CAPITOLO XII

Andarono solo fino alla guarnigione reale, dove una specie di tenda fu eretta in quattro e quattr’otto sopra il carro. Forzon era seduto all’interno, con le mani e i piedi legati, così com’era legata Ann Cory quando egli l’aveva salvata, e pensò che questa volta avrebbe imparato la pazienza. Il tempo passava, il carro rimaneva immobile, e la tenda divenne presto soffocante per il caldo. L’agente del re e il comandante della guarnigione si erano portati in disparte ed erano impegnati in una violenta, interminabile discussione.

Finalmente il carro si mosse, e il suo scricchiolio coprì le loro voci. Molto più tardi, quando una sosta permise a Forzon di riposare, si accorse che entrambi camminavano dietro il carro, con la scorta, sporchi di polvere, muti come sassi.

«Allegri!» disse loro. «Forse la ricompensa basterà per due.»

Lo fulminarono con lo sguardo.

Chiese loro di lasciare aperto un battente di tela, per la ventilazione; ma sdegnosamente richiusero l’allacciatura della tenda, e il carro proseguì il suo cammino, scricchiolando e, sobbalzando nel pomeriggio già avanzato. La notte portò freschezza e un guizzo di luce proveniente dalla torcia del soldato che camminava davanti all’esg. Forzon si lasciò cadere all’indietro, sulle dure assi del carro, e cercò di riposare. Sapeva che la strada accidentata e l’incessante fracasso delle ruote rendevano il sonno impossibile. Al primo mattino giunsero alla successiva guarnigione, dove lo slegarono per un momento e gli diedero da mangiare.

Venne l’alba e con essa la sferza del sole implacabile, e gli fu rifiutata nuovamente la minima ventilazione. «Ma perché?» chiese Forzon. Non risposero.

Egli conosceva la risposta. Il re temeva la Squadra B, e aveva fatto il ragionamento che se Forzon fosse stato trasportato a Kurra apertamente, gli onnipresenti agenti ERI avrebbero certamente saputo della sua cattura e l’avrebbero liberato in qualche punto del suo viaggio.

Il re era più prudente del necessario, poiché la Squadra B era così certa dell’incolumità di Forzon che lo aveva abbandonato a se stesso, isolato. La prima volta che avrebbe cercato di mettersi in contatto, nessun possibile aiuto della Squadra B avrebbe più avuto un’utilità per l’Intendente Jef Forzon.

Il carro cigolava e rimbalzava senza posa, un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’altro e Forzon imparò la pazienza. Capì che avevano raggiunto Kurra perché le irregolarità della strada cessarono di colpo e le ruote rimbalzarono uniformemente sul selciato di pietra. Alla fine, il carro si fermò, e dietro di esso, il colpo di un cancello che si chiude risuonò nel silenzio improvviso.

Un soldato allungò il braccio dentro il carro e liberò Forzon dai suoi lacci. Egli tentò di uscire dal carro, ma con gli arti intorpiditi non vi riuscì ed evitò una brutta caduta solo perché il soldato lo afferrò all’ultimo momento. L’agente del re e il comandante della guarnigione imprecarono simultaneamente. Forzon trattenne un sorriso. Almeno per il momento, la sua incolumità stava a cuore a qualcuno.

Fiancheggiato dai soldati che lo sollevarono quando le sue gambe cedevano, Forzon percorse rapidamente un labirinto di corridoi e di rampe, dove la luce del giorno non penetrava mai, lunghi tratti di oscurità debolmente punteggiati dalle torce infilate nei bracci murali. Arrivati nella parte superiore del castello si fermarono davanti a una porta molto alta. Un gruppo di sentinelle nell’uniforme della Real Casa prese in consegna Forzon, lo perquisì diligentemente e lo spinse nella stanza. L’agente, il comandante la guarnigione e la scorta di Forzon furono lasciati fuori della porta, con un palmo di naso.

Forzon, gradatamente ritrovava la sensibilità delle gambe; riuscì a camminare con passo fermo; ma mentre attraversavano la lunga stanza, egli provò una profonda delusione. Durante tutto quel lungo, tedioso viaggio, l’unica cosa nella quale aveva ansiosamente sperato, era di trovarsi a faccia a faccia con Re Rovva. Invece l’uomo che sedeva lì su una specie di trono non era il re.

Le guardie fecero l’inchino rituale, piede sinistro in avanti, ginocchio piegato, e quando si rialzarono guardarono Forzon indignate. «Inchinati al Ministro del tuo Re!»

«Non è il Ministro del mio Re» disse Forzon pacatamente.

Sguainarono le sciabole; ma Forzon rimase ostinatamente eretto.

