disse, «il fuoco di Sharra brucia ancora, Lew. Tu non sei più libero di quanto non lo sia io.»
La presi sottobraccio e lentamente ritornai alla ragione: tornai ad accettare il mio dovere. La pioggia che cadeva sulla nostra faccia era gelida; ci avviammo in silenzio verso la massa buia della Torre.
Il vento, interrotto nella sua corsa dagli spigoli del castello, scagliava addosso a noi scrosci di pioggia. Attraversammo cortili chiusi da muri e lunghi porticati, e infine ci fermammo davanti a una porta ad arco, che dava accesso a quella che sembrava solo una nicchia. Gallina mi fece segno di entrare, e il pavimento, sotto di noi, ci sollevò come se fossimo stati in un ascensore della Zona Terrestre.
La Torre, secondo la leggenda, era stata costruita per la prima Guardiana, quando Thendara non era ancora la capitale e gli Hastur risiedevano ancora a Hali. Per tradizione la sua Guardiana più anziana prendeva sempre il nome di “Ashara”, e l'attuale doveva avere almeno un'ottantina di anni, perché era già Guardiana quando mio padre aveva fatto il suo tirocinio nella Torre, ma la tradizione vuole che le Guardiane vengano sepolte in tombe senza nome, in luoghi conosciuti solo dai membri del loro Cerchio, e perciò è difficile sapere la loro vera età.
La Torre era molto grande: anche se ormai da decenni ospitava un solo Cerchio e gran parte delle sue stanze erano vuote, un tempo aveva ospitato fino a tre Cerchi di matrici. Noi continuammo a salire per parecchi minuti, ma alla fine ci fermammo. Davanti a noi c'era una porta di cristallo; non una tenda, o un pannello luminoso, ma una vera e propria porta.
Entrammo in un ambiente che sembrava l'essenza del blu. Luci che sgorgavano da punti invisibili venivano riflesse e rifratte dalle pareti di cristallo in modo da dare l'impressione che la stanza fosse priva di dimensione; che fosse nello stesso tempo immensa e minuscola. L'azzurro dell'illuminazione pareva far vibrare l'aria e lo stesso pavimento, sotto i nostri piedi. Era come nuotare in un lago azzurro o nella fiamma di una gemma di quel colore.
«Entrate», disse una donna, con una voce cristallina come l'acqua che, d'inverno, scorre sotto il ghiaccio. «Vi aspettavo.»
Solo allora riuscii a mettere a fuoco la vista, in mezzo a quella luce azzurra che, pur non essendo intensa, abbagliava gli occhi perché impediva loro di posarsi su un punto preciso. Riuscii a vedere un grande trono di cristallo, su cui sedeva una donna: una figura minuscola, quasi infantile, con una veste che rifletteva la luce e la faceva sembrare trasparente.
«Ashara», mormorai, e chinai la testa davanti alla Guardiana dei Comyn.
I suoi lineamenti pallidi, privi di rughe come quelli di Callina, parevano incorporei, tanto erano puri. E nello stesso tempo erano vecchi, come se il tempo avesse finito per spianarle anche le rughe. Anche gli occhi, grandi e allungati, parevano incolori, benché, alla normale luce del sole, dovessero essere azzurri. Tra le due Guardiane c'era una vaga, indefinibile aria di famiglia, come se Ashara fosse un ritratto stilizzato di Callina e questa fosse un embrione di Ashara, destinato, con il tempo, a diventare come lei.
Anch'io cominciai a credere che fosse davvero immortale, come sussurrava il popolino; che vivesse su Darkover fin dal tempo in cui vi abitava il Figlio della Luce.
Disse, a bassa voce: «Così, tu sei stato sull'altra sponda del mare delle stelle, Lew Alton».
Non sarebbe onesto dire che la sua voce non fosse gentile. Quella voce non era abbastanza umana per esserlo. Dava l'impressione che lo sforzo di parlare con persone normali, viventi, fosse troppo grande per lei; come se la nostra presenza turbasse la pace luminosa, cristallina, che doveva sempre regnare in quella stanza.
Callina, che doveva essere abituata a quel genere di conversazione — almeno, così supposi — le rispose con soggezione.
«Tu vedi ogni cosa, Madre», disse. «Tu sai tutto quello che abbiamo visto.»
