CAPITOLO 9 UN'EREDE PER GLI ALTON

Ancora malcerta sulle gambe, Callina si inginocchiò vicino alla forma distesa in terra. Io mi accostai, più lentamente, e mi piegai su di lei.

«Non è morta, vero?» chiesi.

«Certo, che non lo è», rispose lei, alzando gli occhi. «Ma è stato terribile, anche per noi. Come credi che sia stato, per lei? È sotto shock.»

La ragazza era stesa su un fianco e si copriva ancora, con il braccio, la faccia. I capelli rosso-bruni le erano caduti in avanti e le nascondevano il viso. Io li scostai delicatamente, poi dovetti immobilizzarmi per la sorpresa.

«È Linnell», disse Callina, con un gemito. «Linnell!»

Sul pavimento era distesa la ragazza che avevo visto allo spazioporto: quella che avevo incontrato nei primi, confusi momenti del mio arrivo a Thendara.

Per un momento, pur sapendo che cosa doveva essere successo, temetti di perdere la ragione. Anche per me, l'esperienza del trasporto era stata una grande fatica. Non c'era nervo che non mi facesse male.

«Che cosa abbiamo fatto?» gemeva Callina. «Che cosa abbiamo fatto?»

La strinsi a me. Dovevo aspettarmelo, mi dissi. Linnell era vicina a noi, tutt'e due le avevamo parlato e avevamo pensato a lei, nelle ore precedenti. E così…

Cercai di darle una spiegazione semplice.

«Tu stessa mi hai ricordato la legge di Cherillys, dei due poli», le dissi. «Ogni oggetto, tranne una matrice, ha un duplicato esatto. Questa sedia, il mio mantello, il cacciavite che hai sul tavolo, la fontana del parco di New Chicago: ciascun oggetto dell'universo ha un duplicato molecolare esatto. Il solo oggetto unico è una matrice, e nell'universo non ci sono tre cose uguali tra loro: se ne esistesse una terza, ne esisterebbe anche una quarta.

«Sai anche il motivo, che è legato a equilibri del secondo ordine nella struttura delle forme: quando un oggetto assume una forma, crea una distorsione permanente nello spazio, dovuta alle forze che mantengono questa forma.

«Secondo la scienza fisica dei terrestri, queste distorsioni si annullano a vicenda, ma noi sappiamo che invece si sommano sempre. Ogni distorsione agisce come una leva sull'intero spazio e lo stacca dalla sua traiettoria spaziotemporale, creando una scia di distorsioni, che a loro volta ne generano altre, e così via, all'infinito.

«Non appena una di queste distorsioni diventa abbastanza grande — e una lo diventa subito, in base alle semplici variazioni casuali; anzi, più è complesso l'oggetto, più in fretta avviene la cosa — le altre confluiscono in essa, e, dato che il sistema tende a uno stato in cui non consuma energia, la configurazione finale è quella identica. Come per i due pesi della bilancia.

«E più è complessa la struttura dell'oggetto, maggiore sarà la distanza tra i duplicati: la copia del tuo cacciavite può essere a poche miglia da noi, ma la copia di una persona non può trovarsi a meno di parecchi anni luce da essa. La copia di una matrice di grado elevato deve essere addirittura in un altro universo.»

«Allora, questa è la gemella di Linnell?» chiese Callina.

«È qualcosa di più della gemella», risposi io. «È quasi impossibile che due gemelli siano anche i due duplicati previsti dalla legge di Cherillys: uno dei due avrà una cicatrice leggermente diversa, o qualcosa del genere. Ma questa è la vera copia di Linnell, il suo “doppio”. Hanno le stesse impronte digitali, le stesse impronte della retina, le stesse onde beta e lo stesso gruppo sanguigno. Probabilmente, la sua personalità sarà diversa da quella di Linnell, perché è cresciuta in un ambiente diverso. Ma fisicamente sono identiche, anche come patrimonio genetico.»

Presi il polso della ragazza e lo mostrai a Callina. Anche su di esso si scorgeva il tatuaggio che viene praticato ai figli legittimi dei Comyn, mediante una matrice, quando vengono presentati in Consiglio.

«In lei è una macchia di nascita», dissi, «ma l'effetto è identico. Vedi?»

