CAPITOLO 1 RITORNO A THENDARA

Volavamo più veloci della notte.

Quando la Croce del Sud era atterrata su Darkover, sul campo di atterraggio di New Chicago era ancora buio, e io, non appena sceso dall'astronave, mi ero subito imbarcato sull'aereo navetta che doveva portarmi a Thendara. Ora, volando verso la linea dell'alba, l'aria davanti all'aereo cominciava a rischiararsi alle prime luci dell'aurora.

Sotto i miei piedi, la fusoliera si inclinò: l'aereo aveva incontrato una corrente d'aria proveniente dagli Hellers. Dall'oblò vidi passare una successione di cime che uscivano dalla coltre di nubi; ma, quando cercai di individuare qualche vetta in particolare, rimasi deluso. Eravamo troppo in alto per riconoscerle.

Dopo sei anni in cui ero passato da un sistema solare all'altro, facevo ritorno a casa; ma non provavo nessun sentimento particolare, esattamente come quando ero sceso su uno qualsiasi degli altri pianeti da me visti…

Nessuna nostalgia di casa, nessuna agitazione, neppure il riaffiorare di qualche vecchio rancore, di qualche passato risentimento, benché fossero un mio diritto.

In realtà non avevo alcun desiderio di ritornare su Darkover, ma l'idea del ritorno mi era talmente indifferente che non avevo neppure fatto lo sforzo di protestare, quando mi era stato chiesto di rientrare sul pianeta.

Sei anni prima, avevo lasciato Darkover con l'intenzione di non farvi più ritorno. Poi, i disperati messaggi del Reggente mi avevano rincorso su tutti i pianeti che avevo visitato: dalla Terra a Samarra e a Vainwal.

Costava un occhio della testa trasmettere messaggi interspazio servendosi del sistema di ripetitori terrestre, e il Vecchio Hastur — il Reggente Comyn, signore dei Sette Regni — non aveva perso tempo in spiegazioni. Semplicemente, mi aveva dato un ordine. Ma non riuscivo a immaginare perché mi volessero indietro.

Quando me n'ero andato, mi erano sembrati felicissimi di liberarsi di me.

Presto, però, dovetti rinunciare a guardare il cielo sempre più chiaro che si scorgeva dal finestrino. Chiusi gli occhi e, con la mano buona, mi massaggiai la tempia, premendo forte.

Come sempre, prima del viaggio tra le stelle, avevo preso un forte sedativo, e adesso il medicinale iniettatomi dal medico dell'astronave cominciava a non avere più effetto. La stanchezza allentava le mie barriere, e un filo di pensieri, irritante come una puntura di spillo, prese ad arrivare fino a me.

Riuscivo a sentire con la mente le occhiate di straforo che mi lanciavano gli altri passeggeri, stupiti e incuriositi del mio aspetto. Si chiedevano la ragione della cicatrice sulla mia faccia, della mancanza di una mano (il mio braccio terminava poco dietro il polso e tenevo chiusa la manica mediante una spilla).

E soprattutto, guardando i miei capelli rossi, qualcuno si chiedeva chi ero, o meglio che cos'ero, con il sospetto che fossi un lettore della mente. Un fenomeno da baraccone. Un Alton, appartenente a una delle Sette Famiglie dei Comyn, l'autarchia ereditaria che dominava Darkover fin da prima dell'arrivo dei terrestri.

Eppure, non ero esattamente uno di loro. Come tutti sapevano — ogni bambino dei Comyn conosceva quella storia — mio padre Kennard Alton aveva fatto qualcosa di sconvolgente, quasi di riprovevole. Aveva sposato, con un onorevole matrimonio di catenas, una donna terrestre, appartenente all'odiato impero che dominava tutti i pianeti conosciuti.

L'aveva potuto fare, senza essere esiliato, soltanto perché apparteneva alla massima aristocrazia del pianeta. Nel Consiglio dei Comyn avevano bisogno di lui. Subito dopo il Vecchio Hastur, Kennard Alton era il più importante uomo di Darkover. Era perfino riuscito a farmi accettare come suo erede. Ma i Comyn avevano tirato un grosso respiro di sollievo, quando me n'ero andato dal pianeta.

E adesso mi avevano ordinato di ritornare a casa.

