CAPITOLO IV

Giunti sulla costa a bassa quota, girarono in tondo una volta. La brezza di mare della sera era svanita; a tratti le rade nuvole disseminate nel cielo oscuravano la piccolissima luna di Gurnil e dapprima la terra sottostante apparve spaventosamente scura e ostile. Circuitarono una seconda volta e, mentre tornavano sul mare, Forzon, guardando indietro, scorse una luce isolata e più in là, in una valle, il chiarore un po’ incerto di un villaggio avvolto nella nebbia.

Rastadt parlava a voce bassa col pilota. «Sembra a posto» annunciò. «Scendi.»

Calarono in verticale con un boato, e si fermarono. Forzon saltò fuori, per ritrovarsi su una stretta spiaggia sabbiosa. Le onde si frangevano ritmicamente, risalendo la spiaggia fino a lambire i suoi sandali.

Rastadt scese pesantemente accanto a lui, impacciato dalla lunga veste che gli svolazzava addosso, ed emettendo dal lungo naso finto strani suoni sibilanti. «Non c’è molta marea» disse. «Appena quanto occorre per cancellare le tracce sospette.» Si allontanò dall’aereo e mandò cautamente una voce. «Qualcuno dovrebbe essere qui ad attenderci» borbottò.

S’incamminò lungo la riva, girò, tornò indietro. La sua veste, un lungo camicione bianco, raccogliendo la debole luce lunare, lo faceva somigliare a un fantasma ballonzolante. «Siamo in anticipo» disse «ma avrebbero dovuto essere qui. Accidenti! Sarebbe antipatico se capitasse un pescatore.»

Parlò brevemente al pilota e gli voltò le spalle con un gesto di impazienza. «Andiamo» disse a Forzon.

Un basso strapiombo dominava la spiaggia. Rastadt, brontolando che da qualche parte ci doveva essere un sentiero, vagò un poco a tentoni nel buio pesto e infine attaccò un’incerta salita. Forzon raccolse intorno a sé la veste e lo seguì. Arrivato in cima, Rastadt si fermò per riprendere fiato e attese che Forzon lo raggiungesse. Gli sbarrava la vista la profonda oscurità di una densa foresta: oltre questa, su una collina distante, la luce isolata, scorta da Forzon, brillava sempre vivacemente.

«Una fattoria» annunciò Rastadt. «Base campale della Squadra B. Avrebbero dovuto essere qui a riceverci.»

Forzon osservò quel lume, calcolando. Le distanze, nel buio, sono ingannevoli; stimò la distanza a due miglia, tre al massimo, augurandosi che non fossero più di quattro. Dietro di sé poteva scorgere vagamente la spiaggia vuota. L’aeroplano era sparito silenziosamente.

«Ma voi non tornate indietro?» esclamò Forzon.

«Dovevo; ma non posso lasciare un dannato novellino come voi, a vagare da solo in un paese sconosciuto. Dovevano accoglierci, maledizione!» Era ancora ansante. «L’aereo tornerà a prendermi domani sera. Non dovrebbe essere difficile trovare il luogo. È la sola casa fra qui e il villaggio. E laggiù c’è una luce. Andiamo.»

Forzon fece un passo avanti, s’impigliò nella veste e inciampò. «State attento, perbacco!» sbottò Rastadt.

«Scusate» disse Forzon.

«Dovete solo dare al vostro viso un’espressione astratta e nessuno oserà discutere la vostra presenza. Ma se cominciate a inciampare nella vostra veste come se non l’aveste mai indossata prima…»

«Ci riuscirò» disse Forzon.

«Andiamo. Li incontreremo probabilmente per strada.»

Si voltò, inciampò anch’egli nella sua veste e procedettero in silenzio.

Cercarono la loro strada alla cieca fra gli alberi e finalmente arrivarono in un piccolo spazio aperto segnato dai solchi dei carri. La luce distante era nascosta dallo spessore del fogliame e Forzon non vedeva proprio nulla.

«Da qui possiamo seguire la strada» osservò Rastadt.

«Se vedete da che parte va… Avanti, seguitela» disse Forzon.

Mentre esitavano, intorno a loro i cespugli sferzarono ed eruppero, delle mani invisibili afferrarono Forzon, e un oggetto contundente gli sfiorò la testa colpendolo di striscio sulla spalla. Istintivamente Forzon piroettò su se stesso, afferrò uno dei suoi aggressori e lo mandò a rotolare fra gli altri. Risuonarono delle grida e un urlo di dolore. Una voce gridò qualcosa, forse un comando. Forzon evitò un altro paio di mani protese, fece alcuni rapidi passi di lato e si infilò nuovamente fra gli alberi.

Dietro di lui ribolliva la confusione. A un tratto fiammeggiò una torcia e nella luce tremolante egli riuscì a distinguere degli uomini in divisa, con mantelli sino al ginocchio. Si allontanò più presto che poté, maledicendo i cespugli che frusciavano e lo fustigavano a ogni passo.