Mi alzai. Callina non riusciva a staccare gli occhi dalla ragazza.

«Può vivere nel nostro ambiente?» volle sapere.

«Perché no?» risposi io. «Essendo il duplicato di Linnell, i suoi muscoli e i suoi organi interni sono identici.»

«Sei in grado di sollevarla e di portarla in un'altra stanza?» mi chiese Callina.

Indicò i vari schermi luccicanti.

«Se dovesse svegliarsi in questo momento», disse, «avrebbe un altro brutto shock.»

Io feci una smorfia.

«Avrà un brutto shock in qualsiasi caso», mormorai.

Tuttavia, riuscii a sollevarla senza difficoltà: era leggera come Linnell. Callina mi tenne aperta la tenda, mi mostrò il letto su cui avrei dovuto metterla.

La coprì con alcune soffici coperte, perché quella stanza era più fredda del laboratorio, e, mentre accendeva il caminetto, si girò verso di me.

«Mi chiedo da dove provenga», disse.

«Viene certamente da un pianeta con la gravità uguale a quella di Darkover, e con un sole non troppo luminoso. Proxima è da escludere, altrimenti avrebbe la pelle più abbronzata. Potrebbe essere di Vialles, di Wolf o anche della Terra. Oppure di qualche pianeta lontano, che non conosco.»

Quando l'avevo sentita parlare, dall'accento mi era parsa una terrestre; tuttavia non avevo mai raccontato a Callina il mio incontro allo spazioporto, e non avevo voglia di raccontarglielo ora.

«Lasciamola dormire: si sveglierà quando le sarà passato lo shock», dissi. E aggiunsi: «E anche noi faremmo bene a dormire.»

Callina mi raggiunse accanto alla soglia e, tenendosi al mio braccio, guardò un'ultima volta la ragazza, prima di uscire.

Era stanca, ma mi parve ancor più incantevole, dopo avere condiviso con lei i rischi e le fatiche. Mi chinai su di lei e la baciai.

«Callina», mormorai. Era quasi una domanda, ma lei lasciò il mio braccio, gentilmente, e io non insistetti. Lei aveva ragione; tutt'e due eravamo esausti, dopo avere lavorato sulle matrici.

Uscii senza guardarmi indietro e, invece di andare a mangiare qualche cibo molto nutriente che mi ridesse le forze, come si insegnava a tutti coloro che operavano con le matrici, scesi nel cortile e cominciai a camminare avanti e indietro.

Era ormai quasi l'alba, e quando a est comparvero le prime luci, presi la mia decisione e andai alla Torre.

Temevo che, senza Callina al mio fianco, avrei trovato chiusa la stanza di cristallo azzurro, o che Ashara si fosse ritirata in qualche luogo inaccessibile. Invece, la vidi al suo posto, sul trono, e tale era l'illusione di quelle strane luci, o la stanchezza dei miei occhi, che mi parve più giovane, meno distante: mi parve quasi uguale a Callina, ma a una Callina strana, fredda e inumana.

Non potevo pensare chiaramente, ma alla fine riuscii a rivolgerle la domanda.

«Tu sei in grado di vedere nel tempo», le dissi. «Ti prego, quella bambina che, secondo Dyan, è mia figlia…»

«È davvero tua figlia», rispose Ashara.

«E chi…?»

«Capisco», rispose lei. «Non hai mai avuto donne, tranne la comynara Diana Ridenow, dopo la morte della tua Marjorie Scott.»

Io rimasi a bocca aperta per lo stupore, ma lei continuò, imperturbabile.

«No, non te l'ho letto nella mente», mi disse. «Avevo pensato che la ragazza Ridenow potesse essere addestrata come… come ho addestrato Gallina, ma poi ho constatato che non poteva esserlo.

«Non m'importa della tua moralità o di quella di Diana; è solo una questione di collegamenti nervosi ancora da plasmare. Una volta fissati da un'esperienza sensuale, non sono più flessibili come quelli dell'area cerebrale caratteristica di voi Alton.

«Il Reggente Hastur», proseguì, con voce priva di qualsiasi emozione, «non era disposto ad accettare la nuda parola di coloro che gli hanno portato la bambina; così, l'ha portata da me perché la controllassi. È qui nella Torre. Puoi vederla. È tua figlia. Seguimi.»