Seduti davanti a me, due terrestri con l'aria dello studioso — probabilmente due ricercatori del Servizio Antropologico, rientrati da un viaggio di studio — ingannavano il tempo del tragitto risuscitando l'annoso problema delle origini della vita sui vari pianeti in generale, e su Darkover e la Terra in particolare.

Non l'origine dell'uomo su Darkover, che per i terrestri non costituiva un problema: l'identità tra darkovani e terrestri era dovuta semplicemente al fatto che Darkover era stato colonizzato da un'antica astronave terrestre che aveva fatto naufragio. Nel corso delle generazioni, poi, i coloni avevano perso i contatti con la madrepatria, e s'erano dimenticati di quell'antico incidente.

Gli attuali darkovani amavano attribuire la loro origine agli amori del dio Hastur, Signóre della Luce; ma sulla Terra, fin dalla “riscoperta” del pianeta, era stata rintracciata la documentazione di quell'antico viaggio, e le prove erano inoppugnabili: perfino i cognomi dei naufraghi corrispondevano ai nomi di famiglia dei vari clan darkovani.

Comunque, studiando sulla Terra, avevo notato come l'origine della vita sui vari pianeti non fosse stata chiarita in modo soddisfacente. E adesso, come sempre, uno dei due terrestri sosteneva la tesi dell'evoluzione parallela, l'altro quella della super-razza inseminatrice.

Quest'ultima teoria non si basa su alcuna prova, e perciò, più che una “teoria”, è una semplice “ipotesi”, ma piace ai terrestri perché basa l'intero universo su una pianificazione e una centralizzazione — due idee per cui i terrestri vanno in sollucchero — e pressappoco si può riassumere così: su qualche pianeta (ancora sconosciuto), due o tre miliardi di anni fa è sorta una razza intelligente che ha colonizzato l'intera Galassia, spargendo nei vari pianeti molecole capaci di dare origine a forme viventi.

Su ciascun pianeta sarebbe stata sparsa una molecola diversa, perché era un esperimento. In seguito, l'antica razza si è evoluta in un modo che noi non possiamo immaginare, ma ha continuato a tenere d'occhio i suoi esperimenti di creazione della vita, intervenendo di tanto in tanto per correggere e indirizzare l'evoluzione.

Sono idee che risalgono ad ancor prima del volo spaziale e che da allora non sono cambiate, e non erano certo una novità, almeno per me, ma io cercai di concentrarmi mentalmente sulla conversazione dei due terrestri e di non badare alla curiosità di quanti mi circondavano. In mezzo a gente non abituata a schermare i propri pensieri — e il normale terrestre non li scherma mai — un telepatico si sente sempre a disagio, come se fosse in mezzo a una piazza dove tutti gridano.

Il dispersionista, quello convinto dell'origine artificiale della vita, tirava fuori tutte le vecchie “prove” (in gran parte, semplici leggende, e alquanto manipolate) dell'esistenza di antiche razze superiori all'uomo, mentre il parallelista citava le somiglianze tra le razze non umane dei vari pianeti, che in genere sono di forma vagamente umanoide, per dire che la vita sorge da sola e che tende sempre a dare una forma analoga a quella umana.

«Anche qui su Darkover», diceva, «benché sia difficile raccogliere le prove, su un pianeta così barbaro e arretrato, che non è mai progredito oltre la cultura feudale e che oggi stenta a resistere all'impatto del nostro Impero, le razze non umane…»

Avevo già sentito molte volte quei discorsi — “l'uomo è la forma di vita più alta, l'Impero Terrestre è la forma di governo perfetta” — e a dire il vero non vedevo molta differenza tra lui e il suo collega convinto della pianificazione universale, perché solo ai terrestri poteva venire in mente la strana idea che gli dèi fossero, in ultima analisi, dei pianificatori come i loro burocrati. Così, soffocando un moto di fastidio, me ne disinteressai.

I terrestri sono impareggiabili, nel vivere con i paraocchi. Era stupefacente, mi dissi, come quei due, anche dopo mesi e anni di permanenza sul pianeta, si rifiutassero di conoscere il punto di vista darkovano e pensassero sempre a Darkover come a un pianeta barbaro, arretrato, feudale.