La sua unica idea era di andare a cercare aiuto. Si sentiva capace di qualsiasi atto di coraggio gli venisse richiesto; ma in un agguato teso a due uomini, nel buio, da una compagnia armata, il coraggio non serviva. Forzon fuggì, dirigendosi verso la sede della Squadra B, nel modo più diretto che gli fosse consentito dal groviglio della foresta. Se Rastadt era fuggito avrebbe senza dubbio fatto la stessa cosa. Se invece era stato catturato, bisognava informare subito la Squadra B. Gli agenti dovevano essere avvisati prima di cadere anch’essi nella trappola.

Le voci della notte erano vertiginose. Gli alberi sussurravano al minimo soffio di vento; degli insetti stranamente musicali facevano sporadicamente udire i loro cori e un uccello notturno emise un bizzarro grido umano di orrore. Avanzando con una fretta disperata, Forzon distanziò presto i suoi inseguitori.

La foresta a un tratto finì. Forzon cambiò direzione e ritrovò la strada. Si mise a correre. La luna uscì da dietro le nubi, e la debole luce accarezzava la sua lunga veste rendendola luminescente. Deciso a non fermarsi neanche quel tanto che bastava a togliersela di dosso, la strinse sul corpo e continuò a correre. Alla sua destra vi era un campo coltivato, a sinistra qualcosa che somigliava a un prato, con una rozza barriera di legno che fiancheggiava la strada. Correva a brevi falcate, inciampando di frequente nei solchi dei carri e quando non poté più correre camminò a passo rapido, respirando affannosamente. Stava risalendo l’ultimo tratto della lunga china che portava alla base campale della Squadra B e già distingueva la sagoma scura della casa sulla cresta della collina, quando improvvisamente la luce si spense.

Arrivato in cima si fermò un attimo, vacillando, e si guardò intorno. Esitò. Laggiù nella valle alcune luci brillavano ancora, tenui come fantasmi, attraverso la nebbiolina. La fattoria era a pochi passi dalla strada, scura e minacciosa anche nei brevi attimi in cui la luna si mostrava; ma la sua sagoma rassicurò Forzon. Riconobbe l’inconsueta architettura che aveva già visto sui dipinti esposti alla base, i muri ricurvi sovrastati da un tetto ingobbato. Si avvicinò risolutamente, inciampò su due bassi gradini che scendevano verso l’ingresso, fece un profondo respiro e bussò.

Di colpo il rumore degli insetti cessò, un uccello represse il suo grido e volò giù dal tetto. Un silenzio misterioso si stese su di lui.

Bussò nuovamente.

La porta si aprì e un uomo gli si parò davanti, tenendo alta una torcia accesa. Indossava un solo indumento simile a una gonna e la luce vacillante si rifletteva pallida sul suo torace e sulle braccia nude. Per un attimo rimase incerto e scrutò Forzon con aria incredula. Poi alzò la mano libera come per proteggersi, lanciò un urlo acuto e lasciò cadere la torcia. Forzon col pensiero sempre rivolto agli inseguitori che lo potevano raggiungere da un momento all’altro, balzò all’interno, raccattò la torcia che crepitava, chiuse e sprangò la porta. Chiese prima in galattico poi in kurriano: «Chi è il capo, qui?». L’uomo indietreggiò, col viso impietrito dal terrore, la bocca spalancata che emetteva suoni incomprensibili. Una donna balzò in avanti con una bambina in braccio. Si gettò gridando sul pavimento e alzò una mano implorante. La bambina dagli occhi immensi aggiunse il suo piagnisteo alla confusione generale.

Forzon si guardò intorno, smarrito, sprecando preziosi secondi nello sforzo disperato di trovare un significato qualsiasi a una situazione assolutamente incomprensibile. Nell’agitazione del suo cervello, le congetture rimbalzavano l’una sull’altra, e ognuna lo lasciava interdetto più della precedente.

Quella non era la sede della Squadra B.

L’uomo di fronte a lui non lo capiva. Trasalì ricordando che al momento dell’agguato erano stati gridati degli ordini che lui non aveva capito.

Questa gente aveva il naso di proporzioni normali. Come il suo al naturale.

Non era in Kurr.

Il suo sguardo, ora pieno di panico, passò rapido in giro per la stanza e si concentrò sulla parete opposta, dove la luce tremolante faceva appena intravedere la sagoma di alcuni dipinti. Alzò la torcia e si avvicinò. Dipinti meravigliosi.

Era nel Kurr.

Gli indigeni non lo capivano e lui non li capiva. La lingua che lui parlava non era il kurriano.

In un lampo d’intuito, capì tutta la malvagia enormità del tradimento di Rastadt. Il coordinatore aveva fatto imparare a Forzon un’altra lingua, gli aveva fatto indossare un costume forestiero che atterriva gli indigeni, come se non bastasse lo aveva munito di un atroce naso finto, lo aveva guidato in un’imboscata, e si era tranquillamente eclissato. Se non fosse stato per il fortunato concorso dell’oscurità e della confusione, Forzon a quest’ora si sarebbe trovato sulla via dell’involontaria pensione in uno di quei villaggi popolati dai monchi di Re Rovva.

