CAPITOLO 4 IL RITORNO DI KADARIN

Marjus si sporse a guardare che cosa facessi, mentre io estraevo la spada, ancora isolata, e la posavo sul pomo della mia sella.

«Vuoi aprire qui la mia Dote?» chiese. Attorno a noi, la sottile aria del mattino era immobile come la sua faccia. Alle nostre spalle si alzava il monte; dagli Hellers veniva fino a noi l'odore pungente del fumo: a una distanza indeterminabile da noi, qualche bosco doveva essere stato distrutto da un incendio. Dietro di noi, nella radura, gli altri Comyn attendevano, in sella. Io avevo abbassato le barriere, e sentivo l'urto delle loro emozioni. Ostilità, curiosità, incredulità e disprezzo caratterizzavano gli Ardais, gli Aillard e i Ridenow; simpatia e preoccupazione giungevano dagli Hastur e, curiosamente, da Lerrys Ridenow.

Avrei preferito fare tutto in privato. I pensieri che mi giungevano da quegli osservatori, a me ostili, avrebbero finito per togliermi il coraggio. E il fatto che la vita di mio fratello dipendesse dal modo in cui fossi riuscito a controllare i miei nervi era un altro motivo di agitazione.

Rabbrividii. Se Marjus fosse morto — e c'era un forte rischio che morisse — solo la testimonianza dei Comyn avrebbe potuto salvarmi da un'accusa di omicidio. Tutt'e due correvamo un forte rischio, e io avevo paura.

La messa a fuoco — la prima comparsa, in ogni nuovo Alton — della Dote della nostra Famiglia non è un procedimento semplice, e deve essere imposta a forza dall'esterno, da un Alton che la possegga già. Il fatto che tutt'e due le persone siano consapevoli di ciò che fanno e che lo facciano volontariamente non lo rende più facile, neppure per due telepatici esperti; lo rende solo possibile.

La Dote degli Alton è un particolare tipo di un'altra Dote che di tanto in tanto compare tra i lettori del pensiero e che non è mai stata attribuita a una Famiglia in particolare: quella di catalizzatore telepatico, ossia la capacità di sviluppare le doti telepatiche delle altre persone.

Ciò che, in Consiglio, avevamo promesso di fare per eliminare il pericolo di Sharra si può spiegare in poche parole: collegare le nostre menti. Ma non in un normale contatto telepatico; e neppure nel rapporto forzato che un Alton (e un Hastur) può imporre a un'altra mente per trasmetterle un pensiero o per bloccarla. Occorreva un rapporto totale e reciproco: mente conscia e mente subconscia, centri telepatici e psicocinetici, coordinazione e funzioni energetiche, in modo da funzionare a tutti gli effetti come un solo cervello in due corpi.

Per poterlo fare, tuttavia, prima dovevo portare alla luce, in Marjus, la Dote degli Alton. Occorreva penetrare, nei primi istanti, con la forza nella sua mente, e farla entrare in risonanza con la mia. Normalmente quella risonanza forzata è pericolosissima — ed è per questo che tutti temono gli Alton — ma la nostra Dote fa in modo che un particolare centro cerebrale entri in fase con quello dell'Alton adulto e diventi uguale a esso.

In un vero Alton, quel centro è sempre plastico, modellabile, finché non viene “messo a fuoco” da un altro Alton; in tutti gli altri, invece, ha già una sua funzione, e la sovrapposizione forzata lo distrugge, causando la pazzia e, in pochi istanti, la morte.

Mio padre aveva fatto con me quel che volevo fare con Marjus: una volta sola, e per circa trenta secondi, con la mia piena consapevolezza che rischiavo di morire. Ma era l'unica prova accettabile del fatto che fossi un vero Alton. E, grazie a quella prova, mio padre aveva costretto i Comyn ad accettarmi fra loro. Io mi ero addestrato per giorni interi, e lui aveva usato tutta la sua abilità. Marjus, invece, vi arrivava pressoché senza preparazione.

