CAPITOLO VI

Molto prima di avere imparato bene la lingua, Forzon già non vedeva l’ora di trasferirsi. Gli altri agenti se ne andavano per i fatti loro, lasciandolo solo con Leblanc, e sebbene egli scoprisse inattese bellezze nella vecchia fattoria, la compagnia del comandante della Squadra B lo annoiava. Leblanc viveva circondato da cose stupende e le ignorava.

Quest’ultimo era rimasto profondamente turbato dalla faccenda della contadina che aveva tanto gradito la veste del sacerdote di Larnor. «Ma perché?» chiedeva, perplesso, aggrottando la fronte. «Non la può indossare e neppure trasformare in qualche altro indumento per sé.» E dopo alcune ore era capace di voltarsi bruscamente, facendo traboccare la sua ciotola di vino speziato, e protestava: «Non la può neanche mostrare a un’amica. Nel momento stesso in cui risultasse che ha ospitato un sacerdote larnoriano, non le rimarrebbe neanche un’amica!»

Forzon esaurì la sua scorta di citazioni sull’argomento della bellezza e divenne silenzioso.

Venti giorni dopo il suo arrivo comparve un altro agente della Squadra B. Era un uomo robusto, abbronzato, gioviale, che si chiamava Hance Ultman. Faceva il negoziante di prodotti agricoli. Questa sua occupazione gli permetteva di girare liberamente nelle province centrali del Kurr.

«Avete posto per un passeggero?» gli chiese Forzon.

Ultman sorrise, d’un rapido sorriso contagioso. «Se al mio passeggero non dispiace camminare!»

Leblanc non fece obiezioni. Il mestiere di Ultman era perfettamente legale, Forzon con lui sarebbe stato al sicuro, e quella peregrinazione senza fretta gli avrebbe fornito un’ottima occasione per conoscere il Kurr e il suo popolo.

«Fate pure il giro» disse Leblanc. «Farete la conoscenza di altri agenti sia cammin facendo sia a Kurra, e forse io potrò vedervi laggiù. Altrimenti potete tornare qui. Se nel frattempo vi viene in mente qualcosa…»

Forzon annuì con impazienza. Leblanc si era messo in testa ultimamente che la strana passione dei Kurriani per la bellezza si potesse convertire in una passione per la democrazia, ma che se Forzon avesse scoperto per quale strada arrivarci, non gliene avrebbe detto nulla.

Partirono due giorni dopo. Ultman conduceva con sé sei grandi carri coperti, ognuno trainato da una coppia di placidi e ubbidienti esg. Ultman marciava accanto alla coppia di testa, gli altri erano legati al carro precedente, partendo quando esso si muoveva, fermandosi quando si fermava. Forzon si piazzò in testa dall’altra parte, rispetto a Ultman, e per parlarsi dovevano urlare, per superare l’incessante scricchiolio dei carri.

«Ma perché non ungete queste cose?» chiese Forzon.

«Regola dell’Uno!» urlò Ultman ridendo «che corrisponde in realtà alla regola dello zero. Se io ungessi queste ruote, sarei colpevole di avere introdotto una innovazione tecnica. In realtà i Kurriani vi avrebbero pensato da molto tempo, se questo legno non fosse così duro da resistere all’infinito senza alcuna lubrificazione.»

«Può darsi che il legno resista; ma i loro timpani?»

Ultman sorrise e non rispose, e Forzon, durante l’ora successiva, cercò di spiegarsi come facevano gli indigeni a conciliare il loro amore per la musica con l’indifferenza al rumore.

Ultman era specializzato in un prodotto agricolo di lusso, un tipo di tubero che pochi agricoltori coltivavano. Se lo procurava sempre dagli stessi produttori, sparsi in tutte le province del Kurr centrale. Essi avanzavano lentamente lungo le stradine di campagna, da un villaggio all’altro, da una fattoria all’altra, e per Forzon era come un viaggio nel paese delle meraviglie.

