CAPITOLO IX

Forzon, fingendo il passo incerto e abbattuto del proscritto, s’incamminò barcollando per le strade ombrose. Non provava alcuna difficoltà ad adottare il giusto portamento: si sentiva realmente incerto e abbattuto. I pedoni gli voltavano le spalle, i carri si fermavano e si facevano oltrepassare. Perfino i bambini correvano a nascondersi, sebbene i più coraggiosi si attardassero sulle soglie per osservarlo di soppiatto.

Ann Cory, di nuovo nelle vesti di una vecchia megera, gli zoppicava davanti per insegnargli la strada. Di tanto in tanto egli intravide un profilo conosciuto. Sev Rawner attraversò la strada ballonzolando; Joe Sornel, da grasso mescitore diventato bottegaio magro, in piedi sulla soglia del suo negozio; Hance Ultman, seduto, con gli occhi bassi, in un carro fermo. Ogni agente disponibile era stato mobilitato perché Forzon arrivasse senza intoppi fuori città; ma egli alzava gli occhi solo per seguire le svolte di Ann e ne vide solo pochi.

Arrivato alla porta della città una guardia gli si fece incontro, ma, notando la manica vuota che oscillava, voltò i tacchi con disprezzo. Forzon varcò la porta e si avviò passo passo sulla strada polverosa che portava verso il sud.

Poneva metodicamente un piede davanti all’altro e manteneva gli occhi fissi nella polvere. Non incontrò nessuno. Il traffico usciva di strada e aspettava che egli fosse passato. Quelli che lo raggiungevano deviavano nei campi, e non si voltavano poi a guardarlo.

Nel tepore carezzevole del tardo pomeriggio, la sua uniforme scarlatta si inzuppò di sudore e prese subito una patina grigia di polvere. L’inerzia forzata del suo braccio sinistro gli dava tremendamente fastidio e la testa rasata gli prudeva continuamente. Per minori che fossero queste distrazioni, egli imprecava perché gli impedivano di concentrarsi.

Aveva molte cose cui pensare.

I villaggi dei monchi erano delle minuscole, isolate società umane, così efficacemente staccate dalla vita del Kurr che la Squadra B non vi aveva mai trovato nulla d’interessante, né vi aveva svolto indagini sistematiche. Sebbene gli agenti ERI compilassero scrupolosamente i loro rapporti con tutte le informazioni di cui venivano per caso in possesso, non sapevano quasi nulla sulla vita delle moncopoli. La Squadra B avrebbe tenuto d’occhio Forzon finché questi non avesse raggiunto la sua destinazione; ma una volta arrivato, sarebbe rimasto solo con se stesso, in una società totalmente estranea, e con una taglia sul suo capo.

Con sua grande sorpresa si avvide che ciò non lo preoccupava. Si rodeva solo per la stupidità con la quale si era lasciato manovrare, impegnandosi a risolvere il problema del Kurr. Certo, questo era il suo compito; ma aveva cercato di ignorarlo, basandosi sull’assunzione ragionevole che la responsabilità di un funzionario della Sovrintendenza Culturale è limitata agli argomenti che riguardano la cultura. L’ERI la pensava diversamente. Dopo quattro secoli di competentissime balordaggini, l’Ente era pronto ad aggrapparsi ai fuscelli più strampalati e, per il momento, il fuscello era rappresentato dall’Intendente di settore SC, Jef Forzon.

Bisognava convertire Kurr alla democrazia senza visibile ingerenza estranea, e molto presto, prima che le macchinazioni di Rastadt prendessero forma e che il Comando Supremo intervenisse a imporre il ritiro della Squadra B. Questo era il compito di Forzon. Lo aveva accettato, si era impegnato.

«Approntate i piani» gli aveva detto Leblanc alla partenza, «e appena saremo riorganizzati, ci metteremo all’opera.»

L’unica cosa di cui Forzon veramente s’intendesse era di cultura. Ma come si poteva incitare un popolo alla rivolta su questioni di cultura? La pittura? Un governatore che aveva posto una tassa sui quadri era stato subito spedito in una moncopoli. La musica? Ovviamente i Kurriani erano un popolo intensamente musicale. Erano appassionati di musica, cantavano magnificamente, fornivano esecutori splendidi, ma… la rivoluzione è un’altra cosa.