Mi pareva di vedere mio fratello per la prima volta. La differenza di età, la sua faccia da straniero e i suoi bizzarri occhi me l'avevano sempre reso estraneo; adesso, la consapevolezza che poteva morire sotto la mia mente, entro pochi minuti, me lo faceva sembrare meno reale: un'ombra, la comparsa di un sogno.

«Vuoi rimandare, Marjus?» gli chiesi, con un'incrinatura nella voce.

Mi guardò con aria divertita.

«Sei geloso?» mi chiese a bassa voce. «Vuoi tenete solo per te i privilegi del laran? Non vuoi altri Alton in consiglio, vero?»

Senza altri preamboli, gli rivolsi la domanda cruciale.

«Ma tu possiedi», gli chiesi, «la Dote degli Alton?»

Lui alzò le spalle.

«Non ne ho la più pallida idea», rispose. «Non ho mai cercato di scoprirlo. Con tutto quello che è successo, mi hanno sempre fatto capire che sarebbe stata una grave insolenza da parte mia.»

Sentii un brivido. In quella frase era racchiusa tutta la sua vita: avrei dovuto immaginarlo. C'era la possibilità che quel giorno, invece di dargli la morte, gli dessi la piena condizione di Alton e di Comyn, e se lui pensava che il gioco valesse candela, non avevo diritto di oppormi. Mio padre aveva fatto la stessa scommessa con me, e l'aveva vinta. Abbassai la testa e cominciai a togliere dalla gemma lo strato isolante. Per fare quello che intendevo fare, occorreva una pietra matrice, e non potevo essere in fase con nessun'altra pietra, finché ero in fase con la matrice di Sharra.

«È una vera spada?» chiese Derik Elhalyn, accostandosi a noi.

Io annuii, ma afferrai l'elsa e la ruotai con forza. Si svitò e potei liberare la gemma incastonata sul pomo. Quando la toccai, sentii come una mano che mi serrasse il petto.

«La lama è quella di una spada», spiegai, «ma l'impugnatura serve anche per bloccare la matrice. Puoi guardarla senza pericolo, se vuoi.»

Così dicendo, gli porsi il pezzo che avevo svitato, ma lui si ritrasse istintivamente.

Vidi che gli altri Comyn si sforzavano di non sorridere. Sotto un certo aspetto, però, non era affatto divertente che Derik, prossimo Signore dei Comyn, fosse un fifone. Il vecchio Hastur, che intanto era venuto a guardare, si fece dare i due pezzi e li infilò l'uno nell'altro.

«Con il platino e gli zaffiri di questa impugnatura», disse, «si potrebbe comprare mezza città. Ma sono lieto che Lew non mi abbia passato la parte più pericolosa.»

Liberai dall'isolante la matrice, e sentii di nuovo il suo familiare tepore. Era una gemma di forma ovale, azzurra, con sottili pagliuzze dorate all'interno, e con qualche inclusione chiara, alla superficie, che pareva accendersi e spegnersi.

«Gli zaffiri dell'impugnatura», spiegai, «sono sensibilizzati, e ripetono lo schema di forze della matrice, per fare da secondo fuoco. La pietra ha sensibilizzato anche le mie reazioni nervose, e…»

M'interruppi. Che sorta di idiozia, di desiderio di punirmi con le mie mani, me l'aveva fatta riportare su Darkover? Stavo riaprendo volontariamente le porte dell'inferno che Kadarin aveva spalancato per me.

«Ma che cosa intendi fare, esattamente?» chiese Derik.

Cercai di trovare una spiegazione facilmente comprensibile.

«In tutti gli Hellers e qua e là per le Pianure», spiegai, «ci sono dei punti ancora “attivi”, come quello di cui vi parlavo, che è a una ventina di miglia dalla Città Nascosta. Sono stati caricati d'energia mentale — non saprei dire da quale dei precedenti possessori della matrice — per rispondere alle vibrazioni specifiche della dea Sharra. Quei punti si possono utilizzare per attingere alla forza di Sharra.»