Visitarono un villaggio di pittori con le sue originali case a fungo dalla base quadrata. Il paese era attraversato da un lento e pittoresco fiume. Tutti i maschi, dai bambini che sapevano appena camminare, sino agli adolescenti, stavano fuori al sole a dipingere: il fiume, le case, il paesaggio agreste, le loro sorelline; o si facevano l’un l’altro il ritratto. Non si vedevano in giro maschi adulti, quelli erano lontano, viaggiavano quasi tutto l’anno, dipingendo ritratti e soggetti locali per le raccolte private che adornavano ogni casa kurriana. Ultman acconsentì amabilmente a sostare nel villaggio il tempo necessario affinché Forzon si facesse fare il ritratto da un giovane la cui tecnica lo aveva interessato; ma l’eccitazione di questa prima commissione aveva talmente agitato il ragazzo che il risultato fu mediocre.

I segreti delle arti e mestieri erano gelosamente custoditi e trasmessi di padre in figlio, e lungo il percorso a spirale che li portava verso la capitale, essi incontrarono un villaggio di intagliatori in legno, un villaggo di scultori, persino un villaggio di poeti, e ognuno di questi centri documentava l’insaziabile bisogno d’arte del Kurr e la ricchezza che il paese era disposto a profondervi.

Visitarono un villaggio di musicisti un giorno festivo. La strada del villaggio ospitava decine di concerti. Forzon passò da un gruppo all’altro, osservando affascinato i ragazzetti dal viso lucido che facevano la loro prima apparizione in pubblico, con i loro piccoli torril dai suoni acuti, adeguati alla loro statura, e i giovanotti sotto i vent’anni che suonavano con maestria gli istrumenti di dimensioni normali, dai profondi toni bassi. Le donne e i bambini, nei costumi sgargianti della festa, ascoltavano rapiti e applaudivano con frenesia, alla loro maniera, scalpitando sulle pietre dipinte del selciato. Forzon andava qua e là, ubriaco di musica, fino al momento in cui gli venne l’improvviso rimorso di non essersi portato dietro alcun apparecchio registratore.

Ultman, ovviamente felice di avere qualcuno con chi parlare, non smetteva mai. Ciò che gli diceva era quasi sempre coperto dal cigolio delle ruote dei carri, ma Forzon era riuscito ad afferrare parecchie cose utili. Poi Ultman attaccò l’argomento degli insuccessi della Squadra B, e andò avanti per ore. Forzon che ricordava la sala dell’archivio, laggiù alla base, colma di raccoglitori polverosi, si faceva forza per non cedere alla noia.

«Le donne!» gridò Ultman, e Forzon annuì, meravigliandosi della potenza vocale di quell’uomo. «Ecco un altro punto interessante. La donna kurriana è considerata poco più di un animale domestico, sebbene sia un animale felice, rispettato, trattato bene.»

«Davvero?» gridò Forzon, ricordando come la contadina aveva subito zittito il marito, a proposito della veste sacerdotale. «Ho notato che non hanno una gran parte nelle arti.»

Ultman fermò la coppia di testa con un colpetto della mano, e cercò nel carro la sua borraccia di vino. Bevette un lungo sorso poi passò la borraccia a Forzon. «E in nessun’altra cosa» facendo risuonare le sue parole nell’inconsueto silenzio. Rise allegramente e abbassò la voce. «Un esiguo numero di donne, figlie di musicisti, insegna musica alle figlie dei ricchi, nient’altro.»

Forzon ripose la borraccia e tornò al suo posto, perché desiderava continuare il suo cammino. Ma Ultman era d’umore loquace e si arrampicò su un lato del carro, come se si mettesse in posa per pronunciare un discorso.

«La Squadra B, a un certo momento, lavorò molti anni per fomentare una rivolta creando un movimento per la parità di diritti fra donne e uomini. Non riuscì a convincere neppure una donna del suo stato di inferiorità. Poi è stata la volta della religione. La religione del Kurr è il re. Non è proprio un dio, ma almeno un primo sacerdote. Per questo, forse, è così suscettibile sull’invio di missionari del Larnor. Non vuole concorrenti, per così dire. Comunque sono state prese decine di iniziative in chiave religiosa.»

«Nessuno ha mai tentato la chiave culturale?» chiese Forzon.

«Qualcuno l’avrà fatto. Tutto è stato tentato in questo paese.» Stette un attimo a pensare. «C’è stato uno che ha convinto un governatore di provincia a prelevare una tassa sui dipinti. È durato fin quando Re Rovva non l’ha scoperto. Ha abolito la tassa e ha spedito il governatore in un villaggio dei monchi. Il vecchio Rovva è troppo furbo per lasciarsi giocare su una questione di tasse.»

