CAPITOLO 2 IL LEGATO TERRESTRE

L'Hotel dello Spazioporto era caro, lussuoso e arredato con cattivo gusto. A me non era mai piaciuto, ma laggiù non si rischiava di imbattersi in qualche Comyn, e questa era la cosa che m'importava maggiormente. I camerieri ci accompagnarono in due delle scatole di cemento che i terrestri chiamano “stanze”.

Io mi ero abituato a esse sulla Terra e su Vainwal, e ormai non mi davano più fastidio. Ma nel chiudere la porta mi venne in mente un particolare, e mi girai verso Marjus. «Per tutti gli inferni di Zandru, me n'ero dimenticato! Questa stanza ti dà fastidio?»

Sapevo che le porte, le pareti e le serrature potevano fare uno sgradevole effetto su un darkovano. Anch'io avevo conosciuto quella terribile, soffocante claustrofobia, nei primi anni trascorsi sulla Terra. È una delle cose che distingue maggiormente i darkovani dai terrestri; le stanze dei darkovani avevano le pareti traslucide, di un marmo simile all'alabastro, e tra un ambiente e l'altro c'erano tende, pannelli sottili o vetri fosforescenti.

Tuttavia, Marjus pareva del tutto a proprio agio e s'era subito sdraiato su un mobile dalla forma così bislacca che avrei avuto difficoltà a dire se era una sedia o un letto. Alzai le spalle. Se avevo imparato a vincere la claustrofobia, probabilmente l'aveva imparato anche lui.

Mi lavai, mi feci la barba e feci un pacco dei vestiti terrestri che avevo indossato sull'astronave. Quegli abiti erano comodi, ma non potevo presentarmi al Consiglio dei Comyn vestito da terrestre.

Perciò mi infilai calzoni di pelle scamosciata, stivaletti dal tacco basso, giubbotto di seta rossa, che mi allacciai con una mano sola, facendo forse eccessivamente sfoggio della mia abilità perché ero ancora un po' troppo sensibile, quando si trattava dei miei handicap. Su tutto, poi, contavo di infilarmi un corto mantello con gli stemmi degli Alton, che nascondeva egregiamente l'assenza della mano. Lo tolsi dalla valigia e, nel guardarlo, tirai un respiro di sollievo, perché mi pareva di avere cambiato pelle.

Marjus, intanto, si era alzato e aveva cominciato a girare per la stanza. C'era ancora qualcosa, in lui, che non mi convinceva del tutto. Ricordavo vagamente la sua voce e il suo mondo di comportarsi, ma non sentivo quel forte rapporto di intimità che c'è sempre tra i lettori di pensiero appartenenti alla stessa famiglia. Mi chiesi se anche lui non fosse irrequieto perché sentiva la stessa mancanza. Forse era l'effetto della droga.

Mi stesi per qualche momento sul letto, chiusi gli occhi e cercai di dormire, ma il silenzio mi fece uno strano effetto e mi impedì di riposare. Dopo otto giorni nello spazio, ormai mi ero abituato all'onnipresente ronzio dei generatori, che faceva vibrare tutta l'astronave e che riusciva a superare anche l'effetto della droga.

Alla fine, fui costretto ad alzarmi e, per trovarmi un'occupazione, andai a prendere la mia sacca da viaggio.

«Mi fai un favore?» gli chiesi.

«Certo», rispose Marjus.

«Non riesco a concentrarmi, e prima, alla dogana, quando ho dovuto farlo, mi è venuto il mal di testa. Sei in grado di aprire una serratura a matrice?»

«Se non è troppo complicata.»

Era semplicissima: anche un non telepatico sarebbe stato in grado di accordare la propria mente alla semplice configurazione psicocinetica trasmessa dalla gemma matrice che teneva chiusa la serratura.

«È semplice, ma è regolata su di me. Sfiorami la mente, e ti darò la sequenza.»

Era un tipo di richiesta che non avrei mai rivolto a un estraneo — conoscendo la mia sequenza personale, qualsiasi buon operatore di matrici avrebbe potuto sapere immediatamente dove mi trovavo, spiare i miei discorsi e la mia attività — ma tra parenti stretti era abbastanza comune. Marjus, però, mi guardò con terrore.

Io lo fissai, inarcando le sopracciglia, poi capii e sorrisi. In fondo, dopo tanti anni di separazione, tra noi si era persa ogni confidenza. Quando avevo lasciato Darkover, lui era un ragazzino: adesso dovevo apparirgli come un estraneo, e tra estranei si evita accuratamente di entrare in contatto mentale.

