CAPITOLO XIII

Questa volta si trattava prpprio di una segreta.

Dall’oscurità che nascondeva ogni cosa provenivano urli, gemiti e un puzzo nauseabondo. La guardia diede una rude gomitata a Forzon, e con un calcio gettò una scala di corda giù in una vasta fossa circolare. Forzon, sotto la minaccia di una lancia, cominciò diligentemente a scendere. Quando giunse con i piedi in fondo alla scala, la guardia, ridendo rumorosamente, lo punzecchiò con la lancia e Forzon allora discese a cambiamano finché non rimase sospeso all’ultimo tarozzo. Nel momento in cui si preparava a fare un gran salto, le punte dei suoi piedi toccarono il fondo. La scala di corda fu ritirata e Forzon si ritrovò in un’oscurità totale.

Guardò in alto e gli si mozzò il fiato: l’enorme soffitto era sostenuto da colonne svasate, come i muri esterni delle case. Pilastri, muri, soffitto, ogni punto che le torce delle guardie illuminavano, ardeva di vorticosi colori. Ma, neppure nei sogni più immaginosi, avrebbe potuto concepire una segreta simile. Fu sopraffatto dalla sua bellezza.

Le guardie passavano a intervalli regolari e ogni volta le loro torce illuminavano fugacemente la fossa. Forzon poté così intravedere delle sagome di altri prigionieri addormentati su umidi mucchi di paglia. Dei piccoli roditori dall’aspetto malvagio, scorrazzavano dappertutto senza ritegno, e i loro grandi occhi lampeggiavano rossi quando passava la luce delle torce. Forzon si fece un mucchio con della paglia sparsa e sedette a contemplare l’atroce ambiente nel quale era stato condotto. Voleva pensare a Rastadt, ma non poteva concentrarsi. I gemiti e i singhiozzi incessanti dei prigionieri erano interrotti solo dagli urli improvvisi e dallo snervante e tremulo grido dei torturati. I roditori correvano sfacciatamente sui piedi di Forzon. Quando, per distrazione, respirava dal naso, il puzzo violento gli faceva rivoltare lo stomaco.

Il volto pallido e implorante di Rastadt lo ossessionava. Certamente un disaccordo fra complici lo aveva consegnato nelle mani del re, e bisognava avvisare la Squadra B. Dato che Rastadt non comandava più la base, era indispensabile cambiare tutta la strategia della Squadra B.

E Rastadt…

Forzon non riusciva a concentrarsi. E neppure a dormire. I muri della fossa trasudavano acqua; la paglia era così umida che i suoi indumenti si inzuppavano ogni volta che la toccavano. Si alzò barcollando e prese a camminare in circolo intorno al suo mucchio di paglia. Parlò a una guardia che passava, e per risposta si ebbe un colpo di lancia che gli fece uscir sangue dalla spalla. Quando un suo compagno si svegliò, agitando le braccia, dal travaglio di un incubo, Forzon tentò di parlargli, ma la guardia tornò con un bugliolo e li cosparse entrambi di acqua sporca.

Finalmente l’alba mandò le sue frecce di luce dalle feritoie alte sulle pareti del pozzo. L’effetto era tale da mozzare il fiato. Una strana pietra cristallina rivestiva le pareti e il soffitto, e spezzava la luce in miriadi di colori. Neppure il popolo più appassionato di bellezza ne avrebbe sprecata tanta in una fossa carceraria. Forse quel locale era stato un tempo una specie di piscina reale, una sala piena di lucenti vasche dove il re si sollazzava con il suo harem. Ora le vasche erano solo buche puzzolenti e sebbene, in alto, sfolgorasse la bellezza, i prigionieri non alzavano gli occhi a guardarla.

I prigionieri si svegliarono dai loro sogni tormentati per entrare nella torturante realtà. Una guardia passando gettò distrattamente del cibo nella fossa. Forzon guardò con orrore i prigionieri e i roditori che si azzuffavano per prenderlo.

Il capo delle guardie, un bel giovane d’aspetto effeminato, dalle movenze aggraziate di un ballerino, passò a mezzogiorno, facendosi beffe dei prigionieri. Si fermò e sorrise a Forzon. «E così, anche tu sei uno che non parla.»

«Sono uno che non ha nulla da dire» rispose Forzon.

«Avrai molto da dire quando si metteranno a lavorarti. Non hai ancora conosciuto la scatola nera?»

«Non ho avuto il piacere.»