«Se la regia abitudine del re di spedire valenti cittadini nelle moncopoli fosse resa più nota, la sua popolarità ne soffrirebbe di sicuro. Perché non create un giornale?»

«E chi potrebbe criticare il re, se volesse continuare il suo mestiere? Comunque la stampa non è stata inventata.»

«Regalatela voi al Kurr.»

Ultman scoppiò in una risata omerica, picchiando il pugno sulla sponda del carro, tant’è che le sue bestie spaventate cominciarono a muoversi. Saltò giù per fermarle. «Regalarla al Kurr!» disse senza più fiato. «E la Regola dell’Uno?»

«Ogni volta che suggerisco qualcosa» si lamentò Forzon «qualcuno tira fuori la Regola dell’Uno. Ma nessuno si è mai preso la briga di dirmi in che cosa consiste.»

«Qualche secolo fa, un giovane e brillante agente voleva portare il suo contributo a una rivoluzione nascente fornendo ai ribelli un tipo abbastanza primitivo di arma da fuoco. La sua richiesta parve stupida, perché si sapeva che l’Ente vietava rigorosamente innovazioni tecniche. Contrariamente alle previsioni, il Comando Supremo non rigettò la richiesta su due piedi. Formulò invece la Regola dell’Uno. Gli agenti dell’Ente erano autorizzati a introdurre un cambiamento tecnologico per ogni mondo, ma uno solo. Questo rese felice il giovane e zelante agente, finché si accorse che la parola uno doveva essere considerata alla lettera, e un fucile, per primitivo che sia, contiene forse un migliaio di innovazioni, senza parlare dei proiettili. Il giovane si coprì di ridicolo e dovette lasciare il servizio. Da quel momento nessuno ha mai tentato di usare l’incremento tecnico. Cosicché la Regola dell’Uno è sempre in vigore.»

«Però si potrebbero introdurre i caratteri da stampa senza la pressa, oppure la pressa senza i caratteri.»

«La cosa non è così semplice. Vi possono essere decine di innovazioni contenute sia nella pressa sia nei caratteri e probabilmente altrettante novità prima di arrivare alla produzione della carta occorrente. Ma parliamo della cultura. La miglior cosa per voi sarebbe quella di chiedere un riassunto generale delle pratiche d’archivio. Le impiegate della base non hanno nient’altro da fare e non ci vorrebbe molto a mettere in macchina l’indice degli atti e tirar fuori tutti i riferimenti che vi interessano.» Afferrò nuovamente la sua borraccia. «Leblanc e il suo vino cotto! A me piace freddo, e nel Kurr non si riesce ad averlo.»

«Perché non lo avvolgete negli stracci e bagnate gli stracci con l’acqua?» suggerì Forzon.

«Non posso» disse Ultman. «Potrei macchiarmi di innovazione tecnologica.» Alzò le braccia in un gesto di disperazione. «Ecco la cosa di cui sento proprio la mancanza. Una bibita ghiacciata. Questi maledetti inverni non sono mai abbastanza freddi per congelare chicchessia. Non ricordo più da quanto tempo non ho visto del ghiaccio. A parte ciò, questi luoghi sono veramente un bel posto di lavoro.»

Saltò giù dal carro e diede un colpetto sui fianchi della prima coppia di esg. Ricominciò lo stridio lacerante e Forzon riprese doverosamente il suo posto accanto ai placidi animali.

Era un paese delizioso, questo Kurr; ma, in massima parte, di una bellezza creata, non spontanea, espressione di un popolo straordinariamente dotato per l’arte. Fiancheggiarono campi di grano disposti geometricamente come delle aiuole. Un campo situato in cima alla collina, dove la sua vibrante bellezza si poteva scorgere a parecchie miglia di distanza, pareva un mare ondeggiante di fiori dai colori sgargianti.

«A quale scopo coltivano i fiori?» gridò Forzon. «Miele? Profumi?»

Ultman scosse la testa. «Non ci sono insetti da miele. Lo zucchero proviene dalle foglie dolci di una pianta cespugliosa, e le essenze profumate da certe radici. Vedrete fiori dappertutto, specialmente in cima alle colline. Mi sono chiesto spesso perché non arano quei campi per seminarvi qualcosa di utile.»

«Per esempio tuberi?» suggerì Forzon con un sorriso.