Con mia grande sorpresa — non so perché, ma avevo avuto l'impressione che Ashara non potesse lasciare la sua strana sala di cristallo azzurro — si alzò e varcò un'altra delle strane porte di cristallo. La seguii e mi trovai in una camera normalissima, circolare. Una delle creature pelose non umane che servono nelle Torri, dove i normali servitori non possono entrare — una sottospecie di uomo delle foreste che è sempre vissuta con l'uomo — si allontanò silenziosamente da noi.

Alla normale luce del giorno, Ashara era quasi diafana, indistinta. Mi chiesi se non fosse davvero una proiezione mentale, quella che vedevo. La stanza era disadorna, e su un lettino bianco, nel centro, c'era una bambina di pochi anni, che dormiva profondamente. I suoi capelli, sul cuscino, erano di color rosso-oro.

Mi avvicinai e la guardai con attenzione. Non poteva avere ,più di cinque o sei anni. E nel guardarla capii che Dyan aveva detto il vero. Sarebbe stato impossibile spiegarlo, tranne che a un lettore del pensiero e a un Alton, ma lo capii senza possibilità di errore: era mia figlia, nata dal mio sangue. Il viso minuto, triangolare, non aveva alcuna somiglianza con il mio, ma il mio sangue la riconobbe. Non era figlia di mio padre. E neppure di mio fratello. Era mia figlia. Carne della mia carne.

«Chi è la madre?» chiesi piano.

«Sarai più felice, per tutta la vita, se non lo saprai», mi rispose.

«Sono perfettamente in grado di sopravvivere anche a una simile conoscenza», dissi, con una smorfia. «Chi è, qualche ragazza di taverna di Carthon o degli Hellers?»

«No.»

La bambina mormorò nel sonno, poi si mosse e aprì gli occhi. Feci un passo verso di lei, poi mi voltai, con un'espressione disperata, verso Ashara. Quegli occhi, color dell'ambra e con minuscole pagliuzze dorate…

«Marjorie», dissi con voce roca, dolorosamente. «Marjorie è morta, non può…»

«Non è la figlia di Marjorie Scott», disse Ashara, con voce fredda e implacabile. «È la figlia di Thyra Scott.»

«Thyra?» chiesi, sforzandomi di non scoppiare follemente a ridere. «Impossibile! Non avrei toccato quella strega neppure con la punta delle dita, tanto meno mi sarei sognato di…»

«Comunque, è figlia tua e di Thyra», tagliò corto Ashara. «I particolari non mi sono chiari. C'è stato un periodo in cui… Non saprei. Potrebbero averti dato qualche droga, o ipnotizzato. Forse potrei scoprirlo, ma non sarebbe facile, neppure per me. Quella parte della tua mente è chiusa e sigillata. Ma il modo in cui è successo non ha alcuna importanza.»

Serrai i denti, preso da una rabbia selvaggia. Thyra! Quella strega dai capelli rossi, tanto simile a Marjorie e, nello stesso tempo, tanto diversa da lei; la migliore alleata di Kadarin! Che cosa avevano fatto, quei due? Come erano riusciti a…

«Non ha importanza», ripeté Ashara. «Quello che conta è che è figlia tua.»

Fui costretto ad accettare il fatto, ma fissai con ira la bambina. Lei si rizzò a sedere, tesa come un piccolo animale spaventato, e io provai all'improvviso un grande dolore per lei.

Avevo visto la stessa espressione sul viso di Marjorie. Sola. Perduta. Spaventata.

Dissi, con quanta gentilezza potei: «Non avere paura di me, chiya, bambina. Non sono bello a vedersi, ma non ho mai mangiato i bambini piccoli».

Lei sorrise. All'improvviso, la sua piccola faccia dal mento appuntito mi parve incantevole; un sorriso da elfo, con una fossetta accanto alle labbra. C'erano due posti vuoti tra i suoi dentini dritti.

«Mi hanno detto che sei il mio papà.»

Mi voltai verso Ashara, ma lei era sparita, e io ero solo con quella inattesa figlia. Mi sedetti accanto al lettino. Ero un po' impacciato.

«Già, proprio così. Come ti chiami, chiya?» le chiesi.