«Già», dissi. «Scusa. Chiudi la mente, e ti manderò la sequenza.»

Gli inviai un breve messaggio telepatico, trasmettendogli sotto forma di immagine la configurazione energetica della serratura. La sua mente era così ermeticamente chiusa che, per qualche momento, mi parve quella di un estraneo, se non addirittura quella di un non telepatico. Quella mancanza di reazione mi imbarazzò: mi parve di essere un intruso.

Dopotutto, pensai, non ero certo che Marjus fosse un telepatico. Di solito il Potere mentale — il laran, come è chiamato su Darkover fin dai tempi più antichi — non compare prima dell'adolescenza, e lui era un bambino, quando l'avevo visto l'ultima volta. Come me, era per metà terrestre, e anche se in genere, nei figli di matrimoni misti, la caratteristica darkovana finisce per dominare, non avevo alcuna prova che avesse ereditato da nostro padre quella caratteristica.

Prese la sacca, la appoggiò sul letto e, senza difficoltà, fece scattare la chiusura. Poi si spostò per lasciarmi sedere. Io presi uno dei pacchetti e glielo porsi.

«Non è granché, come regalo», gli dissi, «ma, come vedi, non mi sono dimenticato di te.»

Lui aprì la scatola, con esitazione, e guardò il binocolo, luccicante e alieno, contenuto all'interno. Lo prese in mano con imbarazzo, e lo infilò di nuovo nel contenitore, senza fare commenti.

Io rimasi alquanto seccato da quella mancanza di reazioni. Non mi ero aspettato ringraziamenti sperticati o incredibili proteste di gratitudine eterna, ma almeno avrebbe potuto dirmi grazie. E non mi aveva chiesto di nostro padre.

«I terrestri sono imbattibili, quando si tratta di strumenti ottici», commentò, dopo qualche istante.

«Certo, sanno come si molano le lenti. E come si costruiscono le astronavi. Tolto quello, però, non sanno fare altro.»

«Sanno costruire le armi», disse, ma io lasciai cadere quel discorso.

«Ti faccio vedere la mia macchina fotografica», dissi. «Però, non ti dirò il prezzo che l'ho pagata, perché mi crederesti impazzito.»

Gli mostrai gli oggetti che avevo portato con me dai miei viaggi, e Marjus si sedette sul letto e li osservò tutti, rivolgendomi parecchie domande, con diffidenza. Chiaramente, quel materiale gli interessava, ma per qualche motivo cercava di nascondere il proprio interesse. Perché lo faceva?

Alla fine arrivai anche al pacco lungo e stretto contenente la spada. E, quando lo toccai, sentii un'emozione che conoscevo bene: piacere e repulsione insieme…

Finché ero lontano da Darkover, la gemma era rimasta spenta. Dormiente. Ma adesso la vicinanza di quella pietra matrice così potente, nascosta nell'impugnatura della spada antica, mi faceva tremare. Sugli altri pianeti era un pezzo di cristallo inerte. Su Darkover era viva, ed emanava un calore strano, simile a quello di un corpo animato.

In genere, le matrici sono innocue. Sono pezzetti di cristallo — o complesse reti di fili di metallo, con incastonate tante piccole pietre: gli “schermi” usati nelle Torri — che reagiscono alle lunghezze d'onda del pensiero e che trasformano l'energia elettrica del cervello in altre forme di energia: calore, magnetismo, energia molecolare di legame.

Nella normale meccanica delle matrici — e la meccanica delle matrici, qualunque cosa ne pensino i terrestri, è una scienza esatta, e tutti possono impararla — si sfrutta solo la loro capacità telecinetica (la capacità di muovere gli oggetti senza toccarli) senza ricorrere alla telepatia. Tutti sono capaci di aprire un lucchetto a matrice, ma, naturalmente, solo i telepatici sanno arrivare ai vertici della psicocinesi, come estrarre i metalli dalla terra, trasportare gli oggetti a distanza, agire a livello molecolare, cambiando la natura chimica e fisica degli oggetti, come per esempio trasformare in diamante un pezzo di grafite. Questo perché i telepatici possono leggere nella mente di un altro telepatico la particolare configurazione mentale occorrente.

La matrice Sharra, però, era qualcosa di assai più sofisticato: matrici di quella grandezza hanno una potenza pari a quella degli schermi, ma, essendo un singolo blocco di cristallo, hanno una risposta più unitaria. Inoltre, la carica di energia mentale che aveva accumulato nei secoli le dava una sorta di sua personalità. Reagiva alla vicinanza di un lettore della mente e si sintonizzava sui suoi centri nervosi della telepatia, fino a entrare in risonanza con tutto il suo essere: corpo e cervello.