L’ERI avrebbe voluto fare proprio questo, così come avrebbe volentieri tracciato un solco in questa società stabile, felice, prospera, amante della bellezza, col vomere della rivoluzione. Forzon si chiese se un governo popolare non fosse una forma di espressione creativa, destinata ad eterno fallimento, lì in Kurr, perché la gente spendeva ogni sua energia creativa nelle cose immateriali come l’arte, la musica, la poesia… e i campi di fiori.

Ultman, come Leblanc, non era in sintonia con la bellezza di ciò che lo circondava. Per lui le opere d’arte erano delle cose, esattamente come i tuberi di cui faceva commercio, e riteneva che dovessero certo avere un’utilità; ma non avrebbe mai provato emozione né per le une né per gli altri. Qual era, allora, la sua ragione di vita? La missione della Squadra B?

Quell’uomo non se ne preoccupava eccessivamente. Aveva un lavoro da fare e lo faceva, percorrendo le province centrali, mantenendo i suoi contatti, trasmettendo messaggi, raccogliendo informazioni. Pericoloso? Egli non ricordava da quanto tempo la Squadra B non perdeva un agente. Degli agenti si erano trovati nei pasticci, qualche anno prima; ma qualcuno aveva provveduto. C’era sempre qualcuno che provvedeva. Sulla missione della Squadra B, toccava a qualcuno più in alto, di spremersi le meningi; e se gli veniva in mente qualcosa che Ultman potesse fare per il progresso della missione, non aveva che da dirlo e Ultman l’eseguiva.

Forzon pensò con amarezza che per risolvere i problemi dell’ERI in Kurr, bisognava forse risolvere, prima di tutto, il problema della Squadra B. La mancanza da parte dei suoi membri di qualsiasi interesse nelle cose dell’arte, faceva di questi uomini dei perfetti attori di teatro, intenti a rappresentare bene la loro parte, piuttosto che usarla per uno scopo preciso.

Viaggiavano ora per verdeggianti sentieri lungo i quali i villaggi pittoreschi, con le loro strane case multicolori, erano disseminati come le perle di una collana, lucenti e intervallate, su un lungo filo verde. Di tanto in tanto, essi entravano in una taverna di villaggio o nel soggiorno di una casa privata, e assaggiavano il vino dell’ultimo raccolto. Locande non ce n’erano. Ma in quella terra temperata, accogliente, ricca e pacifica, il viaggiatore che aveva con sé una mantella pesante non aveva bisogno di nient’altro. Si dormiva all’aperto. Qualsiasi donna che possedesse una scodella di cibo sfamava volentieri il viandante che glielo chiedeva. E se questo viandante gli offriva in cambio uno o due tuberi, allora non solo le porzioni diventavano principesche, ma vi aggiungeva dei biscotti tolti dalla riserva di dolci preparati per la prossima festa.

Qualche volta incontravano degli agenti della Squadra B. Due di essi, un proprietario di taverna e sua moglie, invitarono Ultman e Forzon a pernottare, ma poi guastarono la gioiosa aspettativa di Forzon, che sperava di riposare finalmente in un letto, tenendolo sveglio tutta notte con i loro ricordi e quelli di Ultman. E ancora: un negoziante di vini, un viaggiatore di commercio, un compratore di lana all’ingrosso, che apparvero improvvisamente e passarono accanto alla fila di carri di Ultman senza neppure un cenno del capo. Un coltivatore, presso il quale Ultman sostò per comperare i suoi tuberi. Un altro coltivatore, che entrò in una taverna dove stavano sorseggiando lentamente un bicchiere di vino, e che ripartì senza avere scambiato con loro neppure una parola.

«Non ce n’era motivo» disse poi Ultman «altrimenti avrei fatto in modo di incontrarlo in privato. È entrato nella taverna perché voleva veder voi da vicino. Non si sa mai. Potrebbe tornarvi utile, un giorno, che quest’uomo sappia chi siete.»

I sei carri di Ultman erano carichi fino all’orlo di tuberi dal profumo dolciastro, quando imboccarono infine una via maestra che conduceva a Kurra. Era una strada abbastanza larga da permettere il traffico nei due sensi, ed era percorsa da innumerevoli carri che portavano prodotti agricoli e derrate alimentari alla capitale. Dovettero aspettare un’ora prima di trovare uno spazio sufficiente fra due carri consecutivi da potervi infilare i sei carri di Ultman. Quello stesso giorno, nel pomeriggio, quando Kurra era già una grossa macchia sull’orizzonte, il traffico sulla strada, davanti, si bloccò improvvisamente. Ultman portò in fretta i suoi carri fuori strada e si fermò.