Negli occhi di Ashara comparve un guizzo di vita.
«No», rispose, «neppure io posso vedere tutto. E tu mi hai negato l'unica possibilità di aiutarti, Callina. Sai che adesso non ho alcun potere, all'esterno di questo luogo.»
Ora la sua voce era un po' più vivace, come se si stesse progressivamente svegliando alla nostra presenza.
Callina le rivolse un profondo inchino.
«Eppure», le disse, con un filo di voce, «ti supplico di aiutarmi con la tua saggezza, Ashara.»
La vecchia sacerdotessa sorrise con grande distacco.
«Parla», disse.
Ci sedemmo ai piedi di Ashara, su uno sgabello di pietra, e le parlammo degli avvenimenti dei giorni precedenti. Infine le rivolsi la domanda che più mi preoccupava.
«Tu», le chiesi, «potresti fare un duplicato della matrice di Sharra?»
«Neanch'io posso cambiare le leggi della materia e dell'energia», rispose. «Tuttavia, avrei preferito che tu non conoscessi tanta scienza terrestre, Lew.»
«Perché?» chiesi io, sorpreso.
«Perché, adesso che l'hai conosciuta, cerchi la spiegazione di ogni cosa. La tua mente sarebbe più stabile, se potessi chiamarli dèi, demoni, talismani sacri, come facevano i Comyn tanti anni fa. Sharra è un demone? Non più di quanto Aldones sia un dio», disse, con un sorriso. «Eppure, in un certo senso, sono entità viventi, anche se forse vivono solo nel mondo della mente. E non sono né entità buone né entità malvagie, anche se così possono parere nel loro contatto con gli uomini. Che cosa dice la leggenda?»
Callina sussurrò: «Che Sharra è incatenata con catene d'oro dal Figlio di Hastur, che a sua volta è Figlio di Aldones, che a sua volta è il Figlio della Luce…»
«Parole del rito!» esclamai io, con fastidio. «Semplici superstizioni!»
Il viso impassibile si voltò verso di me.
«Lo credi davvero?» mi chiese Ashara. «Che sai della Spada di Aldones?»
Inghiottii a vuoto.
«È l'arma contro Sharra», dissi. «Suppongo che sia una matrice, e che, come quella di Sharra, sia nascosta in una spada.»
Si trattava, comunque, di una discussione accademica, e lo dissi. La Spada di Aldones era nel Rhu Fead, il luogo sacro dei Comyn, ed era inaccessibile come se si fosse trovata in un'altra Galassia.
Ci sono molti oggetti come quello, su Darkover, e in genere si tratta delle antiche armi sopravvissute all'Epoca del Caos, che non possono essere distrutte senza liberare la loro potenza, ma che sono così potenti, e così pericolose, da non poter essere affidate neppure ai Comyn, neppure alle Torri.
Il Rhu Fead, la Caverna Sacra di Hali, è protetta da schermi matrice che impediscono di entrare a chiunque, tranne ai Comyn con sul braccio il sigillo del Consiglio. Per un estraneo è fisicamente impossibile entrare senza che la sua mente si riduca a un foglio bianco. Quando entra nei suoi campi di forza, una sorta di attenuatore telepatico gli cancella dalla mente tutti i pensieri, e l'estraneo non ricorda più il motivo che lo ha indotto a entrare.
I Comyn del passato, però, avevano fatto in modo che nessuno dei loro discendenti, una volta giunto all'interno, potesse prendere quegli oggetti. C'era una seconda linea di difesa, che operava in senso inverso alla prima. Nessun Comyn poteva oltrepassarla. Un estraneo — una volta entrato -avrebbe potuto prendere senza difficoltà gli oggetti del Rhu Fead, ma i Comyn non potevano avvicinarsi agli schermi matrice che li circondavano.
Dissi: «Da mille anni non c'è stato un solo Comyn privo di scrupoli che non abbia cercato il modo di oltrepassare quegli schermi di matrici».
«Ma nessuno di loro ha potuto avere al suo fianco una Guardiana», disse Callina. Guardò Ashara: «Provare con un terrestre?»