«Fatelo sedere» disse il ministro.

Forzon fu legato molto stretto a una sedia. Le guardie ripeterono l’inchino e si ritirarono sino a metà stanza. Forzon trattenne un sorriso. Le sue parole non erano destinate alle orecchie dei subalterni, il che significava che Re Rovva teneva tuttora il suo popolo all’oscuro dell’esistenza della Squadra B.

Il ministro lo guardò dall’alto in basso, freddamente. Era un uomo giovane, dalla figura slanciata, indossava il comune vestito da passeggio dell’alta classe borghese di Kurr. Troppo lontano dall’aristocrazia per poter indossare le vesti di corte, ma di condizione sociale così elevata da non avere bisogno di uniforme, quell’uomo era salito così in alto, che un capitombolo sarebbe stato fatale. E lo sapeva.

«Jef Forzon?» gli chiese.

«È il mio nome» rispose Forzon. «E voi?»

«Gasq, Primo Ministro del Re.»

«Onorato.»

Gasq lo guardò perplesso. «Davvero?»

«Non è un onore, forse, ottenere udienza dal Primo Ministro di Kurr?»

Gasq aggrottò la fronte. «Dov’è Paul Leblanc?»

«Non ne ho la minima idea.»

La fronte di Gasq si aggrottò maggiormente. «Quand’è che l’avete visto per l’ultima volta?»

Sebbene disperata la situazione di Forzon aveva sfumature esilaranti. Re Rovva aveva impiegato mesi di indagini per catturare l’uomo che considerava il più importante personaggio straniero del Kurr, e questi ne sapeva meno, sulla Squadra B, del più inesperto pivellino ERI. La totalità delle informazioni utili che Forzon avrebbe potuto fornire al re, era poco meno che niente. Per questa ragione Forzon aveva deciso di dire, con la debita moderazione, la verità, finché coloro che lo avevano in mano non fossero abbastanza convinti della sua sincerità, da permettergli di mentire con efficacia.

Rispose: «Ho visto Paul Leblanc per l’ultima volta prima di lasciare Kurra e recarmi nella moncopoli.»

«Dove lo avete visto?»

«Non conosco la città abbastanza bene per potervelo dire. Era un grande appartamento al piano superiore di un edificio. Dalle finestre si vedeva oltre le mura.»

«In quale direzione?»

Forzon fece finta di pensare. «Non lo so» disse finalmente. «Temo che la periferia di Kurra mi sembri proprio tutta uguale, in qualsiasi direzione la si guardi.»

«Potreste ritrovare quell’edificio?»

«Ne dubito. Vi sono andato di notte. Quando l’ho lasciato ero chiuso in un carro. Ho visto poca cosa sia all’andata sia al ritorno. E poi tutto quanto è successo molto tempo fa.»

«Dov’è Sev Rawner?»

«Non ne ho la minima idea.»

«Quando l’avete visto per l’ultima volta?»

«Lo stesso giorno in cui ho visto Paul Leblanc.»

Gasq si chinò in avanti ansiosamente.

«L’ho visto quando lasciavo Kurra… quando camminavo per le strade, diretto alle porte cittadine. L’ho visto da lontano, che attraversava una strada.»

Ci volle a Gasq qualche minuto per nascondere il suo disappunto.

«Dove andava?»

«Non ne ho la minima idea.»

«Chi era la donna che è venuta a visitarvi quando si trovava nella moncopoli?»

«La conosco col nome di Ann Cory.»

«Ha altri nomi?»

«Tutti gli agenti della Squadra B hanno varie identità.»

«Dov’è ora Ann Cory?»

«Non lo so.»

«Quanti sono gli agenti della Squadra B?»

«Non ho mai visto il ruolino completo.»

«Siete il Sovrintendente coordinatore di questo pianeta e non sapete quanti agenti lavorano per voi?»

«Lo sapete voi qual è il compito di un sovrintendente coordinatore ERI?» chiese Forzon in modo brusco.

«No.»

«Neanch’io.»

Gasq era caduto nella trappola. Abbandonò l’argomento, il che significava che Rastadt lo aveva accuratamente istruito in merito all’Intendente di Settore Sovrintendenza Culturale Jef Forzon.

«Che cosa facevate nel villaggio dei monchi?»

«Mi nascondevo» disse Forzon. «Mi nascondevo in attesa che la Squadra B escogitasse una qualche maniera di farmi uscire dal Kurr.»

«Perché Ann Cory è venuta a trovarvi?»

«Per dirmi che dovevo rimanere ancora lì.»