La poesia kurriana appariva stilizzata e sclerotica. Era l’inevitabile risultato di un sistema ereditario per cui solo il figlio di un poeta poteva diventare poeta a sua volta. Eppure lo stesso rigido sistema non impediva ai pittori di produrre un’arte sempre fresca e vigorosa, I musicisti kurriani, anch’essi avevano raggiunto cime straordinarie sia nell’espressione creativa sia nel virtuosismo. Invece, gli unici poemi che aveva udito declamare inneggiavano banalmente alla bellezza della natura o alla nobiltà e alla saggezza del re. Sarebbe stato in grado Forzon di convincere un poeta a comporre versi satirici ad elogio delle malefatte del re? Probabilmente no, e l’esilio istantaneo in una moncopoli del primo che l’avesse tentato avrebbe scoraggiato tutti gli altri.

«Ciò che devo fare» pensò disgustato «è solo questo: infondere la necessità di una rivoluzione sotto una forma di espressione semplice, che il popolo possa adottare spontaneamente. Le arti formali sono da scartare. I loro cultori hanno le mani legate dalla rigidità degli ordini chiusi e delle tradizioni ereditarie; inoltre, sono troppo vulnerabili. Occorre che l’espressione sia così diffusa che nessun individuo singolo sia ritenuto responsabile e quindi punito per questo, oppure che i responsabili siano in posizione tale da garantire loro l’impunità. Nessuna di queste circostanze esiste presentemente.»

Le canzoni, forse. Una canzone che diventa popolare può causare più danno di una dozzina di tasse ingiuste; ma non vedeva come si potessero fare delle canzoni che tutti avessero voglia di cantare. Nessun Kurriano avrebbe osato scriverle e Forzon dubitava di poterlo fare egli stesso. Simile compito richiedeva la sicura conoscenza degli idiomi musicali e poetici dei Kurriani, e una penetrazione psicologica del carattere di quel popolo. Non possedeva né l’una né l’altra.

Frugava febbrilmente nella sua immaginazione. Una caricatura che raffigurasse il re nell’atto di tranciare un braccio? Doveva essere eseguita in modo superbo per competere, a livello artistico, con i dipinti che si vedevano dappertutto. Inoltre, per ottenere un numero sufficiente di riproduzioni si doveva ricorrere alla produzione di massa. La Regola dell’Uno. Maledizione!

Un’improvvisa sensazione di pericolo indusse Forzon a fermarsi. Un carro gli si avvicinava da dietro; a differenza degli altri carri non era uscito di strada per schivarlo.

Forzon non osò guardare indietro. Continuò a camminare, affrettando il passo, allungando la falcata. Il cigolio del carro cresceva con ritmo costante e finalmente gli fu vicino. L’orribile esg lo sorpassò e lo guardò sbuffando mentre il carro continuava ad avanzare. Forzon si mise in disparte e a quel momento il carro si fermò.

Egli si voltò lentamente. Era un tipico carro kurriano, a due ruote e con la cassetta fatta di assi unite da caviglie di legno. Il conducente era seduto davanti, su un’asse posta per traverso, con le redini strette nella mano destra, con gli occhi fissi sulla strada.

Nel carro vi era un solo oggetto, stupendamente intagliato, lucidato e intarsiato d’oro. Un torril. Forzon fece passare uno sguardo spento dal torril alla manica sinistra, vuota, del conducente che palpitava miserevolmente nella brezza leggera.

Aiutandosi goffamente con la mano destra, Forzon si arrampicò sul carro. Tor, che la sera avanti era ancora un grande musicista, ed ora solo un povero reietto, agitò le redini e l’esg riprese la marcia.


Viaggiarono per tre notti e tre giorni. Di notte scendevano a turno per guidare l’esg con una torcia accesa. Uno camminava in testa al carro, l’altro si assopiva. Camminarono fino al momento in cui l’animale esausto rifiutò di andare avanti e si addormentò nei suoi finimenti. Forzon fece più della sua parte come conducente e come porta fiaccola. Tor trascorreva le sue ore di veglia torturato dal dolore. Non si lamentava; ma il suo viso atrocemente pallido, la sua posa rannicchiata, i denti stretti, tradivano la sua indescrivibile sofferenza. Nel sonno febbrile gemeva e si lagnava di continuo.