Con gli inseguitori alle calcagna, non poteva rimanere dov’era. Non sapeva dove andare.

Gli occhi dell’uomo erano fissi sul viso di Forzon, come ipnotizzato dalla bruttezza arricciolata del suo naso finto a proboscide. La donna fissava la sua veste. Egli riconobbe quella espressione. L’aveva vista spesso nelle gallerie d’arte, nei concerti: il rapimento nell’ammirare la bellezza.

La veste era bella. Fili d’oro lucenti si intrecciavano nel tessuto bianco spumoso. La sua meravigliosa morbidezza possedeva una lucentezza che rifletteva un alone splendente nella luce più fioca.

Forzon si strappò il nasone dal viso, lo buttò in terra, lo calpestò col tacco del sandalo, lo schiacciò con forza. Ma continuava a mantenere la sua forma. Deluso lo gettò nella cenere ardente di un braciere posto sul tavolo. Non bruciò ma si fuse in un attimo diventando un piccolo residuo senza forma. Prese le molle e rimescolò le ceneri coprendolo.

Poi infilò la torcia in un gancio murale e con calma si tolse la veste.

La donna lo guardava a bocca aperta; l’uomo continuava ad emettere gorgoglii isterici. Forzon piegò la stoffa spumosa, ne fece un involto, si avvicinò alla donna, sì inchinò profondamente. «Ecco» disse tetramente. «Ti piace? È tua.»

Lei rimase immobile a guardarlo istupidita. Allora egli pose l’involto in terra, davanti a lei, e si fece indietro. Aveva indosso solamente una muta cortissima che gli era stata assegnata come biancheria personale, e si sentì infreddolito e un po’ ridicolo.

L’uomo guardava fisso la veste come se la notasse appena allora. Disse qualcosa. La donna rispose e mise in terra la bambina in modo da poter stendere una mano, timorosamente e accarezzare la ricca stoffa. L’uomo si avvicinò e cominciarono a parlare agitatamente.

Improvvisamente si udirono delle voci di là dalla porta. Furono bussati tre forti colpi. L’uomo e la donna si guardarono in faccia, poi guardarono Forzon trasognati. I colpi risuonarono nuovamente. Una voce ruggì un comando.

La donna raccolse la veste piegata, sibilò qualcosa all’uomo che alzò la mano come se la sgridasse e filò via, con la stoffa raccolta fra le braccia come se fosse un bambino addormentato. Poi si voltò e sibilò qualcosa a Forzon facendogli un cenno. Egli balzò da una parte per evitare la bambina e di corsa la seguì.

Nella stanza attigua, gli indicò una scaletta verticale e gli venne dietro mentre saliva, tenendo stretta la veste con un braccio. Di là l’uomo aveva aperto la porta su un coro stridente di voci rabbiose. Forzon si ritrovò nell’oscurità, fece alcuni passi prudenti, esitò, la donna gli passò davanti sibilandogli qualcosa di pressante. Egli inciampò in un pagliericcio, ritrovò l’equilibrio e la seguì.

Udì un leggero cigolio e la donna gli diede uno spintone in avanti. Batté il capo e si chinò per attraversare un’apertura nella parete. Poi di nuovo il cigolio.

Tastò tutt’intorno, alla cieca. Si trovava in uno spazio angusto, vicino all’arco del tetto. Non poteva stare né sdraiato né in piedi. Si mise quindi a sedere con la gambe incrociate, appoggiato al muro e attese. Ma la posizione rannicchiata sul pavimento gli divenne presto intollerabile, sebbene nella calma dell’oscurità la sua tensione cominciasse a diminuire. Le voci, giù di sotto, gli pervenivano affievolite, troppo distanti per sembrare minacciose. Alla fine il tonfo della porta sbattuta riportò il silenzio. Forzon si arrese alla stanchezza e si addormentò.

Si svegliò con le braccia e le gambe doloranti, i muscoli intorpiditi, infreddolito e affamato. Ma non notò questi inconvenienti. Una rabbia soverchiante lo divorava. Rabbia contro Rastadt, Wheeler, Ann Cory, Gurnil B-627, l’ERI, e il paese di Kurr.

Il suo nascondiglio era fiocamente rischiarato da una larga V rovesciata, tagliata ad angolo leggermente discendente nel muro. Nei dipinti, aveva erroneamente preso quei segni per degli ornamenti architettonici; ma questo, evidentemente, aveva anche uno scopo funzionale, quello di lasciare entrare un po’ di luce e d’aria, pur tenendo fuori buona parte delle intemperie. Si levò in ginocchio e sbirciò all’esterno. Vide solo un angolo molto comune di campagna, un tratto di suolo agricolo impoverito, strozzato fra la costa e le sterili colline.

«Sarebbe questa, la terra favolosamente ricca del Kurr?» esclamò.