«Forse», rispose Ashara. «Almeno, un uomo di un altro mondo. Non un terrestre nato su Darkover, con la mente già assuefatta alle forze del pianeta, ma un vero estraneo. Una persona del genere potrebbe entrare dove noi non possiamo. La sua mente sarebbe del tutto isolata, rispetto a quelle forze, perché non sospetterebbe neppure la loro esistenza.»
«Proprio una cosa da nulla», commentai ironicamente. «Mi basta fare un viaggio di cinquanta anni-luce e di portarne qui uno, senza dirgli nulla di Darkover e di ciò che vogliamo da lui, e augurarmi che abbia un talento telepatico sufficiente a cooperare con noi.»
Negli occhi di Ashara mi parve di scorgere una sfumatura di disprezzo.
«Tu sei un tecnico delle matrici», disse. «Perché non servirti dello schermo?»
All'improvviso mi comparve nella mente lo strano schermo luccicante che avevo visto nel laboratorio di matrici di Callina. Allora, era davvero uno dei leggendari trasmettitori psicocinetici! Vagamente, mi parve di capire che cosa avessero in mente le due donne.
Volevano trasmettere la materia — animata o inanimata — istantaneamente attraverso lo spazio.
«Nessuno lo ha mai più fatto!» protestai io. «Da centinaia di anni!»
«So quel che Callina è capace di fare», disse Ashara, con il suo sorriso impenetrabile. «Comunque, tu e Callina siete entrati in contatto mentale, in Consiglio…»
«Un contatto superficiale», precisai io. «E ne siamo usciti esausti, tutt'e due.»
Ashara annuì.
«Perché tutta la tua energia e tutta quella di Callina», spiegò, «sono state spese per mantenere il contatto. Ma io potrei mettervi tutt'e, due in contatto focale, come tu hai fatto con Marjus quando vi siete collegati.»
Io sporsi le labbra in avanti, come se volessi fischiare. Mi pareva un po' drastica, come soluzione. In genere, solo gli Alton possono resistere a quel tipo di contatto focale profondo.
«Gli Alton e le Guardiane», precisò Ashara.
Io rivolsi un'occhiata a Callina, per comunicarle i miei dubbi, ma notai che aveva abbassato gli occhi. Era comprensibile: quel tipo di rapporto costituisce la forma più profonda di intimità. Neanch'io ero particolarmente ansioso di fare quell'esperienza; avevo anch'io i miei scheletri nell'armadio, e avevo sempre cercato di nasconderli; ero disposto, adesso, a mostrarli a Callina?
Poi fu lei stessa a scuotere la testa in segno di rifiuto.
«No!» disse, seccamente.
E io, per qualche motivo, davanti al suo rifiuto, rimasi profondamente ferito. Se io — forse — ero disposto ad accettare, perché lei doveva opporsi così decisamente?
«Non intendo farlo!» riprese Callina, incollerita, ma anche impaurita. «La mia mente appartiene soltanto a me, e nessuno, e soprattutto tu, deve violarmela!»
Non capii se si rivolgesse a me o ad Ashara, ma, per cercare di calmarla, le parlai dolcemente.
«Callina, fallo per me», le dissi. «Non possiamo amarci, per ora, ma non potresti essere mia in questo modo?»
Avevo bisogno di lei, ma Callina si irrigidì come se mi odiasse. Prese a singhiozzare.
«Non posso!» esclamò. «Non voglio! Pensavo di poterlo fare, ma ora capisco che non posso!»
Infine si voltò verso Ashara. Aveva la faccia pallida come uno straccio, gli occhi accesi.
«Sei stata tu a farmi diventare così!» la accusò. «Darei la mia vita, per liberarmi di te, per non averti mai vista, ma sei stata tu a rendermi così, e io non posso più cambiare!»
«Callina…» dissi.
«No!» rispose con voce carica di passione. «Tu non sai nulla! Non lo vorresti neppure tu, se sapessi tutto!»
«Basta», esclamò Ashara, con un tono di voce che sembrava il rintocco di una campana di ghiaccio, per ricordarci che nella Torre doveva regnare il silenzio.
Negli occhi di Callina, la fiamma bellicosa si spense.
«Come vuoi tu, allora; non posso costringerti. Farò quello che devo fare», concluse la vecchia Guardiana.