Così, se veniva toccata da un estraneo (ossia da chiunque non fosse un tecnico delle matrici, con l'addestramento delle Torri), ritrasmetteva la sensazione del contatto, enormemente amplificata, all'uomo con cui era in risonanza: esattamente come mi era successo qualche ora prima, alla dogana.

Ma era pericolosa anche per il suo possessore, perché bastava una minima disattenzione per dover assorbire tutto l'urto della sua potenza. Per tradizione, e perché non si scordi il pericolo da esse costituito, le matrici di quel genere venivano nascoste all'interno di qualche tipo di arma: in genere un corto stiletto, di quelli da portare al collo. La matrice Sharra risaliva all'Epoca del Caos ed era la più spaventosa arma che fosse stata creata su Darkover: perciò, era giusto che fosse nascosta in una spada. Anzi, sarebbe stato ancor più giusto nasconderla in una bomba a fusione nucleare. Possibilmente, in una già innescata e pronta a esplodere, capace di distruggere matrice e tutto… me compreso!

Mi accorsi che Marjus mi guardava terrorizzato. Tremava, ma non riusciva a staccare gli occhi dalla matrice.

«La matrice di Sharra!» mormorò a denti stretti. «Perché, Lew? Perché?»

Mi girai di scatto verso di lui.

«Come fai», gli chiesi seccamente, «a conoscerla?»

Infatti, Marjus non era mai stato informato. Nostro padre aveva preferito non gravargli la coscienza con un simile segreto. Mi alzai, mentre cominciavo ad avere i primi sospetti, ma, prima che potessi fare qualche domanda, venni interrotto dalla suoneria del telefono.

Marjus mi precedette e andò a rispondere. Ascoltò per un istante, poi mi porse il ricevitore, e si spostò per lasciarmi passare.

«Per te, Lew. Una comunicazione ufficiale», mi spiegò, a bassa voce.

Diedi la mia identità, e una voce secca, annoiata, disse: «Terzo Dipartimento».

«Per tutti gli inferni di Zandru!» esclamai. «Siete già qui? No… scusate… ditemi tutto.»

«Una notifica ufficiale», disse l'uomo. «Una comunicazione di intento di uccidere, ad armi pari, è stata presentata a questo ufficio nei confronti di Lewis Alton-Kennard-Montray. L'uccisore dichiarato è stato identificato come Robert Raymon Kadarin, senza fissa dimora. La notìfica vi è stata data come prescritto dalla legge; ora dovete accettarla o fornire una scusa legalmente valida per rifiutarla.»

Io inghiottii a vuoto.

«L'accetto», dissi alla fine, e riagganciai il ricevitore. Avevo la fronte madida di sudore e tornai a sedere.

Il ragazzo venne a sedersi accanto a me.

«Che cosa ti è successo, Lew?» mi chiese.

Mi faceva male la testa. Dovetti massaggiarmela con la mano sana.

«Mi hanno appena comunicato un “intento”», dissi.

«Diavolo!» esclamò Marjus. «Così presto? E da parte di chi?»

«Non lo conosci», risposi.

Sentii che la faccia mi si contraeva per un tic, dalla parte della cicatrice. Kadarin: il capo dei ribelli di Sharra. Un tempo mio amico, ora mio nemico implacabile. Non aveva davvero perso tempo, per invitarmi a risolvere definitivamente la nostra vecchia rivalità.

Mi chiesi se sapesse che avevo perso la mano, e solo allora mi venne in mente — come se fosse un episodio successo a un altro — che poteva essere una ragione legale per rifiutare il duello. Cercai di rassicurare il ragazzo.

«Non spaventarti, Marjus», gli dissi. «È un certo Kadarin, ma non ho paura di lui, ad armi pari. Non valeva molto, con la spada. Lui…»

«Kadarin!» balbettò. «Ma Bob mi aveva promesso…»

«Bob!», esclamai, stupito. Di scatto, lo afferrai per il braccio. «Come fai a conoscere Kadarin?»

«Lascia che ti spieghi, Lew», rispose lui. «Io non sono…»

«Dovrai fornirmi parecchie spiegazioni, fratellino», gli dissi con aria minacciosa.

Proprio in quel momento, qualcuno bussò rumorosamente alla porta.

«Non aprire a nessuno!» esclamò Marjus, impaurito.

Ma io andai alla porta e tolsi il catenaccio. Nella stanza entrò di corsa Diana Ridenow.