Questo semplicemente perché noi darkovani mostriamo non dico resistenza, ma indifferenza di fronte alle armi e ai congegni meccanici che i terrestri, sui loro pianeti, usano a ogni piè sospinto. Perché preferiamo viaggiare a cavallo, sul nostro pianeta, anziché perdere tempo e denaro a costruire autostrade. E perché Darkover, rispettando l'antico Patto del Guardiano Varzil, che proibisce le armi che colpiscono a distanza, non vuole un ritorno all'epoca delle guerre e degli stermini compiuti con armi da vigliacchi.

La legge sancita dal Patto vale per tutto Darkover, da Thendara agli Hellers e alle Città Aride: chi vuole uccidere un'altra persona deve rischiare a sua volta la morte. Sulla Terra si ironizza sulla nostra “cultura del duello”, e sul sistema feudale di Darkover — non so dire le volte che ho dovuto ascoltare quel tipo di discorsi: ogni volta che il discorso cade su Darkover, all'incirca — ma qual è più civile: un mondo dove chi trasgredisce deve affrontare di persona l'uomo che ha offeso, spada contro spada, o uno dove puoi uccidere mille sconosciuti, vecchi, donne e bambini, standotene al sicuro nella tua cabina e limitandoti a schiacciare un bottone?

Darkover non è il solo pianeta che sia stato colonizzato durante la prima, caotica fase del volo interstellare e che poi abbia perso i contatti con la Terra, ma è l'unico che abbia mantenuto la sua identità, senza lasciarsi sopraffare dalle mille seduzioni dell'Impero Terrestre.

Sono stato su altri pianeti “riscoperti” e ho visto che cosa è successo laggiù, dopo che i terrestri vi sono arrivati con la proposta di farli entrare in una civiltà capace di viaggiare tra le stelle. Non conquistano i mondi con la forza e con le armi: i terrestri possono permettersi di attendere, perché sanno che la cultura originaria del pianeta, prima o poi, finirà per crollare sotto l'impatto.

A quel punto, il pianeta supplicherà di entrare nell'Impero, e nel giro di pochi decenni diventerà identico a tutti gli altri: una minuscola rotellina del vasto Impero, burocratico e ipercentralizzato, che divora tutti i mondi che incontra.

La cultura di Darkover, però, non era crollata.

Con la coda dell'occhio, vidi che un uomo, qualche posto più avanti, si alzava e veniva nella mia direzione; pensai che volesse spostarsi in fondo alla cabina, ma quando arrivò alla mia altezza si fermò e si sedette accanto a me. Senza chiedere, notai, se il posto era libero.

«Comyn?» chiese, con il tono di chi conosce già la risposta.

Lo guardai: era alto e magro, con i capelli tra il rosso e il biondo. Un darkovano dei monti del Nord. Intanto il suosguardo si soffermava, ai limiti della maleducazione, sulla mia cicatrice, sulla manica vuota.

Poi, evidentemente soddisfatto di quel che aveva visto, l'uomo annuì tra sé.

«Ne avevo l'impressione», disse. «Sei il ragazzo che è stato coinvolto in quella vecchia faccenda di Sharra.»

Involontariamente, arrossii. Avevo impiegato sei anni a scordarmi della rivolta di Sharra e di Marjorie Scott. Ne portavo le cicatrici sulla pelle, e le avrei portate per tutta la vita. Chi diavolo era, quell'uomo, per rinfacciarmi quelle antiche vicende?

«Anche se lo ero», risposi seccamente, «adesso è acqua passata. E non mi ricordo affatto di voi», aggiunsi, calcando sul voi, tanto per tenere le distanze. Forse era anche lui un Comyn, ma che si presentasse!

«E tu saresti un Alton!» mi disse, in tono ironico.

«Nonostante tutte le storie che si raccontano per far paura ai bambini», ribattei, nello stesso tono, «gli Alton non passano la giornata a leggere nella mente delle persone. Per prima cosa, è un'attività che stanca. Per seconda cosa, in genere la mente delle persone è piena d'immondizia. E per terza cosa», aggiunsi, «non ce n'è mai fregato niente, di quello che pensano gli altri.»

L'uomo scoppiò a ridere.