Cominciò a guardarsi intorno. Si trovava in uno stretto stambugio chiuso su tre lati da pareti dritte e sul quarto dal muro esterno della casa, fortemente incurvato. Il tetto formava un arco proprio sul suo capo. Le pareti sembravano compatte e non riuscì a capire come fosse entrato lì, finché, tastando lungo la base di una parete, non scoprì che un’asse stava su un perno molto alto. Il peso stesso dell’asse la manteneva a posto e premendo su di essa, dall’altra stanza, non la si sarebbe mossa, a meno di esercitare la spinta molto in alto.

Tutto ciò era molto interessante ma non particolarmente utile. Continuava ad essere affamato, indolenzito, infreddolito. E rabbioso.

Il tempo passava. Si immerse in una diligente rassegna di tutti gli avvenimenti da quando era arrivato a GurniI; ma, per quanto ricordava, nessun fatto gettava la minima luce sull’incredibile situazione in cui si trovava: la base campale della Squadra B che non c’era, i Kurriani che non avevano né la lingua né il naso previsti, il mistero della sua veste sacerdotale, la condotta del coordinatore.

L’asse scricchiolò e ricadde a posto con un tonfo attutito. Nel suo nascondiglio era stata introdotta una ciotola cilindrica e profonda. Un solo arnese per mangiare, munito di punte, sporgeva dall’alto. Forzon annusò famelicamente, ficcò l’arnese nella ciotola, infilzò qualcosa. Era una pallottolina di pane con una crosta spessa ed elastica. Ai colpi successivi pescò dei pezzi di carne e di verdura; mangiando sorbiva un brodo fumante, denso come una salsa. Aveva uno strano sapore agrodolce, ma lo sorbiva con piacere.

Quando ebbe finito, spinse in su l’asse oscillante e strisciò fuori. Il piano superiore era diviso in due locali da un’ampia parete che conteneva ripostigli e, nascosto contro il muro esterno, il suo nascondiglio. Forzon fece il giro di entrambi i locali, sbircando attraverso le V rovesciate. Il villaggio, pacificamente adagiato nella valle sottostante, pareva deserto. Così pure la strada che aveva seguito la notte prima, appena segnato dall’intrico delle carreggiate coperte d’erba. Una dipendenza sorgeva a breve distanza dal retro della casa, di cui era una ripetizione in miniatura. Un animale d’aspetto strano posava il muso enorme e brutto su una mezza porta e fissava placidamente il paesaggio vacuo. Tutto pareva cupamente sereno e privo d’interesse.

La donna doveva avere udito che si era mosso. Si arrampicò spaventata sulla scaletta. Ne seguì una deludente pantomima nella quale Forzon si tirava gli abiti e tentava di far capire alla donna che desiderava qualcosa per vestirsi. Sulle prime la donna lo osservò istupidita. Anche quando Forzon ebbe la certezza che l’aveva capito, lei rimase cupamente indifferente. Finalmente, con molta riluttanza si diresse in un angolo della stanza, quello opposto al nascondiglio, alzò un’asse e gli offrì… la sua veste.

Egli rifiutò con sonore proteste agitando il braccio, il che fece salire il marito di corsa, L’uomo indossava un camicione lungo sino al ginocchio, senza maniche, con un ampio collare che copriva le braccia come una mantellina. Sotto la camicia portava una gonna lunga sino alla caviglia. Forzon gli toccò le vesti e rifece la sua pantomima finché finirono per capire e gli portarono degli abiti.

Lo lasciarono ed egli, dopo essersi vestito, si accovacciò sul pavimento a guardare il villaggio attraverso una feritoia. Per circa un’ora o più affrontò con decisione la realtà della sua situazione e quand’ebbe finito non era approdato a nulla: non poteva rimanere dov’era, continuava a non avere alcun posto dove andare, e non gli veniva in mente come potesse rimediare.

Scese cautamente la scala a pioli. La bambina nuda giocava in una rete che pendeva dal soffitto. Lo guardò spalancando gli occhi, con una timidezza che inteneriva e cinguettò qualcosa quando lui le fece delle boccacce. La donna era al lavoro nei campi, guidando la bestia sgraziata che era attaccata a un attrezzo agricolo. L’uomo non si vedeva da nessuna parte.

I quadri richiamarono l’occhio di Forzon, che, spostata una panca nell’angolo della stanza, si sedette a esaminarli con ammirazione. Pittura di tale qualità, in una semplice fattoria!

Erano solo sette quadri. Uno, assai vecchio, con urgente bisogno di un restauro, era il ritratto di un uomo e di una donna. Un altro, un paesaggio in cui compariva la nota forma della casa a fungo, era probabilmente un vecchio dipinto di quella fattoria. Gli altri erano ritratti di persone o di gruppi familiari; il più recente, quello degli attuali padroni di casa, era così fresco che la pittura non pareva neppure asciutta. I colori erano trattati con una tecnica ardita, ma decisamente inferiore, e Forzon temette che l’alto livello della pratica pittorica kurriana, che aveva prodotto i quadri più antichi, stesse declinando, soffocato, forse, da monarchi oppressori.

Comunque… dei simili dipinti in un simile luogo! E Forzon considerò con uno stupore reverenziale ciò che si poteva pensare di una cultura in cui ogni agricoltore possedeva una galleria di quadri privata.