Dopo che l'avevo vista all'aeroporto s'era cambiata, e adesso portava calzoni da equitazione, di foggia maschile, un po' troppo grandi per lei, e sembrava un bambino bellicoso e polemico. Si fermò dopo essere entrata e fissò il ragazzo seduto.

«Che cosa…?» domandò.

«Conosci mio fratello», dissi io, con fastidio.

Ma Diana era ancora allibita.

«Tuo fratello?» disse infine, quando riuscì di nuovo a parlare. «Sei impazzito? Quello non è Marjus!»

Io feci un passo indietro, senza crederle, e Diana batté il piede in terra, con stizza.

«Gli occhi! Lew, imbecille, guardagli gli occhi

Il mio presunto fratello si lanciò verso di me e mi fece perdere l'equilibrio. Ci urtò con tutto il suo peso; Diana girò su se stessa, io finii con un ginocchio a terra e cercai di rialzarmi.

Gli occhi. Marjus, ricordai, aveva gli occhi uguali a quelli di nostra madre. Castano scuro. Nessun darkovano ha mai avuto gli occhi di quel colore. E quell'impostore che non era Marjus aveva gli occhi da terrestre, castano chiaro, con macchie che sembravano pagliuzze d'oro. Solo due volte avevo visto occhi come quelli. Gli occhi di Marjorie e quelli di…

«Rafe Scott!» esclamai.

Il fratello di Marjorie! Niente di strano, se mi aveva riconosciuto e se mi era parso una persona familiare. Anche Rafe, quando l'avevo visto l'ultima volta, era un bambino.

Cercò di spingermi via per fuggire, ma io lo afferrai con una stretta tale da spaccargli le ossa, e lui cercò di divincolarsi.

«Dov'è mio fratello?» gridai. Infilai il piede dietro il suo tallone e spinsi; tutt'e due finimmo a terra.

Non ha detto di essere Marjus, pensai, in quell'istante. Semplicemente, non lo ha negato quando si è accorto che l'avevo scambiato per lui…

Riuscii a mettergli il ginocchio sul petto e lo tenni fermo sotto il mio peso.

«Che cos'è questa storia, Rafe? Parla!» gli ordinai.

«Fammi alzare, maledizione! Ti posso spiegare ogni cosa!» rispose lui.

Non ne dubitavo: avrebbe certamente trovato qualche spiegazione convincente. Bastava pensare con quanta astuzia avesse scoperto che ero disarmato. La colpa, però, era anche mia: avrei dovuto fidarmi del mio istinto; non l'avevo sentito come un fratello. Non mi aveva chiesto notizie di mio padre. Era rimasto imbarazzato, quando gli avevo mostrato il regalo.

«Lew», cominciò Diana, «forse…»

Ma, prima che riuscissi a risponderle, Rafe riuscì a girarsi su se stesso, mi afferrò il ginocchio e mi fece rotolare a terra. Prima che riuscissi a rimettermi in piedi, aveva dato uno spintone a Diana, senza tante cerimonie, ed era fuggito in corridoio.

Mi alzai, con il fiato corto, e Diana si avvicinò a me.

«Sei ferito?» chiese. «Cerchiamo di raggiungerlo?»

«No, a tutt'e due le domande», risposi. Finché non avessi scoperto perché Rafe era ricorso a quella goffa impostura, sarebbe stato inutile cercarlo, perché mi avrebbe raccontato solo menzogne. Nel frattempo, dov'era il vero Marjus?

«La situazione», osservai, senza necessariamente rivolgermi a Diana, «diventa sempre più pazzesca. Ma tu, che cosa c'entri?»

Lei si sedette sul letto e mi fissò con ira.

«Vediamo se lo indovini», mi rispose.

Una volta tanto, rimpiansi di non poterle leggere nella mente. C'era una ben precisa ragione per cui non potevo farlo, ma non starò a parlarne proprio ora.

Basterà dire che Diana equivaleva a un mucchio di guai: guai in una confezione piccola, bionda, graziosa, ma un mucchio di guai.

Io ero su Darkover, adesso; e contavo di rimanerci almeno per qualche tempo. Le abitudini sociali di Vainwal — dove Diana, sotto la nominale protezione del fratello Lerrys, aveva trascorso i due anni precedenti — sono meno rigide del codice di comportamento darkovano. E Lerrys aveva avuto il buon senso di non interferire.

Ma, su Darkover, Diana era un Comyn, e vantava diritti di successione sulle grandi proprietà dei Ridenow. Mentre io ero solo un mezzo sangue, incrociato con gli odiati terrestri. Una tresca amorosa con Diana avrebbe scatenato contro di me tutti i Ridenow, che non sono pochi.