Nessuno mi rivolse la domanda che temevo maggiormente: Che cos'è Sharra? Avrei dovuto rispondere che non lo sapevo. La tradizione dice che è la dea del fuoco, trasformatasi in diavolo. Io non volevo discutere la natura di Sharra. Io volevo soltanto tenermene lontano.

E quella era la sola cosa che non potevo fare.

Il Vecchio Hastur s'impietosì di me, e proseguì al posto mio.

«Una volta che un certo luogo è stato messo in risonanza con la matrice di Sharra, e con le forze che chiamiamo “Sharra” — come è stato fatto in passato in quei luoghi — vi rimane un residuo di energia mentale, e quel punto è facilmente riattivabile.

«Lew», proseguì, «ha tenuto con sé la matrice per tutti questi anni, nella speranza di poter trovare quei punti, mediante la loro risonanza con la matrice stessa che li ha attivati, e di togliere loro l'energia residua.

«Una volta scoperti e “scaricati” tutti i punti attivi, la matrice può essere tenuta sotto controllo da un normale schermo delle Torri oppure può essere disattivata e distrutta. Ma neppure un Alton riuscirebbe a fare quel tipo di lavoro senza un secondo centro. Non basta un solo corpo per sopportare una vibrazione così intensa.»

«E il secondo centro sono io, se sopravvivo», disse Marjus, con impazienza. «Possiamo procedere?»

Gli rivolsi un'occhiata, in fretta; poi, senza altri preliminari, entrai in contatto con la sua mente.

Non c'è modo di descrivere il primo impatto di un rapporto mentale. L'accelerazione di un jet alla partenza, un pugno al plesso solare, un tuffo nell'ossigeno liquido: potrebbero darne l'idea, se faceste tutt'e tre queste esperienze nello stesso tempo. Sentii che Marjus, sotto la scossa, si afflosciava letteralmente sulla sella, e che tutte le difese della sua mente si concentravano nel compito di allontanarmi. La mente umana non era fatta per quel genere di esperienze. Un istinto cieco gli faceva alzare quelle barriere; una mente normale sarebbe morta a causa del solo sforzo occorrente per offrire quel tipo di resistenza.

Tutto si riduceva a una semplice alternativa: se aveva ereditato la Dote degli Alton, sarebbe sopravvissuto, se non l'aveva ereditata, sarebbe morto.

Interiormente, io ero totalmente concentrato su Marjus, ma, esteriormente, ogni particolare dell'ambiente che mi circondava giungeva con grande precisione ai miei sensi, come se fosse inciso con l'acido; il sudore freddo che mi scorreva lungo la schiena, la pietà sul viso del vecchio Reggente, le facce dei presenti. Sentivo gemere Lerrys.

«Fermateli!» diceva. «Fateli smettere! Si stanno uccidendo tutt'e due!»

Per un istante, provai un dolore così grande che temetti di essermi messo a gridare. Sentii la tensione di un arco teso, piegato fino al punto in cui si sarebbe dovuto rompere, e poi ancora e ancora, finché anche la rottura e la morte sarebbero state un sollievo indescrivibile.

In quel momento, Regis Hastur scattò come una molla; prese dalle mani del Reggente l'impugnatura della spada, con le sue gemme accordate su Sharra, e la infilò a viva forza nella mano di Marjus. Sentii sparire ogni dolore dalla mente di mio fratello, sentii i suoi pensieri mettersi a fuoco, sovrapporsi e integrarsi. La trasformazione si allargò a tutto il cervello, come le onde circolari fatte da una pietra caduta in uno stagno. In breve, la sua mente fu ferma e salda, capace di resistere alla mia.

Un Alton! Nelle sue vene scorreva una parte di sangue terrestre, ma era un vero Alton, e mio fratello!

Il mio respiro di sollievo si trasformò quasi in un singhiozzo. Non c'era bisogno di parole, ma le dissi ugualmente.

«Tutto a posto, fratello?» chiesi.