Il tempo passava. Un cigolio lontano venne a interrompere la sua fantasticheria. La bambina lo guardava silenziosamente. La posizione del sole diceva che era il pomeriggio inoltrato. Aveva sprecato varie ore su sette dipinti! Scontento di sé, li scrutò un’ultima volta, cercando qualcosa che spiegasse quella sua fuga ingiustificata dalla realtà, ed esclamò: «I nasi!»

Le proporzioni dei nasi, in quei ritratti, erano normali. Come lo erano quelle dei nasi nei ritratti visti alla base. Sapeva che quei dipinti provenivano dal Kurr, e tuttavia si era lasciato affibbiare quel grugno grottesco che doveva farlo sembrare un Kurriano!

«Il coordinatore mi ha preso per il cretino che sono» rifletté tristemente.

Il cigolio si udiva più forte. Forzon fece il giro delle finestre provviste di scuri, ma non riuscì a localizzarne la fonte. Salì al piano di sopra e vide un gruppo di soldati che, dal villaggio, veniva su per la collina, scortando un carro trainato da quella stessa specie di animale che il contadino possedeva. Lo scricchiolio sonoro proveniva dagli assi di legno delle ruote del carro.

Il gruppo giunse più vicino, e Forzon vide che sul carro c’erano due passeggeri: un uomo, disteso supino e immobile sul fondo; e una donna grassa, dal viso arrossato, che sedeva impettita sulla panca anteriore del carro. Entrambi indossavano il costume dei contadini, e nessuno dei due pareva degno d’interesse; ma Forzon li osservò attentamente, pensando che dei contadini ai quali si concedeva una scorta militare non dovevano essere contadini comuni.

Non lo erano, infatti. Egli non aveva mai visto l’uomo; ma, quando la donna fu abbastanza vicina per vederne il profilo, notò il nasino all’insù e la curva delicata delle guance, che nessun travestimento poteva nascondere all’occhio di un uomo esperto nella valutazione estetica delle linee e delle forme.

Era Ann Cory, Gurnil B-627, e il sussulto di Forzon nel riconoscerla mandò a posto, di colpo, alcune tessere del complesso rompicapo nel quale egli era coinvolto. Era evidente che due membri della squadra B avevano tentato di venirgli incontro ed erano rimasti vittime dello stesso tradimento che per un pelo non aveva intrappolato Forzon. Ann aveva mani e piedi legati. Anche il suo compagno era legato.

Passando di feritoia in feritoia, Forzon seguì con lo guardo il carro, finché non scomparve nella lontana foresta. Quando svanì, la situazione non gli pareva più chiara di quanto non lo fosse al mattino, ma almeno sapeva ciò che doveva fare.

Frugò un po’ dappertutto nelle stanze a pianterreno finché non trovò ciò che cercava: un coltello. Ovviamente molte altre cose gli sarebbero tornate utili, ma non riusciva a pensare ad altro che ad Ann, mani e piedi legati. Il coltello a falcetta sembrava rudimentale; ma era un inganno, perché aveva l’orlo irregolare talmente affilato da fare uscire del sangue, quando Forzon lo provò sul pollice. Si accorse con disappunto che non aveva tasche ed avviluppò il coltello nella sua mantella.

Fece una smorfia d’addio alla bambina, augurandosi sinceramente che la breve visita fatta ai suoi genitori non l’avrebbe resa orfana, lanciò un ultimo sguardo ai dipinti e fuggì dalla casa.

Intuiva che ogni sconosciuto che viaggiasse su quella strada, in quel giorno, sarebbe apparso sospetto; altrimenti, perché due esperti agenti della Squadra B sarebbero stati catturati? Ma non osò attendere la notte. La strada poco segnata aveva forse delle svolte improvvise, che gli potevano sfuggire, e delle biforcazioni che gli avrebbero imposto una scelta disperata, e con la posta in gioco, che era la salvezza di Ann Cory e del suo compagno, il meno che potesse fare era di non perdere di vista il carro e mandare al diavolo l’eventualità di un pericolo.

Si mise a correre.

Arrivato nella foresta si fermò per riprendere fiato e per ascoltare. Lo scricchiolio non si udiva più e la foresta pareva oppressivamente immobile e minacciosa. Non vi era la minima brezza. Le larghe foglie ovali degli alberi, che la notte prima si facevano udire chiaramente, pendevano ora immobili nel silenzio.

Alzando lo sguardo per osservarle Forzon fece una scoperta. Il tronco di tutti gli alberi cresceva dritto sino a una certa altezza, press’a poco tre metri, poi tutti gli alberi s’incurvavano nella stessa, identica maniera. Aveva scoperto nello stesso momento la linea che aveva ispirato i muri sporgenti dell’architettura kurriana e la tecnica che aveva permesso di realizzarli. Non ricordava un miglior esempio d’influenza diretta di un materiale edile su uno stile architettonico. In effetti…

Il carro. O egli aveva impiegato più tempo di quanto avesse previsto, o il carro si era fermato. Abbandonò la strada ed entrò nella fitta boscaglia.