Il capo delle guardie lanciò un risolino acuto. «Piacere? La scatola nera ti procurerà molto piacere, se così lo vuoi chiamare. Prima ti tolgono le unghie della mano sinistra, una al giorno, per far durare il piacere. Se ancora non hai nulla da dire, ti lavorano le dita, ma una sola falange di un solo dito al giorno. La scatola non ha affatto fretta. Non fa niente di svelto, non taglia: strappa. Unghie, giunture delle dita, mano, avambraccio. Ed è anche molto versatile. Se, dopo di ciò, non parli, può fare lo stesso col braccio destro… e questo sì, ci porrebbe un problema: un uomo che ha perso entrambe le braccia, può essere ancora accolto in un villaggio di monchi? Non sta a me decidere, ma me lo sono sempre chiesto. Per fortuna, accade di rado. Poche falangi bastano a convincere quasi tutti. Non gli par vero di dire ciò che sanno e far terminare il lavoro dalla sciabola. Accetta il mio consiglio, amico. Più presto parli e ti metti in cammino per un villaggio di monchi, e meglio sarà per te.»

«Ne dubito» disse Forzon. «Sai, ne vengo or ora.»

Il capo delle guardie lo guardò ammutolito, passando più volte lo sguardo da una mano all’altra di Forzon. Se ne andò battendo i tacchi e un momento dopo un’altra guardia tornò a svuotare un bugliolo di acqua sporca su Forzon.

Poi cominciarono a portar via i prigionieri. Durante tutto quell’infame giorno le povere creature furono tirate su, una per volta, gementi e imploranti, e tornarono inconsce o singhiozzanti, col sangue che colava dagli stracci nei quali era avvolta la mano sinistra mutilata. Forzon soccombette alla stanchezza nervosa e riuscì a dormire alcune ore di un sonno irrequieto, allucinato.

All’alba del secondo giorno le guardie portarono via Forzon.

Egli le seguì con indignazione più che con paura. Tutti i popoli avevano i loro degenerati morali, spontaneamente attratti da quei servizi che appagavano i loro impulsi sadici. Le guardie delle segrete e gli incalliti manipolatori della scatola nera erano forse solo la faccia malsana di una società altrimenti sana.

O forse no. Nel qual caso, l’idea di Forzon, quella di riuscire a toccare la coscienza del re, doveva ascriversi alla sua innata ingenuità.

In un’altra stanza, le guardie inondarono Forzon con secchi d’acqua pulita e gli buttarono un involto di abiti di ricambio.

«I vostri torturatori sono così delicati che non possono lavorare su un prigioniero sporco?» chiese.

Si vestì e lo spinsero nel cortile. Gli legarono mani e piedi e lo issarono in un carro chiuso che immediatamente si avviò scricchiolando per le strade di Kurra.

Varcarono una delle porte cittadine, percorsero un tratto di strada polverosa e accidentata, e si fermarono. Dopo una sosta interminabile e soffocante, tolsero il copertone, il carro s’incamminò e Forzon riattraversò la porta cittadina.

Allo scoperto.

La temerarietà di quella mossa, che seguiva l’astuzia di averlo fatto portare a Kurra di nascosto, lo sbigottì. Ma solo per un attimo.

Era un tranello. Prima che la scatola nera del re togliesse a Forzon il braccio sinistro, una giuntura per volta, e lo rendesse inadatto a essere mostrato in pubblico, veniva usato come esca. Attraversando in quel modo le strade, lentamente e senza apparente scorta, qualcuno della Squadra B lo avrebbe veduto, avrebbe tentato di salvarlo. E i ruff del re erano pronti a intervenire.

Ce n’erano dappertutto, in borghese, mescolati alla folla dei pedoni, in vedetta alle finestre incombenti sulle strade, riuniti ai crocicchi. Egli non poteva identificarli, ma sapeva che c’erano. Il passo pesante dell’esg era così lento che la trappola dei ruff non aveva difficoltà a seguirlo. L’unica visibile scorta di Forzon consisteva in quattro uomini in uniforme di staffiere del re; ma quei pedoni che mantenevano così diligentemente il passo a fianco dell’esg non potevano essere altro che dei ruff, e, davanti e dietro, c’erano dei carri chiusi che senza dubbio nascondevano della gente. Lo stratagemma era diabolico. Pareva che perfino il frastuono cigolante dei veicoli cospirasse: Forzon avrebbe potuto urlare avvertimenti per tutta la strada che lo riportava al castello, senza che nessuno l’udisse.

Seguirono un percorso a spirale attraverso la città, usando delle vie secondarie che si potevano facilmente bloccare. Più avanti i ruff tenevano la strada libera da altri veicoli. Forzon sedeva immobile, sudato, indebolito dalla paura e dalla rabbia, scrutando la folla per trovare volti familiari, e sperando con tutto il cuore di non vederne.