«Oh», disse, «non mi aspettavo che ti ricordassi di me. Quando ti ho visto l'ultima volta, eri sotto sedativo, e deliravi. Ho detto a tuo padre che ben difficilmente saresti riuscito a salvare la mano, e ora, con dispiacere, vedo che avevo ragione.»

Il “con dispiacere” era quel che un saggista definirebbe un artificio letterario. Non mi sembrava affatto dispiaciuto.

«Sono Dyan Ardais», si presentò.

Non appena udii il nome, mi parve di ricordarmi di lui: un signorotto degli Hellers, con il castello ai confini del mondo civile. Nonostante la comune appartenenza alle Sette Famiglie e certi vecchi matrimoni tra le due casate, negli ultimi tempi non c'era stata molta simpatia, tra gli Alton e gli Ardais.

«E viaggi da solo, giovane Alton?» proseguì l'uomo. «Dov'è tuo padre?»

«È morto su Vainwal», risposi, concisamente.

L'uomo abbassò la voce.

«Allora, ti do il benvenuto, Comyn Alton», disse.

Il titolo ufficiale con cui mi salutò mi colmò di stupore, perché non mi era mai venuto in mente, sugli altri pianeti, che adesso il capo della Famiglia ero io. Dovette notare la mia sorpresa, perché, per non mettermi in imbarazzo, tese il collo verso uno dei finestrini. Il cielo era ormai chiaro.

«Siamo quasi a Thendara», mi annunciò. «Vieni con me?»

«Grazie, ma dovrebbero essere venuti a prendermi», risposi. Non era vero, ma non volevo prolungare quell'incontro casuale.

Dyan Ardais, comunque, non parve offeso dal rifiuto.

«Allora, ci vedremo in Consiglio», disse, con mi cenno del capo.

Poi si alzò, con eleganza, e tornò a guardarmi con aria indifferente.

«E proteggi con attenzione», mi disse, «le tue proprietà, Comyn Alton. Ci sarà indubbiamente qualcuno che vorrà recuperare la matrice di Sharra.»

Mi girò le spalle e tornò al suo posto, mentre io mi lasciavo scivolare nella poltroncina, inorridito.

Maledizione! Doveva avermi letto nella mente mentre io mi baloccavo con le conversazioni dei due terrestri! Altrimenti, come aveva fatto a sapere? Quel sudicio montanaro, leggermi la mente di straforo! Ancora pieno di procalamina com'ero, doveva essere penetrato nelle mie barriere mentali senza che me ne accorgessi. Che uno dei Comyn potesse davvero abbassarsi a tanto?

Lo guardai con ira e feci per alzarmi, ma dovetti sedermi perché l'aereo cominciava la manovra di atterraggio. Lampeggiò l'insegna che invitava ad allacciarsi le cinture; meccanicamente chiusi la mia; ero agitatissimo.

Quell'uomo mi aveva costretto a ricordarmi del mio passato. Mi aveva obbligato a ricordare perché ero stato costretto a lasciare Darkover, sei anni prima, sfigurato, sconfitto e segnato per tutta la vita. Sentii di nuovo il dolore di ferite che, con il tempo e il silenzio, si erano quasi rimarginate. Inoltre, quell'uomo aveva pronunciato il nome di Sharra.

Ero un meticcio, un sangue misto, entrato a far parte dei Comyn soltanto perché mio padre non aveva figli darkovani, ed ero diventato una facile preda per i ribelli e i malcontenti che si erano riuniti sotto il vessillo di Sharra.

Sharra. La leggenda diceva che era una dea trasformatasi in un demonio. Veniva raffigurata come una giovane donna, legata da catene d'oro, e la sua immagine compariva quando la si evocava con il fuoco. In passato, la dea veniva adorata dal “popolo delle forge”, un gruppo di uomini che, agli albori della storia umana su Darkover, si erano rifugiati in una zona degli Hellers ricca di ferro ed erano sempre vissuti in relativo isolamento, scambiando armi e oggetti metallici con le merci delle Pianure.

Negli ultimi secoli, comunque, i Comyn avevano cercato di scalzare il culto di Sharra, per timore che il suo fuoco distruggesse le foreste e venisse usato come arma proibita. Io, però, avevo visto quei fuochi, e avevo usato i miei poteri per evocare da essi il potere di Sharra.