Era difficile andare avanti e dovette procedere con tortuosa cautela per non interrompere con un fruscio di rami l’immobile silenzio. Camminò a lungo, era in un bagno di sudore. Scartava i rami davanti a sé, fermandosi di frequente per udire il rumore del carro. Alla fine, convinto che il suo procedere difficile non gli avrebbe permesso di raggiungerlo, stava per lanciarsi sulla strada quando udì un grido in lontananza. Fece qualche passo e si trovò sull’orlo della foresta. Si lasciò cadere a terra e scartando i cespugli guardò davanti a sé.

Sul pendio sottostante era piantato un accampamento militare. Dai vari carri erano stati slegati gli animali da tiro che ora pascolavano placidamente all’ombra. Vi era un fuoco acceso per cucinare e si vedevano mucchi di paglia sparsi, che dovevano essere dei giacigli. Egli contò sette soldati in piedi intorno al fuoco, che aspettavano il loro turno vicino al pentolone del rancio.

Non si vedeva alcun segno di Ann Cory e del suo compagno.

Sembrava che il campo fosse stato piantato da parecchi giorni. Arrivando con l’aereo egli non aveva notato alcuna luce, ma i soldati abituati alle notti gelide e comodamente avvolti nella paglia non avevano bisogno di tenere accesi i fuochi. A malincuore dovette ammettere che l’agguato era forse stato involontario, una strana coincidenza li aveva portati a imbattersi in una pattuglia di soldati.

Ma allora, dov’era il coordinatore?

«Era truccato esattamente come me» borbottò Forzon. «Naso, veste lunga… lingua? Forse nel Kurr si parla più di una lingua e il suo popolo ha vari tipi di naso, e noi non siamo scesi nel punto giusto. Ma non è il momento di risolvere indovinelli. Dov’è Ann? Non l’hanno riportata indietro per la stessa strada, altrimenti li avrei uditi. Se si fossero diretti verso le colline sarebbero ancora in vista. Molto probabilmente quel gruppo che aspetta il rancio è la sua scorta, e un’altra le ha dato il cambio, proseguendo col carro verso nord, sulla strada costiera. In questo caso sarà bene mi diriga a nord, e alla svelta!»

Non poteva superare l’accampamento dal lato di terra che a prezzo di un ampio giro pericoloso, e che costituiva una gran perdita di tempo. Si avviò quindi verso il mare, ridiscese la scogliera che aveva salito con Rastadt e corse lungo la stretta spiaggia fino a lasciarsi molto indietro l’accampamento.

L’altezza della scogliera era cresciuta. Egli continuò ad avanzare, cercando un punto dove potesse ricominciare a salire. Era quasi sera quando finalmente poté raggiungere la cima e riprese la strada. Questa nasceva da un fitto bosco e correva lungo una stretta sporgenza rocciosa, incolta, nel punto dove le colline si avvicinavano al mare. Da lì vedeva un lungo tratto di costa sino al punto in cui la scogliera si abbassava gradatamente e la strada faceva una svolta per poi dirigersi verso una bella campagna coltivata. Il carro non si vedeva.

Forzon si disse con ottimismo che il passo lento dello sgraziato animale da tiro non poteva averlo portato oltre l’orizzonte. Fece dietro-front, rientrò nella foresta che già si oscurava, e si addentrò nella boscaglia per aspettare.

Presto udì il carro con il suo cigolio acuto, che cresceva a mano a mano che si avvicinava, sino a diventare un rumore lacerante che rompeva i timpani. Attraverso un’apertura nel denso fogliame ebbe una breve visione del muso bavoso della bestia, e vide le mantelline svolazzanti di tre soldati in marcia.

Solo tre. Sul momento Forzon si sentì rincuorato. Ma quando il corteo uscì dall’oscurità della foresta e venne all’aperto nella luce crepuscolare, guardò un’altra volta il carro e contò sette soldati. Ann sedeva ancora, eretta, sul davanti del carro. Il suo compagno, sempreché si trovasse ancora con lei, era nascosto dalle sponde del carro.

Forzon si sedette sul limite del bosco e seguì il carro con gli occhi finché non scomparve nell’oscurità che calava rapidamente. Poi cominciò a seguirlo.

Quando le tenebre lo avvolsero completamente, egli vide una luce vacillante molto in là sulla strada. Si mise a correre e aveva quasi raggiunto il carro quando si rese conto che uno dei soldati camminava in testa al gruppo brandendo una fiaccola. Gli altri marciavano ai lati del carro, tre per parte, e le loro figure si stagliavano contro quel debole chiarore.

La piccola luna era come un puntino luminoso sull’orizzonte del mare, ancora troppo bassa nel cielo perché il suo debole chiarore potesse contare. Forzon non perdeva di vista il carro e mentre col pensiero cercava di organizzare un piano di attacco, col piede inciampò proprio sull’arma di cui aveva bisogno: un sasso. Immaginò subito un piano veloce. I soldati erano come ipnotizzati dall’oscurità, dal lampeggiare della fiaccola, dal costante, assordante cigolio del carretto, dalla monotonia di una missione che assegnava sette soldati a far la guardia a due prigionieri legati. Nell’impossibilità perfino di parlare fra loro senza gridare, camminavano con passo uniforme, meccanico, gli occhi fissi davanti a sé, la mente rivolta chissà dove tranne che sulla strada buia alle loro spalle.