Un viandante solitario si avvicinò. Portava una vistosa uniforme, già sporcata dal viaggio, e camminava pesantemente, con gli occhi fissi nella polvere che si alzava sotto i suoi passi. La gente scendeva nei campi per schivarlo, o si voltava dall’altra parte e si fermava finché non fosse passato. La manica sinistra della sua giacca batteva, vuota, sul suo fianco.

«È uno scudiero del re» sussurrò Ultman. «£ incorso nello sfavore del suo sovrano e ora se ne va in una moncopoli. Finché non arriva lì, è un reietto. La gente gli darà da mangiare; ma una sola volta, e non gli parlerà mai.»

Il monco era già lontano e dietro di lui il traffico dei carri riprese a muoversi, i viandanti tornarono sulla strada e la terra di Kurr fu di nuovo bella e serena; ma quel passaggio aveva gettato un’ombra, che continuava a incombere su Forzon.


Trascorsero la notte presso il contadino che prendeva cura dei carri e degli esg di Ultman quando questi non li adoperava, e di buon’ora, la mattina dopo, entrarono nella città fortificata di Kurra, con un solo carro, trainato da un solo esg.

«Così vuole la legge» spiegò Ultman. «Molto ragionevole, direi. La maggior parte delle leggi promulgate da Re Rovva sono ragionevoli. Un convoglio di sei carri, in questo punto, causerebbe uno di quegli ingorghi di traffico, che bisogna vederli per credervi. Probabilmente è accaduto una volta, e il re è rimasto intrappolato, ragion per cui, dopo avere spedito tutti gli interessati in una moncopoli, ha promulgato una legge per impedire che il fatto si ripetesse.»

Gli antichi edifici, cosa che faceva restare Forzon a bocca aperta, erano costruiti di pietra, ma avevano anch’essi quei muri sporgenti e svasati che egli aveva visto nelle case rurali di legno. Perfino le mura di cinta di Kurra avevano in cima quell’inflessione verso l’esterno. «Mi piacerebbe smantellarne una parte per vedere com’è fatto» disse a Ultman che alzò le spalle e disse che a lui piacevano i muri solidi e intatti, e che per conto suo li avrebbe lasciati stare.

Nelle campagne, i tetti ingobbati delle case poggiavano direttamente sulla sommità sporgente dei muri maestri. Invece gli edifici di pietra di Kurra avevano i piani superiori costruiti con muri verticali. E questo perché i muri più bassi essendo protesi verso la strada, ne ricoprivano spesso una buona parte e nelle viuzze più strette s’incontravano all’altezza del primo piano, per formare delle gallerie. Kurra era una città di gallerie, in cui solo le strade principali erano a cielo scoperto.

Mentre i villaggi erano la patria degli artisti, la città ospitava gli artigiani. Le botteghe artigianali e le piccole fabbriche rudimentali di lavori a mano fiancheggiavano tutte le strade. A poca distanza dalla porta cittadina, Ultman e Forzon attraversarono una larga piazza del mercato, vivace miscuglio di costumi multicolori, di pile di derrate alimentari, di prodotti artigianali di ogni specie e vi erano anche dei pittori che esponevano le loro opere e discutevano il prezzo dei loro lavori con clienti eventuali, oppure dipingevano ritratti sul posto. Ma al centro del mercato, nella zona più lontana dal rumore dei carri, alcuni suonatori di torril davano al pubblico un saggio della loro maestria, circondati da una improvvisata platea. Era tutto un rumore: le grida dei venditori, i chiassosi battibecchi con i loro clienti, la fusione dei vari concerti di torril, la cordiale, gioiosa esuberanza di un popolo felice, frammischiato allo stridore acuto dei carri e carretti che passavano.

Sostarono nel cuore della città, in una strada secondaria coperta come una galleria, per consentire a Ultman di precipitarsi a vedere che nessun carro entrasse dall’altra estremità, a bloccargli il passaggio. Voltarono e manovrarono il carro infilandolo in una galleria più stretta ancora, da lì in un cortile, poi, a ritroso, giù per una rampa di terra battuta, fino all’entrata di una cantina.