Per tutta la vita avrei continuato a essere grato a Diana. Quando avevo perso Marjorie, in quell'ultima, orribile notte in cui la potenza di Sharra si era scatenata sulle colline dall'altra parte del fiume, era come se mi fosse stato strappato qualcosa dal cuore. Non un taglio netto, come per la mano, ma una ferita interna che marciva e si guastava.

Non ero riuscito a pensare a un'altra donna, a un altro amore: solo a un orrore nero e disperato, finché non avevo conosciuto Diana. Lei si era gettata nella mia vita: una ragazza graziosa, appassionata, sicura di sé, che si era fatta carico di quell'orrore, senza mai tremare, e alla fine era riuscita a guarirmi.

Era amore? Sì e no. Ma era comprensione, fiducia. Le avrei affidato senza paura la mia reputazione, la mia fortuna, la mia salute… la vita.

Ma dei suoi fratelli mi fidavo quanto mi sarei fidato di vedere la rotta attraverso la chiglia di metallo della Croce del Sud. E non potevo permettermi di litigare con loro, almeno per il momento.

Cercai di spiegarlo a Diana senza offenderla, ma non fu facile. Lei continuò a guardare in basso, imbronciata, e a dondolare le gambe, mentre io camminavo avanti e indietro come un animale in trappola.

Già il semplice fatto che si trovasse nelle mie stanze poteva essere pericoloso, se i suoi famigliari ne fossero venuti a conoscenza, benché si trattasse di un incontro innocente. E io sapevo che se fosse rimasta ancora in quella stanza per qualche tempo, innocente non sarebbe più stato. E anche se Diana mormorava, di tanto in tanto: «Certo, certo», la cosa serviva solo a farmi infuriare, perché in realtà non ne era affatto certa; anzi, se c'era una cosa di cui era certa, era quella di voler fare il contrario di quel che le consigliavo.

Quando alzò gli occhi e prese a fissare qui e là, gli occhi le caddero sulla spada cerimoniale, ancora stesa sul letto. Aggrottando la fronte, fece per prenderla.

Non fu un vero e proprio dolore, ma mi sentii afferrare da una forte tensione, come se una mano si fosse stretta sui miei nervi. Lanciai un urlo, senza lasciar uscire dalle mie labbra alcun suono, e Diana lasciò cadere la spada, come se scottasse.

Mi fissò a bocca aperta.

«Che cosa c'è?» chiese.

«Non posso spiegartelo…» dissi, e per qualche istante mi limitai a fissare la spada.

«Prima di tutto», ripresi poi, non appena fui di nuovo in grado di respirare, «è meglio che la sistemi, in modo che si possa prenderla in mano. Per il bene mio e di chi la tocca.»

Frugai nel mio bagaglio, alla ricerca della mia attrezzatura da meccanico delle matrici. Mi restavano solo pochi pezzi della particolare seta isolante per matrici, contenente nella trama e nell'ordito una rete di fili metallici che faceva da gabbia di Faraday; ma adesso che ero su Darkover avrei potuto procurarmene dell'altra. L'avvolsi sulla gemma e sull'elsa finché non sentii più il calore e il formicolio della matrice; poi, aggrottando la fronte, la tenni a una certa distanza e la fissai con diffidenza. Con quella matrice, non ero neppure certo che le normali precauzioni avessero effetto.

Porsi la spada a Diana. Lei si morse il labbro, ma la impugnò. Sentii un leggero dolore, del tutto sopportabile; una tensione un po' fastidiosa, ma non di più. Una cosa ben diversa dalla sensazione delle ultime due volte.

«Perché hai lasciato priva di isolamento una matrice di così grande potenza?» chiese Diana. «E come diavolo le hai permesso di entrare in così forte risonanza con te?»

Erano due ottime domande, specialmente la seconda. Ma finsi di non averla udita.

«Non osavo farle passare la dogana avvolta nella seta isolante», dissi, con aria cupa. «Ormai i terrestri sanno che cosa cercare, e sono sempre alla caccia di grosse matrici. Ma finché sembra solo una gemma posta sull'elsa di una spada, nessuno bada a essa.»

Lei scosse la testa.

«Lew», disse, «non capisco.»

«Non cercar di capire, cara», le dissi. «Meno ne saprai, meglio sarà per te. Qui non siamo su Vainwal, e io non sono più l'uomo che hai conosciuto lassù.»

Le sue labbra tremavano, ed entro un minuto io avrei finito per prenderla tra le braccia e per baciarla; ma in quel momento sentii bussare alla porta.

E pensare che avevo scelto quell'albergo per non essere disturbato!