Si alzò in piedi e scese dal trono di cristallo. Sollevò le mani, azzurre come il ghiaccio a causa di quella luce innaturale, e le appoggiò sulle spalle di Callina. Poi si voltò verso di me e incrociò lo sguardo con il mio, per la prima volta. I suoi occhi glaciali, irresistibili, parvero inghiottirmi…
La stanza di cristallo svanì. Per un momento mi parve di scorgere soltanto il vuoto assoluto, come se fossi sull'orlo dell'abisso senza stelle, quello che si stende oltre il confine dell'universo; ero un'ombra fra innumerevoli altre ombre trasportate alla deriva in una nebbia pungente. Poi sentii pulsare un primo seme di forza; nel profondo del mio cervello, una scintilla, un nucleo duro si risvegliò e mi ridiede una forza che, lungo i miei nervi intorpiditi, bruciò come una fiamma. Mi vidi come una rete di fibre nervose, una rete di forza vivente.
Poi, all'improvviso, nella mia mente si disegnò un volto.
Non potrei descrivere quel volto, anche se oggi, ormai, so che cosa era. In tutto, nella mia vita, l'ho visto tre volte, ma non esistono parole umane capaci di spiegarlo. Era bello al di là di qualsiasi immaginazione. E non era malvagio. Ma era un viso condannato, maledetto. Rimase nella mia mente per una minima frazione di secondo, poi scomparve in una fiammata. Però, per quella minima frazione di secondo, ebbi l'impressione di essermi affacciato sull'inferno.
Con un brivido, ritornai alla realtà. Ero di nuovo nella stanza di Ashara, immerso nella sua luce azzurra. Ero di nuovo lì? L'avevo lasciata? Mi girava la testa, ero confuso e disorientato; ma Callina si gettò sul mio petto, e la stretta convulsa delle sue braccia, la fragranza dei suoi capelli, la pressione della sua faccia contro di me, servirono a ridarmi l'equilibrio.
Mi guardai attorno e vidi che il trono di cristallo era vuoto.
«Dov'è Ashara?» chiesi, senza capire.
Callina si staccò da me. Da un momento all'altro, improvvisamente, aveva smesso di singhiozzare. Il suo viso era stranamente immobile, senza traccia di emozione.
«È meglio che tu non me lo chieda», mormorò. «Non crederesti mai alla mia risposta.»
Aggrottai la fronte. Non avevo idea di come potesse essere il legame tra le due Guardiane. Avevo davvero visto Ashara, o quella che mi aveva parlato era soltanto un'immagine? E anche Callina aveva visto il volto che mi era apparso per un istante, quando la mia mente si era affacciata ai margini dell'universo?
Una volta usciti dalla Torre, vedemmo che era scesa la notte; attraversammo i cortili ancora umidi di pioggia e i lunghi porticati senza scambiarci neppure una parola. Con sollievo, poi, una volta entrati nel laboratorio di Callina, potei togliermi il mantello e scaldarmi davanti al caminetto, mentre lei attivava gli attenuatori telepatici. Attraversai la sala fino a raggiungere l'immenso schermo che avevo visto il giorno precedente, e osservai con curiosità la rete di matrici di cui era costituito.
Uno schermo trasmettitore.
Accanto a esso, posata su vari strati di seta isolante, c'era la più grossa matrice naturale che avessi mai visto. Un normale tecnico delle matrici lavora sui primi sei livelli. Un lettore del pensiero può agire sul settimo e sull'ottavo. Sharra controllava nove livelli o dieci — non avevo mai approfondito questo suo aspetto — e per usarla occorrevano almeno tre menti collegate, una delle quali doveva essere quella di un lettore del pensiero. Ma non riuscivo a immaginare il livello della matrice che comandava quel particolare schermo.
Che cos'era, stregoneria, oppure scienza, ma basata su leggi fisiche sconosciute ai terrestri? E v'era davvero differenza tra le due cose, se la “stregoneria” dava un risultato prevedibile e ripetibile a volontà? E la Dote della mia Famiglia, connaturata con il mio sangue, la particolare scintilla che correva lungo i miei nervi, mi permettevano di usarla: ero un Comyn, e i Comyn erano stati creati dal dio Hastur, come dicevano alcuni — o selezionati mediante uno spietato programma genetico, nelle nostre Epoche del Caos, come dicevano gli storici — per lavorare con le matrici.