Al centro della ribellione c'erano gli Aldaran, la famiglia dei Comyn che, dopo essere stata esiliata all'epoca di Varzil perché non aveva voluto giurare obbedienza agli Hastur, aveva poi accolto le prime delegazioni terrestri. E io ero un lontano parente di Beltran, il signore di Aldaran.

Rividi, come in una sfilata implacabile, le facce che avevo cercato di dimenticare. L'uomo chiamato Kadarin, capo dei ribelli, che mi aveva convinto a unirmi ai seguaci di Sharra. E gli Scott: Zeb Scott, che aveva trovato la matrice Sharra, un antichissimo talismano risalente alle Epoche del Caos; e i suoi figli Rafe, che mi considerava il suo eroe e mi seguiva dovunque; Thyra, con la faccia da bambina e gli occhi di una bestia selvatica; e Marjorie…

Marjorie. Mi parve di perdere il senso del tempo. Rividi la ragazza dai capelli castani e dagli occhi color dell'ambra con minuscole pagliuzze dorate, che correva con me, sullo sfondo del chiarore dei fuochi. Ripensai a Marjorie che, ridendo, percorreva le strade di una città ridotta a un mucchio di rovine, e ricordai che aveva in mano una ghirlanda di fiori.

Allontanai bruscamente da me quei ricordi. Era inutile ripensare a quei tempi. Il ronzio dei motori salì bruscamente di volume, quando invertirono la spinta per rallentare; dal finestrino vidi le basse torri di Thendara, illuminate dalla rossa luce dell'alba. Tutta la città era una vasta macchia chiara in mezzo al verde del territorio coperto di pascoli e foreste.

Continuammo a scendere e vidi il riflesso della luce sui laghetti, che splendevano come specchi; poi passò davanti ai miei occhi il grattacielo che ospitava il quartier generale terrestre, e le violente luci dell'aeroporto mi colpirono gli occhi.

L'aereo toccò terra con un sobbalzo e infine si fermò. Io, con impazienza, mi liberai della cintura di sicurezza e mi feci avanti per cercare Dyan.

Ma era già sceso dall'aereo, e si era confuso in mezzo ai viaggiatori che andavano e venivano in tutte le direzioni. Mi avviai verso la stazione e, mentre mi facevo strada per arrivare alla porta, urtai involontariamente contro una ragazza minuta, che indossava un vestito chiaro.

La ragazza inciampò, e io la aiutai a rialzarsi, scusandomi di averla urtata.

«Perdonatemi», le dissi, in terrestre standard. «Non sono più abituato a queste resse e non guardavo dove andavo…»

Poi, finalmente, potei vederla in faccia e rimasi a bocca aperta per la sorpresa.

«Linnell!» esclamai allegramente. «Che fortuna incontrarti qui!»

L'afferrai goffamente e la abbracciai.

«Sei venuta a prendermi?» le chiesi. «Come sei cresciuta, cuginetta!»

«Vi chiedo scusa», mi rispose la ragazza, in tono raggelante.

Con sorpresa, capii di avere commesso un errore di persona e mi affrettai a lasciarla. Aveva parlato in darkovano, ma nessuna ragazza del pianeta aveva mai parlato con un accento come il suo. La fissai a bocca aperta.

«Mi dispiace», dissi infine, confuso. «Credevo che foste…»

Non riuscivo a staccare gli occhi da lei. Era una ragazza alta, bionda, con un viso delicato a forma di cuore, capelli castani e occhi grigi e gentili… che però non erano affatto gentili, adesso. Anzi, erano incolleriti e mandavano fiamme.

«Allora?» chiese.

«Scusatemi», ripetei umilmente. «Vi avevo preso per una delle mie cugine…»

Lei si strinse nelle spalle, mormorò qualche parola che non potei udire e si allontanò. Io la seguii con lo sguardo, a occhi sgranati.

La somiglianza era fantastica. Non si trattava soltanto di una somiglianza superficiale di altezza e di colore dei capelli: quella ragazza era la copia esatta di mia cugina Linnell Aillard. Anche la sua voce era identica.

Poi sentii una mano sulla spalla e un'altra ragazza si rivolse a me, in tono divertito.