«Marja», mi rispose timidamente. «Sarebbe Marguerhia…» spiegò, faticando a pronunciare il nome, che era il nome di Marjorie, nel dialetto dei monti. «Marguerhia Kadarin, ma io preferisco Marja.»

Si mise in ginocchio e mi osservò con attenzione.

«Che cosa hai fatto dell'altra mano?» mi chiese.

Risi per la sorpresa. Non ero abituato ai bambini.

«Mi sono fatto male», spiegai, «e hanno dovuto tagliarmela.»

I suoi occhi color dell'ambra erano enormi. Si sedette sulle mie ginocchia e io le appoggiai la mano sulla spalla. Non sapevo ancora bene che cosa fare.

La figlia di Thyra. Thyra Scott era ufficialmente la moglie di Kadarin… ammesso che si potesse chiamare moglie, perché tutti sapevano che Kadarin, probabilmente, era suo fratellastro.

Di Kadarin, infatti, si diceva che fosse figlio di Zeb Scott e di una donna delle strane razze semiumane che s'incontrano talvolta negli Hellers, nel fitto delle foreste. Una donna dei chieri, i cosiddetti “elfi” di Darkover, dai grandi poteri mentali, secondo alcuni; una donna nata da un incrocio tra i chieri e gli uomini, secondo altri.

La prima ipotesi, comunque, era poco probabile, perché i chieri, secondo tutte le leggende, erano ermafroditi, e si sono accoppiati con gli uomini solo nei primi secoli dopo l'arrivo dell'uomo sul pianeta. Secondo queste leggende, i figli di tali unioni sono gli Hastur, e infatti, di tanto in tanto, qualcuno accusa ancora gli Hastur di avere “sangue elfo” (e in realtà, nelle Epoche del Caos, molto prima dei Cento Regni, spesso nasceva un Hastur ermafrodita e con sei dita nelle mani, come i chieri).

Sono leggende, certo, ma mio padre mi aveva raccontato che un chieri si era fatto vedere da lui, quando era ragazzo, e che gli aveva dato la conferma di alcune di quelle leggende: grazie al loro potere mentale, gli aveva detto, i chieri erano riusciti a mescolare la loro razza con quella degli uomini per dare ai discendenti i loro poteri. Il chieri da lui incontrato, anzi, considerava gli uomini di Darkover come gli autentici eredi e “figli” della sua razza.

Comunque, dagli esperimenti con cui i chieri hanno cercato di trasmettere agli uomini i loro poteri mentali, non sono sorti solo gli Hastur — che forse si devono considerare come il tentativo meglio riuscito — ma anche le altre Famiglie dei Comyn, e probabilmente anche altri gruppi.

Infatti, noi conosciamo solo quelli che hanno adottato gli usi e costumi umani, mentre i gruppi che condividevano il desiderio di solitudine e di isolamento caratteristico dei chieri non hanno mai avuto interesse a prendere parte alla vita delle città dette Pianure e devono essere rimasti isolati negli Hellers e in altre zone: doveva trattarsi di gruppi di pochi individui, molto longevi, a metà strada tra gli uomini e gli elfi, e dotati di un laran a noi sconosciuto, ma orientato verso la natura, un po' come la sensibilità dei Ridenow, o come la Dote dei MacAran, che permetteva di parlare con gli animali.

È probabile dunque che Zeb Scott, con le sue storie di lontani pianeti e di strane avventure, avesse colpito l'immaginazione di una donna di uno di quei gruppi, da lui incontrata nelle foreste, e che fosse rimasto con lei per parecchio tempo. Dall'incontro era nato Kadarin, e forse erano nati anche gli altri Scott. Quasi certamente Thyra.

Poi, quando Zeb aveva voluto fare ritorno alla civiltà, la donna-elfo doveva avergli cancellato parte dei ricordi: questo spiega anche le difficoltà incontrate da Kadarin per capire dove fosse nascosta Sharra, sulla base delle confuse indicazioni del vecchio Scott.