Un commerciante magro, che discuteva con un cliente, alzò gli occhi distrattamente al passaggio del carro. Che fosse Joe Sornel, l’ex mescitore? Forzon voltò prontamente gli occhi. Un robusto pedone guardò fisso Forzon per un attimo, poi si mosse, allontanandosi a lunghi passi, sparendo a una svolta. Hance Ultman? Forzon cercò di nascondersi il volto nell’ampio mantello che celava le mani e i piedi legati.

E non accadeva nulla. Penetrarono quasi sino al cuore della città, avanzando lentamente a sobbalzi, con uno staffiere a fianco dell’esg che stringeva l’orecchio dell’animale per rallentarne ancor più il passo. Forzon intravide un cittadino che entrava in una casa. Somigliava a Leblanc. In quest’epoca turbata Leblanc non avrebbe dovuto per nulla somigliare a Leblanc, eppure quell’uomo gli somigliava. Un vecchio tutto curvo si trascinò fin nel mezzo della strada, proprio davanti a loro e si ritrovò stupito sotto il muso dell’esg. Spaventato si tolse di mezzo. Forse Sev Rawner, senza la cataratta? E quella donna che si sporgeva da una finestra alta per chiamare qualcuno dirimpetto… non aveva forse il nasino voltato in su di Ann Cory?

Vedeva Squadra B dappertutto.

Voltarono nello stretto vicolo che molto più avanti sfociava sulla grande piazza prospiciente il castello. Lo staffiere che stringeva l’orecchio dell’esg era stato troppo zelante. Erano rimasti indietro, rispetto al carro di testa, e improvvisamente sbucò da un cortile, proprio di fronte a loro, un altro carro che sbarrò la strada. Uno degli staffieri si lanciò in avanti urlando come un pazzo e il carro di Forzon si fermò bruscamente.

Forzon girò su se stesso, si spinse con i piedi e rotolò giù dal carro.

Cadde su uno degli staffieri che gli si avvinse spaventato. Gli altri arrivarono correndo, fu gridato un ordine, la strada ribollì di ruff venuti da tutte le direzioni. Gli staffieri continuavano a stringere Forzon in una specie di abbraccio, come se la loro vita dipendesse dal non lasciarlo scappare. Probabilmente era così. I ruff cominciarono a spingere di qua e di là. Il carro inopportuno cercò di indietreggiare, ma il vicolo era bloccato dietro di esso dal traffico pedonale. I ruff ordinavano al conducente di andare indietro, poi di andare avanti. Egli alzò le mani, smarrito, e i ruff lo afferrarono e lo spinsero fuori dei piedi.

Forzon fu rudemente gettato sul carro e due staffieri si sedettero su di lui. Poté distendere i nervi e respirare liberamente per la prima volta da quando era cominciato quel calvario: la Squadra B non si era fatta viva e la trappola del re aveva fatto fiasco. Il carro finalmente riprese a muoversi, ma Forzon fu immobilizzato sul fondo finché non ebbero attraversato la piazza e il portale d’accesso al cortile del castello non si richiuse con un tonfo sordo alle loro spalle. Nel cortile, dove in precedenza si trovavano poche guardie annoiate, c’erano ora dei soldati inquadrati e vigili.

Portarono Forzon direttamente da Gasq. Il re era sempre seduto vicino alla lunetta e pareva invecchiato dall’ultima volta che Forzon lo aveva visto. Anche Gasq. Non lasciò a Forzon il tempo di fargli un inchino e lo aggredì subito: «Perché siete caduto dal carro?»

Forzon alzò le spalle: «Avevo fatto tutta quella strada, in parte nel carro chiuso e soffocante, e poi… non ho mangiato nulla sin dall’altro ieri. Mi è venuto il capogiro. Sarò svenuto.»

Il re, pensò Forzon, era un individuo più complesso di quanto lui e la Squadra B se l’erano figurato. Il fallimento di un piano così accuratamente elaborato avrebbe dovuto suscitare in lui la stessa ira che l’aveva spinto a colpire ciecamente Tor. Invece no. La sua reazione pareva calma e ponderata: il piano era fallito, ne avrebbe escogitato un altro.

«Avete visto nessuno della Squadra B?» chiese Gasq.

«Mi è sembrato di sì» Forzon rispose guardando il re.

«Vi è sembrato…»

Forzon sorrise. «Capite, io non so che aspetto abbiano i membri della Squadra B.»