È impossibile spiegare uno schermo come quello di Callina a una persona non appartenente ai Comyn: trattandosi di un'attività fisico-mentale, una parte della spiegazione deve essere operativa, e solo un Comyn può capirla. Sarebbe come voler spiegare come si fa un nodo senza avere a disposizione un pezzo di corda… e senza avere le mani. Perciò, non starò a spiegarlo.
Per analogia, comunque, si può dire che lo schermo di Callina catturava le immagini. Era sotto un certo aspetto un duplicatore, sotto un altro una rete da pesca con cui catturare un oggetto ben determinato. Con la matrice si stabilivano le caratteristiche dell'oggetto desiderato, e lo schermo cercava un oggetto che entrasse in risonanza con quelle caratteristiche; poi lo portava a coincidere con la sua descrizione, ossia lo trasportava nello spazio davanti a sé.
Si dice che uno schermo come quello fosse stato usato dal generale Bard, all'epoca di Varzil, per trovare un sosia che avesse il suo stesso genio militare, in modo da poter combattere su due fronti, e in effetti pare che uno degli araldi di Bard fosse del tutto identico a lui. Ma in genere quegli schermi erano usati, nei tempi antichi, per trasportare da una Torre all'altra un tecnico o un meccanico delle matrici: la persona che doveva spostarsi creava una propria immagine nella Torre di destinazione, lo schermo di questa Torre cercava la persona corrispondente all'immagine — processo istantaneo, perché la persona era già nell'altra Torre, accanto a uno schermo analogo! — e quando l'originale veniva sovrapposto all'immagine, la persona prescelta giungeva nel luogo di destinazione e scompariva da quello di partenza.
Con lo stesso genere di istruzioni, lo schermo poteva essere usato per cercare il duplicato esatto di un oggetto o di una persona, oppure per cercare oggetti di cui si conoscesse la descrizione, ma non il luogo in cui si trovavano, sempre che non fossero chiusi entro uno schermo: per esempio, non poteva essere usato per prelevare la Spada di Aldones dal luogo in cui era nascosta.
Tuttavia, anche nell'epoca d'oro delle Torri e dei Comyn, per usare senza danni quel tipo di schermi occorreva un Cerchio di matrici, e anche se Ashara ci aveva garantito che io e Callina saremmo riusciti a usarla, non avevo una chiara idea dei rischi che potevamo correre.
In sostanza, avremmo agito così: con la mia capacità di leggere i pensieri, enormemente amplificata dalla matrice, avrei cercato, senza limiti di spazio, la persona da noi desiderata. Tra tutti i miliardi di menti umane e aliene esistenti su tutti i pianeti e in tutto il corso del tempo, ce n'era certamente una che servisse al fatto nostro, ossia che avesse alcune capacità e che non ne avesse, invece, certe altre.
Trovata la mente, ne avremmo costruito l'immagine nello spazio apposito, davanti allo schermo, e, approfittando della distorsione dello spazio creata dalla matrice, avremmo sovrapposto la persona alla sua immagine. A quel punto, con un blocco psicocinetico, le avremmo impedito di ritornare nel suo spazio-tempo.
I terrestri avrebbero parlato di iperspazio, viaggio attraverso la quarta dimensione, trasmissione istantanea di materia, ma queste sono soltanto parole. Nessun terrestre con una matrice sarebbe riuscito a teletrasportare un oggetto come contavamo di fare noi: tutt'al più avrebbe potuto creare una distorsione spaziale e vedere l'oggetto distante (sempre che avesse una matrice abbastanza grande; e nessuna matrice di livello superiore era mai rimasta attiva, una volta caduta in mano ai terrestri: gli schermi monitor, con la situazione di tutte le matrici, istante per istante, servivano anche a questo!) Però, una volta annullata la distorsione, l'oggetto sarebbe ritornato al suo posto. Il difficile non era trasportare un oggetto, ma toglierlo dalla sua bolla di spazio-tempo.
Mi sedetti davanti allo schermo, e cominciai a regolarne le caratteristiche, per metterle in fase con il mio schema mentale. Ruotai avanti e indietro le piccole manopole, ma non riuscii a eliminare una sfasatura di fondo.
Senza guardare Callina, le dissi: «Devi staccare lo schermo monitor, altrimenti c'è interferenza».