Uno di quei soldati era a tal punto immerso nei suoi pensieri che si era staccato dal gruppo ed era rimasto un po’ indietro.

Forzon gli balzò addosso senza esitare, lo colpì alla nuca e si buttò su di lui, disteso, per colpirlo ancora se si fosse mosso. Gli altri continuarono la loro marcia. Anche se fossero stati all’erta, non avrebbero udito nulla, a causa del continuo frastuono del carro, né avrebbero veduto ciò che accadeva nell’oscurità assoluta che cominciava a pochi passi dalla fiaccola. Ad ogni modo non erano all’erta.

Forzon sfilò i lacci dai sandali della sua vittima, e con quelli legò ben stretti mani e piedi dell’uomo. Lo fece rotolare oltre il ciglio della strada su un piccolo prato. Raggiunto poi il carro, abbatté un’altra vittima, e l’abbandonò come la prima, inconscia e legata.

La cosa pareva fin troppo facile. Quando ebbe liquidato quattro membri della scorta, egli era inzuppato di sudore, tutto agitato per la paura di causare, con il suo nervosismo, qualche stupido incidente a pochi minuti dalla riuscita. Gli altri soldati camminavano vicino alla luce e dubitò di poterne attaccare uno senza che gli altri se ne accorgessero. Roteò il sasso. Il soldato cadde. Forzon aspettò che il carro lo oltrepassasse e si precipitò sui suoi lacci.

Con sole due probabilità contro una, Forzon si sentì troppo sicuro, colpì a striscio e dovette colpire una seconda volta quando l’uomo piroettò su se stesso e Forzon si trovò a faccia a faccia con lui. Il soldato con la fiaccola, abbagliato dalla luce quanto gli altri, non si volse minimamente a guardare.

E se lo avesse fatto nel momento cruciale? Forzon si issò nel carro arrampicandosi dalla parte posteriore, strisciò vicino all’uomo disteso e con sicurezza applicò il coltello sui lacci che tenevano legate le mani di Ann. Perlomeno, se egli non fosse riuscito ad annientare l’ultimo avversario, Ann sarebbe stata in grado di fuggire per conto suo.

Lei non mostrò alcuna sorpresa, non fece alcun movimento, si chinò solo all’indietro e avvicinando il suo labbro all’orecchio di Forzon gli disse:

«Chi sei?»

Le rispose col labbro sull’orecchio: «Forzon.»

«Forzon?»

La mani erano ormai libere. Allungò il braccio e cercò le caviglie. Tagliò i lacci e si voltò verso il suo compagno. Il respiro del poveretto era così debole che sulle prime Forzon pensò fosse morto. Non si mosse neppure quando Forzon gli ebbe liberato le mani e i piedi.

Ann gli pose di nuovo le labbra all’orecchio e pronunciò soltanto: «Fate presto.»

Forzon si lasciò calare sulla strada e corse in avanti per sferrare ciò che sperava fosse il suo ultimo colpo. Il soldato stramazzò. La fiaccola cadde e si mise a crepitare, l’animale si fermò. Lo scricchiolio del carro cessò così improvvisamente che le orecchie di Forzon vibrarono per l’inatteso silenzio.

«Non lasciate spegnere la fiaccola!» gridò Ann.

Egli la piantò nel terreno mentre legava il soldato, poi raggiunse la ragazza che stava già emettendo una chiamata per mezzo di un comunicatore portatile, tolto da una cavità segreta sul fondo del carro. «Sei-due-sette. Emergenza» disse.

«Parla, sei-due-sette.»

«Ho il pacco. Occorre contatto medico di emergenza.»

«Il pacco è…»

«No, non il pacco.»

«Capisco. Io al momento sono solo. È molto grave?»

«Situazione critica» disse senza espressione. «Domani sera sarebbe troppo tardi.»

«Cerco uno spiazzo per l’atterraggio. Arrivo.»

Il doppio fondo del carro conteneva anche un corredo di pronto soccorso e una bottiglia d’acqua. Ann tagliò gli abiti dell’uomo, intrisi di sangue, ripulì e fasciò una ferita aperta nel suo costato.

«Che cos’è successo?» chiese Forzon.

«Un soldato l’ha trafitto con la lancia. Ha bisogno di una trasfusione. Per il momento io non posso fare di più.»

Scese dal carro e si guardò intorno, aggrottando la fronte e pestando il piede con impazienza. Il suo aspetto e il suo comportamento erano quelli di una massaia contadina, rozza e risoluta. Forzon che ricordava perfettamente la femminile fragilità della ragazza al loro primo incontro alla base, si accorse di guardarla con curiosità stupita.