«Siamo a casa!» annunciò trionfante Ultman.

Forzon lo aiutò a scaricare, poi riportarono il carro e l’esg alla fattoria, tornarono in città con un altro carico. Annottava quando finirono di scaricare l’ultimo carro e lo riportarono alla fattoria. Dovettero affrettare il passo per arrivare alle porte della città prima della chiusura.

Ultman avrebbe smerciato i suoi tuberi nelle vie coperte e nei vicoli di Kurra, servendosi di un carrettino a mano. Nel tempo occorrente a smaltirli tutti, un nuovo raccolto sarebbe maturato. Per anni aveva seguito questo stesso ciclo. Tutti lo conoscevano, poteva andare a venire a suo piacimento, e se spariva dalla circolazione per un po’, nessuno dei suoi conoscenti si preoccupava. Forzon pensò che Ultman aveva una professione ideale per un agente della Squadra B. Ma quella sua cantina scura gli piaceva poco.

Neppure a Ultman piaceva. «Ha però i suoi vantaggi» gli disse. «Un agente prudente si prepara sempre una seconda via d’uscita. Anche se c’è possibilità di aiuto nelle vicinanze, gli altri agenti hanno la loro vita da condurre e non possono stare sempre lì a badare che il collega non si metta nei guai. E poi bisogna avvisarli, se si è nei guai, e questo non si può fare rimanendo intrappolati in un’abitazione che ha una sola uscita. In ogni nuova abitazione, per prima cosa mi scavo una gallerìa. Quella che mi sono fatta qui mi porta in un deposito di bidoni vuoti che ho affittato al mio vicino. Non si possono scavare gallerie dai piani superiori: occorre costruire dei passaggi, e ciò richiede l’uso di laterizi ed è comunque un lavoro spinoso. Bisogna anche avere l’uso dell’appartamento adiacente, il che è meno semplice che non affittare un angolo di cantina. Per conto mio, preferisco abitare dove posso scavare. Ora ordinerò un bel pranzo alla mia padrona di casa per festeggiare il mio ritorno, poi andremo fuori, a dare un’occhiata alla vita notturna di Kurra.»

Alla morte notturna, pensò Forzon, quando s’incamminarono per le strade buie. Le case incombenti intensificavano la tetraggine generale, non c’era circolazione di veicoli, e l’irreale silenzio creava un’atmosfera tesa e quasi funerea. La luce delle torce accese in qualche casa traspariva debolmente attraverso le finestre senza persiane dei piani superiori, ma serviva poco ai pedoni che percorrevano le cavernose strade sottostanti.

In rari punti, una torcia ardeva, infilata in un braccio a muro, molto più in su delle teste dei passanti. «Taverne» disse Ultman. «Hanno l’obbligo di tenere acceso un lume fintanto che rimangono aperte. Entriamo?»

Discesero una lunga rampa di pietra e arrivarono in uno scantinato. Il proprietario, o mescitore, lanciò un grido di gioia riconoscendo Ultman e gli corse incontro per dargli delle robuste gomitate, che costituivano la stetta di mano kurriana. Ultman restituì le gomitate, entrambi risero e Ultman gli disse che si sarebbero fermati a bere uno o due bicchieri. Il che meravigliò Forzon che non aveva ancora visto alcun recipiente di vetro nel paese.

I bicchieri erano dei congegni a tempo: un mezzo globo di vetro trasparente, in un telaio di legno, con un beccuccio allungato nella parte inferiore. Sedettero a un tavolo tondo nel centro del quale era inserita una grande ciotola piena di liquido. Il mescitore con un mestolo, riempì i loro bicchieri di un liquido che lentamente ma continuamente si scaricava ribollendo nella ciotola centrale, e ne potevano bere a piacimento finché i bicchieri non fossero vuoti.

Riempirono i loro bicchieri individuali, e Forzon assaggiò la sua bibita con diffidenza, trattenendo una smorfia. Era birra, ma una birra molto amara.

«Immaginavo che non vi sarebbe piaciuta» disse Ultman «ma dovete assaggiare di tutto, anche per misura di prudenza. Altrimenti potreste trovarvi in qualche situazione che vi obblighi a passare una notte a bere questa mistura.»

«A voi piace?»

Ultman alzò le spalle. «Ci sono abituato.»