Mi staccai da Diana.

«Sarà probabilmente uno dei tuoi fratelli», dissi con amarezza, «e adesso mi troverò con un altro intento di uccidere registrato contro me.»

Feci un passo verso la porta, ma Diana mi trattenne per il braccio.

«Aspetta», mi disse, in tono pressante. «Prendi almeno questa.»

Guardai l'oggetto che mi porgeva, e per qualche istante non capii che cosa fosse. Poi la riconobbi: una piccola pistola “a propulsione”: una delle armi a polvere esplosiva chimica, di fabbricazione terrestre, che, nonostante la loro dimensione ridotta e la semplicità di funzionamento, riescono a ferire gravemente una persona, e a distanze più che notevoli: dieci braccia, venti.

Tirai indietro la mano, con un moto istintivo di ripulsa, ma Diana me la cacciò in tasca.

«Non c'è bisogno di usarla», disse. «Mi basta che tu la porti. Ti prego, Lew…»

Sentii di nuovo bussare, ma Diana mi trattenne, dicendo: «Ti prego… la pistola…» e alla fine, con fastidio, annuii. Andai alla porta e la schiusi di pochi centimetri, mettendomi in modo da non far vedere la ragazza.

Alla porta c'era un ragazzo muscoloso e scuro di capelli, con gli occhi scuri e l'aria divertita.

«Allora, Lew?» mi chiese.

Dopo un istante, la sua presenza divenne pienamente tangibile per me. Non saprei spiegare esattamente come fosse successo, ma seppi.

Tutt'a un tratto, mi parve incredibile che Rafe fosse riuscito a ingannarmi anche solo per un minuto. Era la dimostrazione, se ancora ne avessi avuto bisogno, che dopo l'atterraggio la mia mente marciava a velocità ridotta.

Dissi, con la voce roca: «Marjus!» e lo feci entrare.

Non parlò, ma il modo in cui mi strinse la mano fu caldo e intenso.

«Lew… e nostro padre?» chiese.

«Su Vainwal», dissi, «la legge proibisce di trasportare le salme nello spazio.»

Inghiottì a vuoto e chinò la testa.

«Sotto un sole che non ho mai visto…» mormorò.

Io gli misi il braccio sulla spalla, e dopo un minuto lui mi guardò.

«Almeno», disse, «tu sei qui. Sei ritornato. Mi avevano detto che non volevi farlo.»

Commosso e con un senso di colpa, mi staccai da lui. C'era voluto un ordine per farmi ritornare, e adesso non ero affatto orgoglioso della cosa. Mi guardai attorno, ma Diana non c'era più. Evidentemente, era uscita dall'altra porta. Provai un leggero sollievo: con la sua fuga, mi risparmiava le spiegazioni.

Ma, in un certo senso, la cosa mi dava fastidio. Troppe persone, in quelle ultime ore, avevano fatto una breve comparsa e poi erano sparite. Le persone sbagliate, e per i motivi sbagliati. Dyan Ardais che mi aveva letto nella mente mentre eravamo sull'aereo. La ragazza dello spazioporto, che assomigliava a Linnell ma non lo era. Rafie, che si era fatto passare per mio fratello Marjus e che invece non lo era affatto. Diana, comparsa misteriosamente, senza nessun motivo comprensibile e poi svanita. E adesso arrivava lo stesso Marjus. Semplici coincidenze? Forse, ma io avevo la testa confusa.

«Sei pronto a venire via?» mi chiese Marjus. «Ho predisposto tutto, a meno che tu non abbia qualche buona ragione per rimanere qui.»

«Dovrei ritirare il mio certificato presso la Legazione», spiegai. «Poi potremo andare.»

Forse era meglio che me andassi via in fretta, mi dissi, altrimenti metà pianeta sarebbe venuto a bussare alla mia porta, a propormi altri misteri.

«Lew», mi chiese Marjus, bruscamente, «hai una pistola?»

La stessa domanda che mi aveva fatto Rafe… e, chissà perché, mi diede fastidio. Cercavo di riflettere su tutto quello che mi era accaduto, eliminando il falso Marjus (Rafe) dai miei pensieri e rimettendovi il vero Marjus.

«Sì», dissi, senza dare spiegazioni. «Vieni in Legazione con me?»

«Verrei fino all'altro capo della città con te.» Si guardò attorno, osservando la stanza, e rabbrividì. «Non riuscirei a resistere altri dieci minuti, in questa gabbia per bestie feroci. Non intendevi dormire qui, spero!»