«Non è prudente far scendere l’aereo in uno spazio aperto così vicino alle abitazioni» disse lei. «Dobbiamo tornare indietro.»

«Abitazioni?» Con l’attenzione tutta rivolta al carro, egli non le aveva notate. Avevano attraversato fertili campagne e la luce di una fattoria vacillava debolmente a breve distanza davanti a loro.

«Spero che i soldati che ho legato non si liberino da soli e non diventino vendicativi» disse Forzon.

«Dobbiamo slegarli» annunciò Ann.

«Slegarli…?»

«Questa strada è poco frequentata e se non liberiamo quegli uomini nessuno forse li ritroverà. D’altra parte se qualcuno li trova verranno castigati e spediti con un ordine di andata senza ritorno in uno di quei villaggi dei monchi cari a Re Rovva. Le sue vittime sono già abbastanza numerose senza la collaborazione della Squadra B.»

«Se lo ritenete prudente…»

«Andranno immediatamente a sud» disse con sicurezza. «Vi si trova una giungla acquitrinosa dove i fuggiaschi possono nascondersi finché i loro delitti siano dimenticati. La Squadra B vi mantiene un agente che li aiuterà. In quanto a noi, più fuggiaschi ci sono e meglio è.» Andò in testa al carro e colpì la bestia sul fianco. «Questo animale è un esg. Di notte non cammina se non vi è qualcuno che gli faccia strada con una luce.»

Voltarono il carro facendogli fare dietro-front in un cerchio ristretto. Forzon liberò l’ultimo soldato colpito, sempre inconscio, poi camminò innanzi con la fiaccola, scrutando il ciglio della strada per ritrovare le sue vittime. Erano tutte inconsce salvo due, che, rassicurate dalle parole che Ann disse loro in Kurriano, si diressero verso sud più speditamente che potevano.

Arrivati al mare, Ann cercò una striscia di spiaggia adatta, poi spogliarono il carro di tutto il suo materiale segreto. Forzon lasciò Ann col ferito e condusse l’esg nella foresta, spinse l’animale più che poté nel folto del bosco e lo lasciò libero. All’alba, avrebbe vagato finché qualche contadino non se ne fosse appropriato.

Tornò correndo alla spiaggia e trovò l’aereo che lo aspettava col ferito già imbarcato. Decollarono immediatamente e volarono bassi sul mare. La costa pareva una lunga macchia oscura nel punto ove finiva la fosforescenza del mare. Ann si volse bruscamente verso di lui. «Come vi siete salvato?»

«Non lasciandomi catturare» rispose Forzon.

Lo guardò, incredula. «La lingua che vi hanno fatto imparare era il Larnoriano. Indossavate la veste di un sacerdote larnoriano, e i sacerdoti larnoriani sono gli orchi di tutte le favole kurriane. Vi avevano affibbiato un finto naso larnoriano, e anche se la zona non fosse stata infestata di soldati, non sareste rimasto in libertà più di un’ora. Dove vi siete procurato gli abiti di contadino?»

«Con uno scambio. Ho dato la mia veste.»

«Che cosa?»

«Ho barattato…»

«Non è possibile! Nessun Kurriano la toccherebbe. Se gli sbirri del re scoprissero un contadino con la veste di un sacerdote larnoriano, gli toglierebbero qualcosa di più di un braccio. I contadini lo sanno. Dove vi siete procurato quell’abito da contadino?»

«Ve l’ho detto. Sapete dove si trova ora il coordinatore Rastadt?»

«Rastadt?»

Forzon annuì. «Sono successe tante cose da ieri che l’avevo quasi dimenticato. Eravamo insieme quando i soldati ci sono saltati addosso. Dopodiché non l’ho più visto. Sulle prime credevo che mi avesse portato in un tranello; ma ora non ne sono tanto sicuro. Era vestito esattamente come me.»

Lei disse freddamente. «Non so assolutamente nulla di lui. Nessuno l’ha visto.»

«È strano.»

«Suppongo abbia barattato la sua veste per una divisa e si sia arruolato nell’esercito di Re Rovva» disse sarcasticamente. «Dove vi siete procurato quell’abito?»

Egli non rispose e lei non aggiunse altro. Forzon sonnecchiava e si svegliò di colpo quando il ronzio profondo del motore cambiò frequenza. Sotto di loro si estendeva una stretta e lunga penisola, ove tremolava una luce. Fecero alcuni giri, rallentarono e scesero rapidamente. La terra si aprì per riceverli.

L’aereo si fermò in un hangar sotterraneo. Mani attente e veloci sollevarono il ferito, poi Ann saltò a terra, Forzon la seguì e rimase in piedi, sbattendo le palpebre nella luce abbagliante della rimessa.

«E così, voi siete l’intendente» disse un giovane, stringendo la mano a Forzon.

«Dice di essere l’intendente» aggiunse Ann freddamente.

Il giovane inarcò le sopracciglia: «Dice…?»

«Ci sono molte cose che non ha detto e altre che ha detto ma che richiedono una spiegazione. Desidero sia guardato a vista finché non torna Paul… così, per misura precauzionale.»

Загрузка...