Cominciò a conversare con l’uomo che stava al tavolo accanto al suo. Anche quello era un commerciante di prodotti agricoli. Forzon si guardava intorno e studiava l’ambiente. Contrariamente al pozzo umido di Ultman, questa cantina era lussuosamente rifinita. Dei pilastri di legno grezzo sopportavano pesanti traverse che a loro volta sostenevano le piccole travi del soffitto.

Forzon si persuase subito in merito alla solidità della costruzione, ma aveva forti dubbi sulla conduzione economica della taverna. Pochi ma svelti bevitori avrebbero potuto mandare l’oste in rovina in una sola serata.

I clienti però non erano dei bevitori. Sorseggiavano a radi intervalli, conversando o, se erano soli, contemplavano ipnotizzati i loro bicchieri ove ribolliva la birra oppure le mobili scintille dei lumi murali riflesse nelle profonde pozze di birra o di vino. L’oste era sempre presente, pronto a intervenire al momento in cui un bicchiere si svuotava. Dava un colpetto sulla spalla del commensale, il cliente buttava giù l’ultimo sorso con un’occhiataccia all’oste, e poi pagava per un altro bicchiere oppure lasciava la taverna.

Entrò un suonatore di torril, ansante per aver disceso la rampa portando il suo pesante strumento. Suonò un breve brano di musica, poi si guardò intorno, e rimise in spalla il suo torril.

«Nessuno lo ha pagato» disse Ultman.

«Lo pagherò io» disse Forzon facendo per alzarsi.

«È meglio di no. Non dev’essere molto in gamba, altrimenti l’oste gli avrebbe offerto da bere.»

Un pittore passò fra i tavoli con un fascio di dipinti sotto il braccio e prese appuntamenti per i giorni successivi. Un altro suonatore di torril entrò. Quando smise di suonare qualcuno gli gettò una monetina. Gliela ributtò indietro indispettito e uscì. I loro bicchieri erano vuoti per la terza volta, e Ultman indicò col capo la porta.

A poca distanza da quella taverna, la strada sbucava su una via più larga, sfolgorante di torce in entrambe le direzioni. «Il Viale delle Taverne» spiegò Ultman. «Se ne trovano sparse in tutta la città, ma qui sono più numerose di qualsiasi altro posto. Ne proviamo un’altra?»

Ne visitarono quattro, in rapida successione, assaggiando una decina di birre e vini diversi. I suonatori di torril entravano e uscivano in continuazione. Finalmente uno si fermò, era ovviamente un bravo artista, e suonò un pezzo dopo l’altro sotto una pioggia di monetine. Quando cessò di suonare per riposarsi, Forzon si accorse che i suoi vicini di tavolo erano un allegro gruppo che discuteva i meriti dei migliori suonatori di torril. Ascoltò deliziato, poi si accorse con disgusto che Ultman nel frattempo aveva incontrato un altro produttore agricolo e stava discutendo di tuberi con lui. Il suonatore di torril imbracciò nuovamente lo strumento e suonò finché la torcia esterna continuò ad ardere. A quel momento, l’oste si oppose alle richieste dei commensali di accenderne un’altra, e mandò via tutti.

La maggior parte delle taverne erano chiuse, e i due arrivarono tentoni fino alla cantina di Ultman, camminando nell’oscurità quasi totale. Forzon non capiva se il suo leggero stato d’ubriachezza fosse dovuto al vino o alla musica del torril.

«Quando siamo usciti questa notte, pensavo che mi avreste portato a conoscere qualcuno della Squadra B» disse, brancolando nello scendere lungo la rampa della casa di Ultman.

Ultman si fermò. «E con chi credete di essere stato tutta la notte? Avete incontrato almeno una dozzina di agenti della Squadra B.»

«Oh!» disse Forzon, allibito.

«Alcuni dei principali desiderano scambiare due parole con voi; ma non c’è premura. Vogliono probabilmente sapere se vi è venuta qualche idea.»

Forzon trattenne un sorriso. «Per convertire il Kurr alla democrazia?»

«Penso di sì. È loro compito preoccuparsi di queste cose. D’altra parte… presumo sia anche vostro compito, come sovrintendente, di preoccuparvene.»

Forzon non aveva mai considerato le sue responsabilità sotto questo profilo, cioè come un obbligo di preoccuparsi. Si addormentò quella sera meno facilmente di quanto avesse previsto.

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