La Città Commerciale era ancor più cresciuta, durante la mia assenza; era più vasta di quanto non ricordassi, più sporca e più affollata. Mi sembrava giusto pensare a essa come alla “Città Commerciale” anziché con il suo nome darkovano, Thendara. Per qualche tempo, Marjus si limitò a camminare al mio fianco, senza parlare. Poi si girò verso di me.

«Lew», mi chiese, «com'è, la Terra?»

Mi aspettavo che mi rivolgesse quella domanda. La Terra, pianeta dei nostri antenati, a cui lui assomigliava tanto. Io avevo sempre odiato la mia parte di sangue terrestre. Anche per lui era così?

«Occorre tutta una vita per conoscere la Terra», risposi, «e io sono rimasto laggiù per tre soli anni. Ho imparato un mucchio di scienza e un po' di matematica. Le loro scuole tecniche sono molto buone. Ci sono troppe macchine, troppo rumore. Io abitavo sui monti; vivere a livello del mare mi faceva star male.»

«Allora», commentò Marjus, «la Terra non ti è piaciuta?»

«Oh, no, stavo benissimo. Mi avevano perfino dato una mano meccanica!» Feci una smorfia. «Ecco la Legazione.»

Marjus disse: «Faresti meglio a darmi la pistola», e mi fissò con costernazione, quando vide che lo guardavo con ira.

«Che cos'hai, Lew?» mi chiese.

«Sta succedendo qualcosa di strano», dissi, «e comincio a sospettare della gente che mi vuole disarmare. Perfino di te. Conosci un uomo chiamato Robert Kadarin?»

Marjus mi guardò con espressione imperscrutabile. Quando aveva quell'espressione, la sua faccia abbronzata era un mistero totale, illeggibile come una statua.

«Mi pare di avere già sentito quel nome», disse. «Perché me lo chiedi?»

«Ha inoltrato un intento di uccidere contro di me», dissi, ed estrassi di tasca la pistola, per pochi istanti. «Non intendo usare quest'arma contro di lui, ma preferisco averla con me», spiegai.

«Faresti meglio a lasciarmela», ripeté Marjus. Poi alzò le spalle. «Ma capisco. Scusa.»

Entrai nel grattacielo e presi l'ascensore. Dall'interno della sua cabina di vetro, vidi passare davanti a me i quartieri della forza spaziale, l'ufficio statistiche, i vari piani stipati di macchine, di archivi, di impiegati: tutta l'amministrazione di uno dei principali porti di transito della Galassia.

Giunto all'ultimo piano, mi avviai lungo il corridoio, fino alla porta su cui si leggeva: «DAN LAWTON — Legato per gli Affari Darkovani».

Come Legato, Lawton prendeva molto sul serio il suo lavoro di collegamento tra i due pianeti, e amava tenere sotto controllo i movimenti di chi andava e veniva sul pianeta. Io avevo avuto occasione di conoscerlo prima di lasciare Darkover e sapevo che la sua storia assomigliava alla mia: padre terrestre, madre appartenente a una famiglia Comyn. Eravamo perfino lontani parenti, ma non saprei dire esattamente di che grado.

Lawton era un uomo alto e robusto, dai capelli rossi, che sarebbe potuto passare benissimo per darkovano e che avrebbe potuto rivendicare un seggio nel Consiglio dei Comyn, se l'avesse chiesto.

Tuttavia, lui non l'aveva chiesto. Aveva scelto l'Impero, e oggi era uno dei più alti funzionari di collegamento tra terrestri e darkovani. Secondo me, nessun uomo che viva secondo i costumi terrestri può essere completamente onesto con se stesso; ma lui lo era più di tanti altri.

Ci stringemmo la mano alla maniera dei terrestri — abitudine che io, come tutti i telepatici, odio — e mi accomodai davanti a lui. Mi sorrise con aria amichevole, senza false esagerazioni, e non cercò di sfuggire al mio sguardo. Vi assicuro che non sono molti coloro che riescono a guardare negli occhi un lettore dei pensieri.

Mi riconsegnò il tesserino di plastica.

«Eccolo», disse. «Non l'ho fatto trattenere perché fosse necessario il controllo, ma perché mi serviva una scusa per parlare con te, Alton.»

Io m'infilai in tasca il documento, ma non dissi niente.

«Sei stato sulla Terra, se mi hanno bene informato», continuò. «Ti è piaciuta?»

«Il pianeta, sì», risposi, «ma la gente — senza offesa — no.»

Lui rise.