Gasq farfugliò incredulo: «Non sapete…»

«So che aspetto avevano l’ultima volta che mi sono trovato a Kurra, ma l’avranno cambiato. Sono molto abili, in questo.»

«Ma vi è sembrato di vederne alcuni?»

«Ho visto due uomini che somigliavano a due agenti della Squadra B che ho conosciuto; ma è quasi sicuramente una coincidenza. Nelle mie condizioni forse non ho visto bene. Ripeto, da avant’ieri non ho mangiato niente. Comunque, se i pochi membri della Squadra B che io conosco non hanno ancora cambiato aspetto, lo faranno ora. Portandomi in giro per le strade di Kurra avete fatto sapere alla Squadra B che io sono prigioniero. Chiunque abbia avuto contatto con me cambierà identità. Tutti i luoghi d’incontro dove io sono stato saranno abbandonati. È stato un grave errore portarmi in giro per la città a quel modo. Ora non vi servo più a niente.»

Lo sbaglio, se tale era, risaliva evidentemente a Gasq, e Forzon sapeva quale destino fosse riservato ai ministri del re che commettevano uno sbaglio. Gasq impallidì e ringhiò: «Vi convincerò a essere utile.»

Mentre faceva cenno alle guardie di avanzare, la voce del re tuonò nella sala, confusamente ampliata dalla stanza che gli stava dietro. «Perché quell’uomo non ha mangiato nulla sin dall’altro ieri?»

Gasq parve fulminato. Non tentò neppure di rispondere.

«Portate da mangiare» ordinò il re.

Accorsero frettolosamente dei servi, che disposero e apparecchiarono un tavolo per Forzon. Seguì un lungo intervallo di attesa. L’ordine del re aveva colto di sorpresa la cucina. Il re abbandonò la sua vedetta e quando finalmente i servi portarono la colazione egli li seguì nella sala e rimase in piedi vicino al tavolo mentre ogni servo s’inchinava e gli porgeva il vassoio da esaminare.

«Sedete e mangiate» disse il re a Forzon.

Forzon si inchinò per ringraziare e sedette. Il re con un gesto esiliò Gasq all’altra estremità della stanza, e si sedette pacatamente di fronte a Forzon. Forzon, molto in soggezione, assaggiò una fetta di pane, si accorse di avere realmente fame, e cominciò a mangiare. Sfilarono davanti a lui altri vassoi. Ben presto gli elementi di un vero e proprio festino ricoprirono il suo tavolo. Il re non parlò finché Forzon non ebbe soddisfatto il suo appetito.

Poi disse piano, con un’aria da cospiratore: «Avete detto che volevate andarvene dal Kurr.»

«Se voi foste nella mia situazione, non vorreste andarvene dal Kurr?»

«Potete andarvene» disse il re «purché vi portiate via la Squadra B.»

«La Squadra B è sparsa in tutto il Kurr» disse Forzon. «Non saprei da dove cominciare per entrare in contatto con essa.»

«E lo potreste, se foste libero?»

«No. Ma se fossi veramente libero, forse la Squadra B si metterebbe in contatto con me.»

«E allora… ve ne andreste con la Squadra B?»

Forzon esitò, temendo che una bugia non venisse creduta e che la verità potesse distruggere il piccolo vantaggio che egli aveva appena ottenuto. «Sto chiedendomi se la Squadra B ubbidirebbe al mio ordine di andarsene» disse quando il re cominciò a mostrare segni di impazienza. «La Squadra B ha giurato di compiere la sua missione in Kurr. Sapete qual è?»

Il re non rispose.

«È difficile spiegarvelo in modo convincente» continuò Forzon «ma se Vostra Maestà volesse fare una certa cosa, credo lo capirebbe meglio.»

«Quale cosa?»

«Passare alcuni giorni nelle vostre segrete. Da carcerato.»

Lo scatto di rabbia che Forzon quasi si aspettava non venne. Il re, evidentemente, considerava l’intendente Jef Forzon come un enigma da risolvere più che come un prigioniero da castigare. Inclinò il capo di lato e considerò Forzon con un’espressione di grande perplessità.

Improvvisamente scattò in piedi, guardando fisso verso le feritoie. Dietro Forzon un servo aveva lasciato cadere un vassoio, ma nessuno vi fece caso. Le guardie perdettero il loro contegno, delle anni caddero in terra, le teste si voltarono, le bocche si spalancarono. All’altra estremità della stanza Gasq cessò di fulminare Forzon con lo sguardo e si precipitò sulla feritoia più vicina.

Sopra la città, alto, squillante e morbido, destando mille echi rifrangenti, veniva da lontano il suono delle trombe.

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