Quando avevano bisogno di bere e di mangiare, qualcuno provvedeva. Bastava fermarsi presso una fattoria o nella strada di un villaggio e dopo un po’ qualcuno gettava un cestino o una borraccia nel carro e scappava. Per tutta la durata del lungo percorso nessuno rivolse loro la parola, e fra di loro non si parlarono.

Al pomeriggio del quarto giorno, passarono in prossimità di una delle numerose guarnigioni reali. Quei grandi edifici di pietra, che parevano fuori luogo in quella cornice rurale, erano situati lungo le strade principali, a un giorno di viaggio l’uno dall’altro. Tutte le sentinelle che avevano finora incontrato voltavano le spalle, ma questa, quando notò le maniche vuote, scese sulla strada e puntò l’indice. Essi uscirono dalla strada polverosa e imboccarono un sentiero serpeggiante, appena tracciato, che si inoltrava nelle colline.

All’imbrunire arrivarono in vista di un villaggio da presepe, annidato in una valle profonda. Gli animali pascolavano sulle colline adiacenti e il fondo piatto della valle era tutto coltivato a giardini e a campi di grano. Gli edifici, contrariamente a quelli degli altri villaggi rurali, erano fatti di pietre tagliate, e le loro facciate bianche brillavano perfino nell’ombra della valle. Crescevano i fiori da ogni lato della strada e nei sentieri. Il paesaggio era delizioso e Forzon lo guardò con orrore.

Com’era grande, il villaggio!

E solo in seguito ricordò che questo era solo uno fra tanti.

Di fronte a loro, lontano, sul fianco della collina, sorgeva una fila di caseggiati, che dominava il villaggio. Un altro edificio solitario si alzava proprio davanti a loro, nel punto dove il sentiero erboso discendeva verso la valle. Tor fermò il carro lì vicino ed attese. L’esg cominciò a scalpitare e a soffiare con impazienza.

Finalmente apparve un uomo, e mentre essi sedevano con gli occhi bassi, li esaminò ben bene, poi mormorò con disgusto: «Un musicista e un cameriere…» e fece cenno di proseguire. Solo quando l’uomo si voltò Forzon osò guardarlo direttamente. L’aveva visto solo con la coda dell’occhio, ma non si era sbagliato: non era un monco.

Quando si avvicinavano al villaggio, un vecchio venne loro incontro zoppicando, un monco, li salutò silenziosamente con un cenno del capo e li guidò attraverso le strade del villaggio. Si fermarono all’estremità opposta del paese, presso un edificio nuovo vicino al quale se ne costruiva un altro. Il villaggio s’ingrandiva.

Scesero dal carro. La costruzione era d’aspetto tipicamente kurriano, ma aveva una lunga fila di porte che davano sulla strada. La loro guida aprì una di quelle porte e fece un cenno con la mano. Forzon entrò in una piccola stanza contenente un pagliericcio, una sedia e un tavolo col suo corredo di ciotole per bere e per mangiare, in legno scolpito a mano.

Il vecchio aprì bocca per la prima volta: «Il tuo braccio ha bisogno di cure? Abbiamo un dottore.»

«No, non ho bisogno di nulla» disse Forzon.

«Sei fortunato. Generalmente un braccio non si rimargina con tanta facilità.»

Forzon convenne di essere fortunato.

I governatori del villaggio, proseguì il vecchio, desideravano salutarlo appena si sentisse in grado di riceverli. Forzon meditò gravemente e rispose che li avrebbe volentieri ricevuti in qualsiasi momento desiderassero visitarlo. Il vecchio lo ringraziò e andò alla porta vicina per parlare con Tor e qualche ora dopo una delegazione degli anziani del villaggio, venne a porgergli il benvenuto ufficiale del paese.

Gli dissero, quasi scusandosi, che un cameriere, anche se di corte, non poteva trovare analoga occupazione in una moncopoli. Però molti mestieri erano adatti a tutti. C’era sempre bisogno di uomini per trasportare i materiali occorrenti ai muratori che costruivano nuove case. Chi coltivava i campi o badava alle greggi era lieto di avere un aiuto. Alcuni artigiani l’avrebbero preso quale apprendista, perfino gli artisti accettavano qualche volta un aiutante per i piccoli lavori, sebbene fossero costretti per giuramento a non rivelare ad estranei i segreti della loro arte. Se Forzon lo voleva, poteva lavorare in qualsiasi tipo di impiego che gli si offriva; ma, se lo preferiva, poteva anche non fare nulla. Nessuno avrebbe mai interferito nella sua vita e l’unica legge del villaggio voleva che neanche lui interferisse nella vita degli altri.