«Non hai bisogno di scusarti», disse. «Me ne sono andato via anch'io. Laggiù rimangono solo i peggiori. Chi ha un po' di intelligenza e di spirito di iniziativa viene mandato a farsi l'esperienza sugli altri pianeti. Alton, perché non hai mai chiesto la cittadinanza imperiale? Tua madre era terrestre: avresti tutto da guadagnare, a chiederla, e niente da perdere.»

«E perché tu non hai chiesto un seggio tra gli Hastur?» ribattei io.

Lui annuì. «Capisco.»

«Lawtori», gli dissi allora, «io non combatto contro la Terra. Non sono granché soddisfatto della presenza dell'Impero su Darkover, ma noi, quando combattiamo, non ragioniamo in termini di città, di nazioni e di pianeti. Se un terrestre fosse mio nemico, andrei a depositare un intento e poi cercherei di ucciderlo. Se dieci di loro mi bruciassero la casa o mi rubassero i cavalli, chiamerei i miei famigliari, ci metteremmo insieme e li uccideremmo. Ma non posso odiare qualche migliaio di persone — persone che non mi hanno mai fatto del male, e neppure del bene — semplicemente per il fatto che sono qui. Noi non ragioniamo così. Noi odiamo le singole persone, non le masse.»

«Posso provare simpatia per questa posizione, ma vi mette in svantaggio nei confronti dell'Impero», disse Lawton, con un sospiro. «Comunque, non ti tratterrò più a lungo, a meno che non ci sia qualcosa che posso fare per te, naturalmente.»

«Forse, sì», risposi. «Conosci un uomo che si fa chiamare “Kadarin”?»

La sua reazione fu immediata.

«Non dirmi che è qui a Thendara!» esclamò.

«Lo conosci?» chiesi di nuovo.

«Vorrei non avere mai sentito il suo nome! Voglio dire che non lo conosco personalmente, che non l'ho mai visto. Ma salta fuori dappertutto. Afferma di avere cittadinanza darkovana quando è in territorio terrestre, e in qualche modo riesce sempre a dimostrarlo; e mi risulta che pretende di essere un terrestre, e che riesce a dimostrarlo, quando ne è fuori.»

«E…?» lo incoraggiai.

«E non possiamo negargli i suoi Tredici Giorni», disse, scuotendo la testa.

Risi. Avevo già visto molti terrestri scuotere la testa allo stesso modo, quando si scoprivano beffati dalla nostra legge dei Tredici Giorni: una legge che a loro sembra solo un'illogica trappola giuridica. Un esiliato, un fuorilegge, perfino un assassino, aveva un diritto inalienabile, che risaliva ai tempi più lontani, di trascorrere una giornata a Thendara, tredici volte l'anno, per esercitare i suoi diritti legali. In quel periodo, a patto che non commetta alcun crimine, gode di una completa immunità.

«Se si fermasse un solo minuto oltre il limite, lo arresteremmo immediatamente. Ma è molto attento. Non possiamo neppure arrestarlo perché ha sputato sul marciapiede. L'unico posto dove si reca è l'orfanotrofio. Poi, a quanto pare, scompare nell'aria.»

«Be', presto potrai sbarazzarti di lui», gli dissi. «Non arrestarmi, quando lo ucciderò. Ha registrato il suo intento contro di me.»

Lawton sorrise.

«Se potessimo essere sicuri che non succeda il contrario», disse, mentre io mi alzavo per andarmene.

Tuttavia, quando ero già alla porta, mi richiamò indietro, con rabbia. Il tono amichevole era scomparso dalla sua voce; si alzò e venne verso di me, con ira.

«Hai un oggetto di contrabbando! Dammelo!»

Io gli consegnai la pistola. Naturalmente, accanto alla porta ci doveva essere un detector. Lawton controllò il tamburo, poi si fermò per qualche istante, fissò qualche particolare che non riuscii a vedere, aggrottò la fronte e mi restituì l'arma.

«Riprendila. Non avevo capito.»

Me la mise in mano, con impazienza.

«Avanti, prendila! Ma va' via di qui, prima che qualcun altro ti scopra. Poi restituiscila al proprietario. Se vuoi un permesso, cercherò di fartene avere uno, ma non andare in giro con armi di contrabbando!»

Mi lasciò la pistola e virtualmente mi cacciò via dall'ufficio. Io guardai la pistola senza capire, la girai sopra e sotto, mentre raggiungevo l'ascensore. Poi l'occhio mi cadde su una piccola piastrina avvitata sotto l'impugnatura: RAFAEL SCOTT.

E all'improvviso capii che non era il caso di chiedere spiegazioni né a Diane che me l'aveva data né a Marjus che avrebbe voluto tenerla mentre andavo dal Legato.

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