«Vergogna, Lew!» mi disse. «La povera Linnell doveva essere proprio imbarazzata. Mi è passata davanti senza dire una sola parola. Sei stato via per così tanto tempo da esserti dimenticato delle buone maniere?»

«Diana Ridenow!» esclamai, piacevolmente sorpreso.

La ragazza che mi stava accanto era minuta e aveva un'aria impertinente, lunghi capelli biondi che le arrivavano fino alle spalle e occhi grigi che mi fissavano divertiti.

«Pensavo che fossi ancora su Vainwal», le dissi.

«Se quando mi hai detto addio, lassù», ironizzò lei, «pensavi che sarei rimasta su Vainwal a piangere, allora sei proprio un illuso! Non mi conosci bene! I viaggi spaziali sono aperti a tutti, uomini e donne, Lew Alton, e anch'io ho un posto che mi attende al Consiglio dei Comyn, quando avrò voglia di andarci. Perché rimanere lassù a dormire da sola?»

Rise.

«Oh, Lew!» disse poi, guardandomi. «Dovresti vederti in faccia! Che cosa ti è successo?»

«Non era Linnell», risposi io, e fu la volta di Diana di rimanere a bocca aperta.

«Se non era Linnell, chi poteva essere?» si chiese a voce alta, e si guardò attorno.

La ragazza che assomigliava a Linnell, però, era ormai scomparsa tra la folla.

«E dove hai messo mio zio?» chiese Diana, tornando a sorridere. «Non dirmi che hai di nuovo litigato con tuo padre, Lew!»

«No», risposi io, in tono sgarbato. «È morto prima che lasciassi Vainwal.»

Possibile che nessuno lo sapesse, su tutto il maledetto pianeta?

«Altrimenti, pensi che sarei ritornato qui?» aggiunsi.

Dal viso di Diana svanì ogni velleità di ridere.

«Oh, Lew!» esclamò. «Quanto mi dispiace! Non lo sapevo!»

Fece per prendermi sottobraccio, ma io mi scostai. Diana era una sorta di esplosivo ad alto potenziale, quando eravamo insieme. E finché eravamo su Vainwal, niente da dire: lassù, la cosa mi andava benissimo. Ma sapevo, anche se forse lei non se ne rendeva conto, che sarebbe bastato poco perché la passione tornasse ad accendersi tra noi, e io avevo già troppe preoccupazioni; non desideravo cacciarmi in nuovi guai a causa di donne.

Non mi ero ricordato di schermare i miei pensieri. Tra lettori della mente, la buona educazione imponeva di non prestare (o di fingere di non prestare) attenzione a quel tipo di pensieri “marginali”, sfuggiti dalla mente di una persona e captati per caso da un'altra, ma il controllo di Diana, evidentemente, non era abbastanza forte: la ragazza non poté fare a menò di reagire, e la faccia le divenne rossa per l'imbarazzo. Accortasi di essere arrossita, si morse il labbro per la vergogna, si girò di scatto e corse via.

«Diana!» gridai dietro di lei, per scusarmi, ma in quel momento sentii gridare il mio nome.

«Lew! Lew Alton!»

Fu quello il mio primo errore. Invece di correre dietro alla ragazza, rimasi fermo dov'ero. Non chiedetemene la ragione.

Intanto, mi sentii chiamare una seconda volta.

«Lew Alton!»

Un momento dopo, un ragazzo alto, vestito da terrestre, mi raggiunse e mi sorrise.

«Bentornato, Lew!» mi disse.

E io non capii chi fosse. Non sarei riuscito a dirlo neppure se ne fosse andata di mezzo la mia vita.

Comunque, aveva qualcosa di familiare, e mi aveva riconosciuto. Ma io lo guardai con sospetto, perché ormai dubitavo di tutti. Non per niente, pochi istanti prima, avevo creduto di riconoscere Linnell, e mi ero clamorosamente sbagliato…

Il ragazzo, però, rise con divertimento.

«Non mi riconosci più?» mi chiese.

«Sono stato via per troppi anni, e ormai non sono più sicuro di saper riconoscere gli amici», ammisi.