«Certo», rispose, e abbassò gli occhi sull'impugnatura di spada che aveva in mano. «Dove diavolo ho preso questa cosa?»

Gli consegnai la matrice di Sharra, e contrassi i muscoli, in attesa della familiare sensazione di dolore; ma, quando Marjus la toccò, non sentii altro che l'abituale contatto telepatico. Tornai a respirare.

«Fatto», dissi. «Allora, Hastur?»

Il Reggente fece un inchino a Marjus, con grande serietà; un segno ufficiale di riconoscimento. Poi mi disse: «A te il comando».

Mi guardai attorno, osservando gli uomini a cavallo che ci accompagnavano.

«Alcuni dei punti attivati sono qui vicino», dissi, «e più presto li scaricheremo, più presto saremo al sicuro. Ma…»

M'interruppi. Tutto preso dall'orrore di quanto dovevo fare a mio fratello, non avevo pensato a chiedere una scorta. A quanto pareva, però, non era venuto in mente neppure agli altri. Oltre ai due Hastur, a Dyan, Derik e ai fratelli Ridenow, c'erano solo cinque o sei guardie.

«A volte», riflettei a voce alta, «gli uomini delle foreste si spingono così vicino alla Città Nascosta.»

«Non se ne sono più visti, dopo la campagna di Narr», disse Lerrys, con distacco.

Il suo pensiero, però, mi giunse chiaramente: Siete stati tu e i tuoi amici di Sharra a scatenarli contro di noi. Poi ve la siete squagliata, ed è toccato a noi combattere!

«Eppure…» Alzai gli occhi, verso gli alberi. Era sicuro allontanarsi così tanto, con così pochi uomini? Gli uomini delle foreste sono una razza intelligente originaria di Darkover, e alcune loro tribù, nelle valli più isolate, sono pacifici umanoidi che costruiscono i loro villaggi sugli alberi, e attaccano l'uomo soltanto se gli vedono accendere un fuoco. Ma quelli delle zone intorno ad Aldaran sono una razza mista, frutto di incroci risalenti all'Epoca del Caos — quando una scienza delle matrici, ormai dimenticata, permetteva quel genere di interventi che i terrestri chiamano “ingegneria genetica” — e sono pericolosi.

Alla fine mi strinsi nelle spalle.

«Se non avete paura voi», dissi, «allora non l'ho neanch'io.»

Dyan mi guardò e sorrise ironicamente.

«Tu e tuo fratello vi siete vantati di poter fare una cosa», disse. «Hai paura che qualcuno ti chieda di mantenere la promessa?»

Chiaramente, era indispettito dal fatto che Marjus fosse riuscito a resistere, sotto la mia mente, e non fosse morto.

Rivolsi a Marjus un'occhiata interrogativa, ed egli annuì. Tutti insieme, ci avviammo verso l'ombra sotto gli alberi.

Per ore cavalcammo in mezzo alla foresta, e per tutto il tempo continuai a concentrarmi sui punti di potere che riuscivo a percepire grazie alla matrice. Il mio corpo e la mia mente cominciavano a essere stanchi: non ero più abituato a quel prolungato sforzo mentale, e, per di più, non andavo a cavallo da quando avevo lasciato Darkover. Certa gente parla del potere della mente sulla materia, ma in realtà il rapporto è quello inverso. Una schiena indolenzita impedisce la concentrazione con la stessa efficacia di un attenuatore telepatico.

Il sole cominciava ormai a scendere verso l'orizzonte, quando mi accostai al Reggente.

«Ascolta», gli dissi, «siamo seguiti. Ero pronto a scommettere che nessuno sapesse che la matrice fosse in mano mia, ma qualcuno, evidentemente, doveva saperlo, e adesso si serve del potere dei punti attivi per rilevare la nostra posizione.»

Mi fissò con gravità.

«Non hai scoperto altro?» mi chiese.

«Non saprei…» risposi.

L'Hastur si girò verso Regis e gli rivolse un cenno. Il ragazzo si affiancò a noi.