Il grande re, nella sua nobile generosità, provvedeva a fornire al villaggio tutto ciò che gli mancava. L’eccedente dei raccolti e delle greggi, e tutto ciò che gli artigiani fabbricavano e di cui il villaggio non aveva bisogno, veniva venduto al re, e parte di questo denaro tornava al villaggio che poteva impiegarlo in acquisti collettivi di beni voluttuari.

Quella vita, gli dissero i governatori, parlando lentamente come per convincersi essi stessi, era molto piacevole. E sebbene Forzon fosse libero di vivere nell’ozio, ritenevano che sarebbe stato più felice dedicandosi a un lavoro.

Forzon li ringraziò dei loro consigli. Nella stanza accanto, il dottore stava medicando Tor, e i visitatori parevano altrettanto desiderosi di sfuggire a quelle grida di tortura e a quei singhiozzi, quanto Forzon di vederli andare. Rapidamente gli descrissero i regolamenti del villaggio e si congedarono.

Seguendo le loro istruzioni Forzon cominciò per farsi assegnare un corredo di vestiario. Lo esaminò con molta trepidazione. Per fortuna le giacche, che erano abbondanti, avrebbero nascosto il braccio e difeso il suo travestimento. Ma gli abiti dimostravano che il grande re era forse generoso, ma non era certamente prodigo del tessuto regio: ogni manica sinistra era dimezzata.

Presso la cucina collettiva, al centro del villaggio, una donna monca riempì silenziosamente le ciotole di Forzon. Egli le riportò a casa e mangiò lentamente il suo pasto meditando sulla saggezza della Squadra B che lo aveva mandato in quel luogo.

La legge di non interferenza prometteva bene, dal punto di vista della sua sicurezza, e il diritto all’ozio gli garantiva il tempo necessario a elaborare un piano per Kurr. C’era solo da vedere se, in questo villaggio di sepolti vivi, sarebbe riuscito a concepire un piano che fosse valido anche fra i vivi.


Gli edifici posti sulla parte alta della collina erano dei dormitori e da questi, ogni mattina, usciva una lunga processione di donne monche addette alle cucine, Due volte al giorno preparavano il cibo che gli uomini venivano a prendere e si portavano nei loro alloggi per mangiare. Non pareva vi fossero contatti sociali fra donne e uomini, e pochissimi fra gli uomini. Gli artigiani lavoravano in coppia, se il lavoro richiedeva due mani. Ma le loro conversazioni si limitavano a brevi ordini, a una domanda borbottata e uno sguardo di risposta. Era un villaggio intensamente silenzioso.

Era la confraternita dei senza nome. I nomi appartenevano al passato, e il passato dei coabitanti era accuratamente sepolto nella loro memoria.

Forzon avrebbe voluto mettersi a lavorare subito; d’altra parte, dovette lottare contro la naturale curiosità di conoscere l’ambiente. E perse la battaglia. Per vari giorni, vagò da una bottega all’altra, osservando in silenzio i silenziosi lavoratori. Abili fabbri formavano stupendi oggetti di ottone lucente e d’argento per il commercio del re. I tessitori, che lavoravano in due a ogni telaio, fabbricavano eleganti tappeti o dei tessuti ognuno dei quali aveva disegni originali, creazioni uniche. Altri, che lavoravano con incredibile senso di coordinazione, trasformavano mucchi di paglia in meravigliosi cestini o stuoie dai disegni straordinari. Vi erano intagliatori di legno, pavimentatori, ceramisti, carpentieri e muratori.

Solo le opere dei pittori erano una delusione, e ciò fece a lungo riflettere Forzon che finì per spiegarselo dicendosi che la pittura kurriana era un’arte fatta di realismo, di ambienti e visi familiari, e che nell’ambito di una moncopoli non trovava posto. Fissare pittoricamente la tetra vita che la gente di quel villaggio conduceva ripugnava a tutti gli artisti. Vivevano di ricordi, e nessun pittore può riprodurre i ricordi degli altri. Fra tutte le abitazioni del Kurr, solo le pareti imbiancate a calce della moncopoli erano prive di quadri.