Cercai un contatto mentale, ma avevo ancora il cervello offuscato dalla droga e riuscivo soltanto a percepire un vago senso di parentela. Scossi la testa per schiarirmela e lo guardai. Doveva essere un bambino, quando avevo lasciato Darkover; adesso era alto, ma era ancora molto giovane: probabilmente non si faceva ancora la barba. Però…

«Per tutti gli inferni di Zandru!» esclamai. «Non puoi essere Marjus!»

«Davvero non posso esserlo?» rispose lui.

Stentavo a crederlo. Mio fratello Marjus, che con la sua nascita aveva causato la morte della nostra madre terrestre… possibile che mi fossi scordato di mio fratello?

Mi sorrideva timidamente, e io mi tranquillizzai.

«Scusa, Marjus», dissi. «Ma eri tanto giovane, e sei così cambiato…»

«Possiamo parlare più tardi», si affrettò a dire. «Devi ancora passare la dogana e svolgere le altre formalità, ma volevo salutarti subito. Che hai, Lew? Hai un'aria strana. Stai male?»

Per qualche momento mi appoggiai al suo braccio, finché non mi fu passato il giramento di testa.

«Colpa della procalamina», dissi, e nel vedere la sua espressione perplessa, spiegai: «Te ne fanno un'iniezione, sull'astronave, per superare lo stress dell'assenza di gravità. Occorrono alcune ore perché l'effetto scompaia, e io sono un po' allergico a quella droga.»

Notai che mi guardava di sguincio, cercando di non farsi notare, e aggrottai la fronte.

«Ho davvero un aspetto così brutto?» chiesi. «D'accordo, non mi avevi più visto, dopo che avevo perso la mano e mi ero rovinato la faccia. Bene, dammi una buona occhiata.»

Distolse lo sguardo dalla mia faccia, e io gli strinsi il braccio.

«Non m'importa, anche se mi fissi», gli dissi, più gentilmente, «ma non voglio che tu mi guardi di straforo quando pensi che non me ne accorga, perché me ne accorgo sempre. Chiaro?»

Sorrise e mi osservò con franchezza per alcuni istanti, poi sorrise.

«Non sei bello, ma non eri una grande bellezza neppure prima, se ricordo bene. Andiamo?»

Diedi un'occhiata attorno, osservai il grattacielo del quartier generale e gli alti edifici della Città Commerciale per vedere se notassi qualche cambiamento. Dietro le costruzioni dei terrestri s'innalzava il profilo seghettato delle montagne e, alta al di sopra della pianura, si scorgeva la grande macchia chiara del Castello dei Comyn, con accanto il bianco cilindro della Torre.

«I Comyn si sono già riuniti a Thendara?» chiesi.

Marjus scosse la testa. Non riuscivo ancora ad abituarmi all'idea che fosse mio fratello. Non mi sembrava del tutto a posto.

«No», rispose. «Si riuniscono… ci riuniamo nella Città Nascosta. Lew, hai portato una pistola dalla Terra?»

«Diavolo, no», risposi. «Che me ne faccio di una pistola? E poi si può farle entrare solamente di contrabbando.»

«Allora non sei armato?»

Scossi la testa.

«No», spiegai. «Sulla maggior parte dei pianeti dell'Impero non si possono portare armi, e ho perso l'abitudine. Perché me lo chiedi?»

Marjus aggrottò la fronte.

«Sono riuscito a procurarmene una, l'anno scorso», disse. «L'ho pagata il quadruplo del suo prezzo, e porta il marchio del contrabbando. Pensavo che… ehi, ma non è il tuo nome, quello che stanno chiamando?»

Lo era davvero. Mi avviai verso i banchi della dogana passeggeri, seguito a poca distanza da Marjus. Lui scosse la testa al funzionario che gli rivolgeva un'occhiata interrogativa, indicò me e oltrepassò il cancello. Il mio bagaglio era sul nastro convogliatore, davanti al doganiere. L'uomo mi guardò senza molto interesse.

«Lewis Alton-Kennard-Montray?» mi chiese. «Atterrato a Port Chicago sulla Croce del Sud? Tecnico delle matrici?»

Gli rivolsi un cenno affermativo e prelevai di tasca il tesserino di plastica che mi qualificava come tecnico delle matrici autorizzato dalle autorità portuali di Thendara a svolgere quell'attività entro la Città Commerciale.