«Siamo seguiti, Lew», confermò. «Ne avevo già l'impressione, ma adesso ne sono sicuro. Mi sono già scontrato con gli uomini delle foreste, negli anni passati.»

Alzai gli occhi per osservare i massicci rami che si incrociavano sopra di noi. Quei rami erano stati uniti tra loro dagli uomini delle foreste, in modo da formare un labirinto di passatoie aeree; tuttavia, così vicino alla città, mi ero aspettato che fossero inutilizzati da secoli.

«Non siamo in condizioni di affrontare uno scontro armato», disse il Reggente.

Guardò con preoccupazione Regis e Derik, e io — che avevo abbassato le barriere — gli lessi nella mente.

Tutto il potere dei Comyn è qui, in questo momento. Con un solo attacco, potrebbero spazzarci via. Perché ho permesso loro di venire, senza guardie? Poi, un altro pensiero che il Reggente non riuscì a nascondere: Che questi Alton ci conducano in una trappola?

Gli rivolsi un sorriso obliquo.

«Non hai tutti i torti a pensarlo», dissi. «Anche se non è così. Ma se qui attorno ci fosse qualcuno davvero in grado di usare il potere di Sharra — e io ne so usare una minima parte — sarei solo una pedina in mano sua. E potrei davvero condurvi in una trappola, senza volerlo.»

Il Reggente non mi rivolse altre domande. Si girò sulla sella.

«Torniamo indietro», disse.

«Che succede?» chiese Corus Ridenow. «Gli Alton hanno paura?»

Per sua disgrazia, in quel momento Marjus cavalcava accanto a lui. Si sporse sulla sella e lo schiaffeggiò con ira. Il Ridenow si tirò indietro; la mano gli corse al coltello che portava infilato nello stivale…

E in quel preciso istante accadde ciò che temevo!

Corus s'immobilizzò, come se fosse diventato una statua di pietra, con il coltello ancora sollevato. Nel silenzio, Marjus lanciò un grido spaventoso. Non avevo mai sentito un grido così straziante uscire da una gola umana. La piena potenza del Luogo di Potere ci investì entrambi. Dea o demonio, forza, macchina o spirito elementare che fosse, Sharra si era scatenata, ed era qualcosa di infernale. Udendo un secondo grido di protesta, non mi accorsi che veniva da me.

In quel momento si levarono attorno a noi gridi selvaggi, e da ogni parte vidi forme semiumane che scendevano dagli alberi. Qualcuno afferrò per la briglia il mio cavallo. E io capii chi avesse allestito la trappola.

L'uomo che vidi davanti a me, sulla strada, era alto e sottile; sotto un ciuffo di capelli chiarissimi si scorgeva una faccia affilata e scurita dagli elementi, due occhi color dell'acciaio che mi fissavano; era più vecchio, più pericoloso di quando l'avevo visto l'ultima volta.

Era Kadarin!

Il mio cavallo s'impennò; per poco non caddi sulla strada. Attorno a me era scoppiata la mischia: clangore di spade, nitriti di cavalli impauriti. Kadarin che gridava, nel dialetto gutturale usato con gli uomini delle foreste.

«Non toccate gli Alton! Li voglio io!»

Tirando la briglia del mio cavallo, faceva in modo da trovarsi sempre dietro l'animale, perché io non potessi colpirlo. Io mi piegai sul collo della bestia, e sentii uno sparo. Il proiettile mi passò accanto alla testa.

«Codardo!» gridai, e, con uno strattone alle redini, costrinsi l'animale a voltarsi bruscamente. L'urto scagliò a terra Kadarin, che dopo qualche istante tornò ad alzarsi; ma in quei pochi istanti ero smontato di sella e avevo preso la spada, per quel che poteva valere.

Un tempo, io sapevo usare bene le armi, e Kadarin era un pessimo schermidore, come gran parte dei terrestri. Portava una spada e la usava contro chi era ancor meno abile di lui, ma tutti facevano così, sulle montagne.