Non veniva certamente voglia ad alcun pittore di ritrarre il villaggio e i suoi mutilati. Dipingevano esclusivamente cose del loro passato. Non la gente (quelli erano ricordi troppo personali per renderli materialmente visuali) ma i luoghi. Un artista anziano aveva coperto i muri del suo studio di quadri che rappresentavano tutti la stessa casetta adorna di fiori. La si vedeva in un quadro tutta bianca e luminosa nella luce dell’estate, con i suoi muri dipinti di fresco, i suoi fiori dai colori sgargianti. In un altro quadro la casa era raffigurata sotto i rovesci di un temporale estivo. In un altro ancora era illuminata dal caldo sole della mietitura, con canestri di frutta presso la porta. Qui invece era inverno, e il vento freddo aveva spogliato la casa del fogliame che la ricopriva. Qui in primavera, col primo verde annunciatore della buona stagione. La casetta invecchiava, acquistava una mano di pittura nuova, poi tornava a sopportare il ciclo completo dei temporali e delle stagioni.

Non vi era mercato esterno per quel tipo di pittura. I cittadini che potevano facilmente ordinare quadri della loro vita presente non s’interessavano ai ricordi di un passato altrui ormai defunto.

Come critico d’arte, Forzon giudicava deludenti questi dipinti; ma dal punto di vista umano, la struggente tragicità di queste opere lo commuoveva sino alle lacrime.

Fra tutti questi uomini di vario talento e occupazione, Forzon era interessato soprattutto dal suo vicino di casa, Tor, che, come lui, non faceva niente.

Il torril era stato posto al centro della esigua stanza. Tor gli sedeva vicino, su uno sgabello di legno, e l’infelicità aveva scavato il suo bel volto giovane. Spesso Forzon aveva udito, o gli era parso d’udire, la piacevole risonanza di una corda pizzicata. Ma non ne era sicuro.

Un pittore, a patto che fosse destrorso, poteva continuare a dipingere senza perdere nulla della sua abilità, anche col braccio sinistro mozzato. Un cantante poteva continuare a cantare, un poeta a combinare parole. Un artigiano poteva ancora creare dell’ottimo lavoro con una sola mano. Per Tor era la suprema tragedia.

Sarebbe stato possibile suonare il torril con un certo stile adoperando una mano sola, scegliendo della musica di facile struttura a gamma limitata, ma ovviamente per un consumato musicista come Tor, sarebbe stato peggio che non suonare affatto.

Quando Forzon si accorse che Tor non mangiava con regolarità, infranse la regola fondamentale del villaggio e intervenne. Si fermò di tanto in tanto per chiedergli la ciotola, che portava a riempire alla cucina del villaggio. Tor accettava il cibo con un cenno di ringraziamento, ma mangiava poco. Si parlarono per la prima volta quando Forzon gli chiese, d’impeto, di dargli delle lezioni di musica. «Mi potresti insegnare a suonare?» gli chiese.

Un lampo d’interesse illuminò il viso di Tor, ma poi si spense. «No» rispose senz’altro commento.

«Potrei sedermi di fronte a te» disse Forzon. «Con la tua mano da una parte, la mia dall’altra, potremmo suonare insieme.»

«È impossibile.»

Anche nel villaggio dei sepolti vivi, Tor rimaneva fedele al suo giuramento artistico.


Un giovane intagliatore di legno stava fabbricando una grande ciotola da bere, all’interno della quale scolpiva grappoli di kwim, un frutto a bacche, che serviva a fare dei vini leggeri del Kurr. Ogni giorno una nuova bacca emergeva dalla superficie liscia del legno, la sua sagoma allungata era scavata nel legno con precisione chirurgica. La superficie periata era sagomata con amore. Ogni giorno una bacca. Le foglie, con le loro delicate nervature, i bordi increspati, richiedevano probabilmente più tempo. Vi erano in media da dieci a quindici bacche in ogni grappolo e, una volta terminato il lavoro, vi sarebbero stati almeno dieci grappoli con foglie e frutti intorno al bordo interno della ciotola. Forse quell’operaio avrebbe intagliato anche il fondo e la superficie esterna. Forzon calcolò che la ciotola avrebbe tenuto occupato l’intagliatore per due anni o più, e uscì scuotendo il capo.