«Dobbiamo controllare negli archivi», disse il funzionario, ritirandolo, «e aggiornare l'autorizzazione. Occorreranno almeno due ore. Ritirerete il tesserino direttamente dal Legato.»

Prese un modulo prestampato e cominciò a leggere.

«“Affermate solennemente che, per quanto possa essere a vostra conoscenza, non avete tra le vostre proprietà armi a energia o a propulsione, disintegratori e fulminatori, isotopi atomici, farmaci narcotici, sostanze tossiche o incendiarie?”»

Misi la croce sul quadratino del “no” e firmai il modulo. L'uomo passò il mio bagaglio sotto il fluoroscopio: come prevedevo, lo schermo non s'illuminò.

Tutto il materiale citato sul modulo era di fabbricazione imperiale: in base agli accordi con cui gli Hastur avevano concesso ai terrestri l'area su cui sorgeva lo spazioporto, i terrestri si erano impegnati a non lasciar entrare nel pianeta quel genere di materiale, e comunque a non portarlo all'esterno della Città Commerciale. Su quel materiale, che sul nostro pianeta è di contrabbando, prima di poter circolare nella Città Commerciale viene stampigliato un micro-codice indelebile, con innocui inchiostri magnetici, che fa scattare le spie poste alle uscite dalla Città.

Attualmente lo spazioporto era spostato in una zona disabitata di Darkover e le piste di Thendara erano riservate agli aerei navetta. Comunque, gli aerei e il nuovo spazioporto godevano dello stesso stato di extraterritorialità ed erano a tutti gli effetti suolo imperiale.

«Qualcosa da dichiarare?» chiese intanto il doganiere.

«Un paio di binocoli di fabbricazione terrestre, una macchina fotografica terrestre e mezza bottiglia di firi acquistata a Vainwal», riferii.

«Fate vedere.»

Gli aprii la valigia e qualche istante più tardi, quando l'uomo cominciò a controllare il contenuto, non potei fare a meno di irrigidirmi. Era giunto il momento da me temuto.

Avrei dovuto cercare di corromperlo. Ma avrei corso il rischio — se si trattava di un uomo onesto — di prendere una multa e di finire sulla lista nera. Non potevo permettermelo.

Il doganiere passò sotto il suo apparecchio le scatole della macchina fotografica e dei binocoli. Gli strumenti ottici di fabbricazione terrestre sono oggetti di lusso e in genere sono fortemente tassati.

«La tassa d'importazione è di dieci reis», disse l'uomo, sollevando gli abiti contenuti nella valigia. «Se il firi è meno di dieci once, è in franchigia. Che cos'è questo?»

Quando la sua mano la toccò, penso di essermi morso la lingua. Mi parve che una mano mi afferrasse il cuore e me lo stringesse.

«Non toccatela!» esclamai, con un nodo alla gola.

«Che diavolo…?» mormorò l'uomo, estraendo l'oggetto. Fu come se avesse preso un chiodo e me l'avesse passato su un nervo scoperto. Srotolò il tessuto in cui era avvolto. «Armi di contrabbando, eh? Credevate di… maledizione, è una spada

Non riuscivo a respirare. La grossa gemma azzurra incastonata nel pomo pareva brillare solo per me, e la mano del doganiere, sopra di essa, mi dava un dolore insopportabile.

«È… un'eredità di famiglia», mormorai.

Mi guardò con stupore.

«Be', non la stavo mica rovinando. Volevo soltanto controllare che non ci fosse un lanciaraggi di contrabbando, o qualcosa del genere.»

La avvolse nuovamente nel suo tessuto di seta, e io ripresi a respirare. Sollevò la bottìglia di costoso cognac di Vainwal e ne valutò il contenuto, a occhio.

«Sette once», disse. «Firmi una dichiarazione che lo importa per consumo personale e non per rivenderlo, e non pagherà tassa.»

Firmai anche il nuovo modulo. Il doganiere chiuse la valigia e io mi allontanai con il mio bagaglio.

Il primo ostacolo era stato superato, senza troppe difficoltà. Questa volta.

Raggiunsi Marjus e insieme prendemmo una vettura.

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