Lei annuì, e si avvicinò a me per disinserire il contatto con le matrici di quella parte di Darkover. Poi attese accanto allo schermo, come se aspettasse una comunicazione.
«C'è un ripetitore collegato con la Torre di Arilinn», mi spiegò.
Dallo schermo, infatti, giunse subito un leggero ronzio, come quello di un cicalino. Callina chiuse gli occhi per comunicare.
«Certo, Manica», disse poi, a voce alta, perché sentissi anch'io, «me ne rendo perfettamente conto. Ma dovrete controllarle voi, le matrici. Noi ci siamo staccati dal circuito principale. Adesso interromperemo anche il collegamento con voi.»
Attese la risposta, poi disse con impazienza: «Su, stacca il collegamento dalla tua parte! Adesso innalzerò una barriera di terzo livello attorno alla Torre di Thendara! Dobbiamo fare un lavoro per il Reggente, obbedisci!»
«Quella ragazza è il tecnico più curioso che esista sul pianeta», disse. «Mi dispiace che non ci fosse un'altra, alle reti. Ad Arilinn c'è qualche tecnico che riesce a superare una barriera di terzo grado, ma se ne mettessi una di quarto…»
Trasse un sospiro, senza terminare la frase.
Io, però, capii perfettamente quello che voleva dire; una barriera di terzo grado viene normalmente usata da chi ha bisogno di concentrazione per un lavoro complesso, e la si innalza, in genere, quando si deve dare l'ultimo ritocco a uno schermo, o per piccoli lavori analoghi, che non hanno molto interesse per le altre Torri. Una barriera di quarto grado, invece, fa subito pensare a lavori con sostanze pericolose: se ne avessimo innalzato una, ogni Torre si sarebbe messa sul chi vive, e avrebbe pensato che al Castello dei Comyn si stesse facendo qualcosa di illegale.
Dato il generale disinteresse di Torri e Comyn, comunque, il rischio di essere spiati era molto ridotto. Regolai la fase dello schermo; Callina si sedette al suo posto, davanti alla matrice. Quando lei fu pronta, mi svuotai la mente e pensai soltanto alla configurazione da noi voluta. Come doveva essere, lo straniero che ci occorreva? Tuttavia, senza volontà conscia da parte mia, mi si disegnò subito nella mente uno schema ben preciso.
Per un breve istante, prima che il riflesso dello schermo si allargasse e mi abbagliasse, riuscii a vedere lo schema, all'interno della matrice; poi, quando la mia mente venne assorbita entro lo schermo, divenni cieco e sordo a tutto quello che si svolgeva attorno al mio corpo.
Gradualmente, senza aiuto dagli organi di senso, cominciai però a orientarmi dentro lo schermo, che era nello stesso tempo un modello dell'universo e un modello della mia mente. Attraversai distanze incredibili in frazioni di secondo: anni-luce e intere galassie, mentre mi sfioravano frammenti di pensiero, immagini ed emozioni slegate da un preciso significato: il solito rumore di fondo che si incontra nel mondo mentale.
Poi, ancor prima di avvertire il contatto, sentii il lampo incandescente che era esploso sullo schermo.
Era stata trovata una mente che corrispondeva allo schema cercato. Avevamo teso la nostra rete nello spazio e nel tempo, come pescatori, e la mente che cercavamo era stata catturata.
Io ero senza corpo, sparso su un'infinità di stelle; se in quel momento fosse successo qualcosa, la mia mente sarebbe rimasta isolata dal corpo e si sarebbe persa nello spaziotempo.
Con infinita cautela, entrai in contatto con la mente estranea. Dopo una lotta brevissima, ma intensa, riuscii a impossessarmene. Tutto l'universo, attorno a me, era tornato a essere una fiamma di vetro e di colore, e il riflesso sullo schermo divenne progressivamente un'immagine, poi…
Una luce fortissima mi colpì gli occhi. Un urto insopportabile mi squassò il cervello, il pavimento parve balzare verso la mia faccia, e Callina, che barcollava come me, mi finì addosso.
Stordito, ma cosciente, guardai Callina. La mente estranea non era più agganciata alla mia. Lo schermo era spento.
E afflosciata sul pavimento, ai piedi dello schermo, immobile nel punto dove era arrivata, c'era una ragazza snella, dai capelli scuri.