Però, io avevo imparato la scherma quando avevo due mani, e con me avevo solo la spada di Sharra, che era un po' troppo corta e leggera. Mentalmente, mi diedi dell'imbecille. Avevo fiutato il pericolo, l'aria ne era piena, e io non avevo preso con me neppure un'arma adatta!

Dietro di me, Marjus lottava contro uno degli uomini delle foreste: una creatura pelosa, coperta di stracci e con un lungo coltello. Il collegamento mentale tra noi mi faceva sentire tutti i colpi che si scambiavano, e io mi affrettai a interrompere il contatto; avevo già abbastanza guai con il mio duello. Parai all'ultimo istante un colpo di Kadarin.

La sua scherma, notai con sorpresa, era migliorata. In pochi istanti mi fece perdere l'equilibrio; non potevo attaccarlo, riuscivo solo a difendermi. Eppure, provavo anche una sorta di piacere, benché ansimassi e avessi già qualche piccola scalfittura; Kadarin era davanti a me, e questa volta non c'era nessuno — uomo o donna — a separarci.

Comunque, chi è costretto alla difensiva finisce prima o poi per perdere. Cercai di trovare un modo per compensare il mio svantaggio. L'unica debolezza di Kadarin era il suo carattere impulsivo. Se fossi riuscito a farlo andare in collera, per qualche minuto avrebbe perso la ragione e si sarebbe comportato come una bestia impazzita. E con la ragione avrebbe perso anche la sua abilità nella scherma. Non era un modo di lottare molto sportivo, ma io non ero in condizione di fare lo schizzinoso.

«Finalmente ti rivedo, figlio del Fiume!» gli gridai nel dialetto degli Hellers, che si presta a più sfumature, nell'insulto, di ogni altra lingua a me conosciuta. «Portatore di sandali! Non potrai più nasconderti dietro le gonne della tua sorellina, questa volta!»

Non ci fu alcun rallentamento nei suoi colpi di spada, non del tutto eleganti, ma assai minacciosi. Del resto, non avevo realmente sperato di ottenere un risultato immediato.

Ma, per una frazione di secondo, abbassò le barriere mentali.

E in quella frazione di secondo divenne mio prigioniero.

Con la mente bloccata dalla paralisi caratteristica della Dote degli Alton, anche i suoi muscoli si irrigidirono. Io gli tolsi la spada dalla mano e non badai alla battaglia che si svolgeva attorno a noi. Per me, su quella strada, in mezzo alla foresta, esistevamo soltanto Kadarin e io… e il mio odio. Entro pochi istanti lo avrei ucciso.

Ma attesi un momento di troppo. Ero già stanco per la lotta mentale con Marjus e per lo sforzo di seguire la risonanza del punto attivo. Per un attimo, la mia forza mentale vacillò, e Kadarin, che aspettava soltanto un momento di debolezza da parte mia, si liberò con un grido selvaggio. Era più pesante di me, e mi buttò a terra con un pugno; un attimo più tardi, ci fu un'esplosione, qualcosa mi colpì alla testa e io piombai nell'oscurità.

Dopo quella che mi parve un'eternità, scorsi davanti a me la faccia del Vecchio Hastur. Avevo un mal di testa così forte che persino lo sforzo di muovere gli occhi mi dava una fitta di dolore.

«Non muoverti, Lew», diceva il Reggente. «Ti ha sparato. Adesso sono fuggiti.»

Feci per alzarmi, ma gli altri mi tennero fermo. Avevo un occhio chiuso, ma con l'altro contai le facce che mi stavano attorno, all'ultima luce del tramonto. Lontano, sentii la voce di Lerrys, bassa e addolorata.

«Povero ragazzo», diceva.

Ero ferito e dolorante, ma c'era un dolore ancor più forte, un vuoto, una lacerazione che mi rendeva mortalmente solo.

Senza bisogno che me lo dicessero, ormai sapevo che Marjus era morto.

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