Kadarin e Thyra, dunque, erano fratellastri se non fratelli, ma negli Hellers c'è ancora l'abitudine di sposarsi tra fratello e sorella, specialmente tra il popolo, che non ha i mezzi per dare una dote alle figlie, e spesso, per evitare tare genetiche, in questo tipo di matrimonio si adotta il figlio di un'altra coppia, o si cerca di avere un figlio da una persona importante, approfittando della Festa del Solstizio: per esempio da qualche esponente della piccola nobiltà, perché il figlio erediti il suo laran.

E un Alton come me sarebbe stato il padre ideale, per un figlio della coppia Kadarin-Thyra!

Aggrottai la fronte, cercando di ricordare esattamente certi particolari del periodo da me trascorso con Kadarin. Di buona parte degli avvenimenti legati a Sharra, però, conservavo solo ricordi confusi; del resto, per sei anni avevo pensato a Sharra il meno possibile e non avevo mai cercato di vincere la parziale amnesia, perché avevo il sospetto che, a ricordare tutto, sarei impazzito.

Forse mi avevano drogato con l'afrosone. Conoscevo i sintomi. La persona drogata vive un'esistenza che esteriormente sembra del tutto normale, ma non conserva alcun ricordo delle proprie azioni, perché da un giorno all'altro perde la continuità del pensiero.

I terrestri direbbero che quella droga lascia inalterata la memoria a breve termine ma blocca quella a lungo termine. In realtà, comunque, una traccia rimane, ma è in codice, come i sogni; uno psichiatra terrestre, o un telepatico delle Torri, potrebbe ricostruire quei sogni e, da essi, scoprire quello che è accaduto alla persona drogata, ma io non lo avevo mai voluto sapere. E non volevo saperlo neppure adesso.

«Dove sei stata, finora, Marja?» chiesi alla bambina.

«In una grande casa, con tanti bambini», mi disse. «Quelli, però, sono orfani, mentre io non lo sono. Io sono un'altra cosa. Me lo dicevano sempre, ma la direttrice non vuole che lo ripeta perché è una brutta parola. Vuoi che te la dica lo stesso?»

«Non importa», le dissi, con un brivido. Non ci voleva molto, a capire che cosa dicessero, quegli orfani mezzo darkovani, a una bambina dai capelli rossi come i suoi, colore posseduto solo dai Comyn. L'avrebbero chiamata “strega”, soprattutto ora che i Comyn venivano osteggiati dalla popolazione comune, ansiosa di gettarsi tra le braccia dell'Impero Terrestre.

Quanto al fatto che la “grande casa” fosse l'orfanotrofio terrestre di Thendara, anch'esso era evidente. Lo stesso Legato Lawton, nella Città Commerciale, mi aveva detto che Kadarin, quando entrava nella Zona Terrestre, si recava soltanto laggiù.

Marja appoggiò la testa sul mio braccio e chiuse gli occhi. Io la sollevai per rimetterla nel suo lettino, e in quel momento sentii una strana pressione nella mente, e compresi, con incredulità, che la bambina cercava di leggermi nei pensieri.

L'idea era stupefacente. A bocca aperta, guardai la bambina. Impossibile! Fino alla pubertà, i bambini non hanno poteri telepatici… Neppure i figli degli Alton! Mai!

Mai? Non potevo dirlo; ovviamente, Marja li aveva. La abbracciai, ma interruppi il contatto, delicatamente, perché non sapevo quale fosse la sua resistenza.

Ma sapevo una cosa. Indipendentemente da chiunque avesse la patria potestà su di lei, Marja era mia! E nessuno sarebbe riuscito a staccarmi da lei. Marjorie era morta, ma Marja viveva, chiunque fosse sua madre, con i lineamenti di Marjorie impressi sulla faccia, ed era la figlia che Marjorie avrebbe potuto darmi se fosse vissuta, e tutto il resto non contava.

E se qualcuno — Hastur, Dyan, lo stesso Kadarin — pensava di potermi togliere la figlia, aveva soltanto da provarci!

Il cielo era ormai chiaro, all'esterno della Torre, e tutt'a un tratto sentii una grande stanchezza. Era stata una notte piena di emozioni. Appoggiai Marja sul letto e la coprii con le coperte, rimboccandole fino al mento. Lei mi guardò con desiderio, senza parlare.

D'impulso mi chinai ad abbracciarla.

«Dormi bene, figlia mia», le dissi, e uscii dalla stanza senza fare rumore.

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