Così sì misurava il tempo in una moncopoli. Una bacca al giorno, scolpita in rilievo su una ciotola. Oppure, se si trattava di un quadro, un fiore sulla facciata di un’abitazione, reso alla perfezione con pennellate quasi microscopiche, ogni petalo palpitante di rugiada; un solo verso di poesia, per il quale mille parole erano state esaminate nel loro significato, pesate accento per accento, e poi scartate.

La maggior parte degli artigiani e degli operai lavorava con leggera, meccanica efficacia; ma i loro lavori non avevano un fine utilitario. Gli abitanti del villaggio erano alloggiati, vestiti e nutriti di modo che quelli dotati di qualità artistiche trovavano sollievo al tormento dell’anima dedicandosi a qualche lavoro di una perfezione inutile, al ritmo di una bacca al giorno; quelli totalmente sprovveduti potevano trascorrere le ore di veglia nella contemplazione dell’infinito.

Una volta soddisfatta la sua curiosità iniziale delle cose del villaggio, Forzon divenne anch’egli un contemplatore. Ma non mirava all’infinito, bensì pensava al Kurr e alla sua gente. Ogni giorno tentava di immaginare come quella popolazione che, all’infuori delle moncopoli, era fatta di gente felice e ricca, si sarebbe comportata in mezzo a una rivoluzione, e non riusciva a raffigurarsela. Le idee che gli nascevano nella mente avevano la stessa forza di una puntura di spillo, e si sa che una puntura di spillo, anche se fa uscire il sangue, raramente ha conseguenze fatali.

Soppesava le proprie idee una per una e le scartava. Alla fine non gli rimase nulla, tranne la riesumazione della sua ipotesi a proposito dei canti sovversivi popolari. Il destino aveva posto Forzon a contatto dell’unico grande musicista del Kurr che per di più aveva un conto aperto con il re. Ma l’umore dominante di Tor era quello di una tragica disperazione, e non quadrava con il tocco leggermente satirico che un canto di quel genere esigeva. Chissà se Tor poteva comporre quel tipo di musica? Valeva la pena di provare.

Rimase il problema del testo, e i tentativi di Forzon di condurre i poeti fuori dei loro argomenti abituali (tramonti dimenticati, malinconica sorte dei fiori appassiti, eccetera) fallirono miseramente. Le parole che gli occorrevano doveva scriverle lui.

Con gran fatica riuscì a mettere insieme una sola strofetta:

Il grande visir

La polvere inghiottì

Trattenne il respir

Ma poi starnutì.

Era inver desolato,

Ahimè, poveraccio!

Ma il re disse irato:

«Tagliategli il braccio!»

Scrisse accuratamente lettera per lettera la sua strofetta su un pezzo di pergamena e la portò a Tor. «Hai mai composto musica per una canzone?» gli chiese.

Tor distolse lo sguardo da un suo particolare, infinito vuoto interiore, e fissò Forzon senza parlare, con gli occhi di uno che non capisce.

«Ho qui una poesia di cui vorrei fare una canzone» disse Forzon. «Potresti comporre tu la musica?»

Tor allungò la mano destra e prese la pergamena. Forzon guardava ansiosamente il musicista che leggeva con attenzione ogni verso. Di botto gettò indietro la testa, guardò Forzon con gli occhi pieni di attonita sorpresa e urlò: «Tradimento!»

Forzon riprese la pergamena e si precipitò a casa, la bruciò e ridusse i resti in cenere.

«Ben fatto per la mia puntura di spillo» pensò amaramente Forzon. «Com’è possibile concepire una rivolta in un paese dove anche le vittime della ignobile crudeltà del re impallidiscono per l’orrore al solo sussurro di un tradimento?»

Di notte lasciava la sua stanza e girovagava, inciampando qua e là, per la campagna ondulata, sbirciando la piccolissima luna e cercando un’ispirazione, un’idea, un fatto, qualsiasi cosa che si potesse convertire in una sembianza di piano sul quale lanciare la Squadra B. Ogni giorno che passava, recava una nuova bacca alla coppa dell’intagliatore e (pensava Forzon) un nuovo capello bianco nella sua capigliatura… sotterranea. Da un momento all’altro poteva giungere la notizia che la Squadra B aveva completato l’opera di riorganizzazione.

Non aveva alcun piano e la sua ispirazione, come la piccola luna di Kurr, non si lasciava afferrare.

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