Vi furono altre domande. Forzon indicò di buona voglia i pochi agenti che egli conosceva. Sapeva che Rastadt aveva già fornito le stesse informazioni, e comunque tutti gli agenti avevano modificato le loro identità e la loro apparenza, di modo che le loro fotografie di schedario non potessero ormai più servire a Gasq.

Finalmente Gasq fece un cenno alle guardie che vennero avanti, slegarono Forzon e questi si rimise in piedi.

«Le vostre risposte non sono esaurienti» annunciò Gasq. «Fra i servitori più fedeli del re ve ne sono alcuni specializzati nel convincere i prigionieri a dire la verità. Ve li faremo conoscere la prossima volta.»

Mentre Forzon se ne andava, notò in alto, sulla parete, una finestra che dava nella stanza in cui si trovava. Seduta alla finestra si vedeva una figura tondeggiante avvolta in ampie vesti: Re Rovva. Per un attimo i loro sguardi s’incrociarono e Forzon sostenne coraggiosamente lo sguardo del re.

Poi le guardie rifecero l’inchino e portarono via Forzon.

Mentre andavano verso la porta, Forzon studiò l’ambiente nel quale si trovava. Il castello era stato costruito all’epoca in cui gli architetti kurriani si erano accorti che due alberi curvi messi di fronte uno all’altro formavano un arco, e avevano applicato con esuberanza questa loro trovata nella enorme sala delle udienze. Il locale era fitto di archi ornamentali che si curvavano al disopra della sala come le costole scarnificate di un gigante morto da decenni. La volta del soffitto, che appena si vedeva tanto era alta, era solcata dalle ombre degli archi. Le torce nei loro bracci a muro, erano allineate da una parte della stanza. Dall’altra, attraverso le finestre-feritoie, Forzon ebbe una rapida visione della vasta piazza prospiciente il castello, e degli edifici situati oltre questa.

L’agente e il comandante della guarnigione aspettavano ansiosamente fuori della porta. «Che peccato!» mormorò Forzon con ironica sollecitudine. «Avreste dovuto farvi consegnare il premio prima del mio interrogatorio.»

Dopo un altro tortuosissimo tragitto nel labirinto di corridoi, fu accompagnato alla sua stanza. Si aspettava di trovare una segreta. Gli davano invece una stanza più adatta a un ospite d’onore che a un prigioniero. Era grande, lussuosamente arredata; ma era ugualmente una prigione. La porta pesante si chiuse con un tonfo, fu sprangata dal di fuori ed egli si ritrovò solo.

Le finestre-feritoie guardavano su un cortile chiuso, molti metri più in basso. Le esaminò con cura e capì che nessuno sciopero della fame, per lungo che fosse, avrebbe permesso a un adulto di usarle per scappare. Esaminò allora i tagli a zigzag della porta stessa. I suoi occhi incontrarono quelli di una guardia e vide altre guardie, accoccolate nella curiosa posizione che a Kurr era ritenuta militare.

«È chiaro che non mancherò di gente che si occupa di me» si disse Forzon, e cominciò a sentirsi meno ottimista. Anche se gli agenti della Squadra B scoprivano dove era andato a finire, dubitava che potessero venire a ripescarlo.

Scese l’oscurità. Per un po’ Forzon si divertì a guardare le guardie fare la loro ronda nel perimetro del cortile interno. Ognuna brandiva una torcia, le luci si muovevano l’una incontro all’altra, facevano dietro-front, e ripartivano incontro ad altre luci. Erano ronde molto complicate.

Stancatosi dello spettacolo, Forzon si distese sul letto e pensò a Re Rovva. Quello non era un cencio molle, uno che per ragioni di nascita ha ereditato una corona. Gli agenti della Squadra B l’avevano descritto come un uomo robusto, crudele, capriccioso, intemperante, ma dotato di un raffinato istinto che frenava i suoi impulsi malvagi a un pelo dal limite estremo che avrebbe suscitato sdegno e forse ribellione fra i suoi sudditi. Forzon lo vedeva diversamente. Quello era un uomo già anziano, e se la saggezza non era un suo dono di natura se l’era acquisita con gli anni; adesso era profondamente turbato. Egli era il pessimo prodotto di un pessimo sistema, ma Forzon ricordò che i Kurriani erano un popolo profondamente equilibrato e civile… e Re Rovva era anche lui un Kurriano. Si comportava a quel modo non per innata crudeltà ma in virtù di quel diritto che spettava ai re di Kurr.

Prima che la Squadra B potesse indurre il popolo a ribellarsi contro questo re, essa avrebbe dovuto spingerlo a ribellarsi a se stesso. Toccare la coscienza del re: ecco il problema. E la Squadra B aveva preso un completo abbaglio, perché non credeva nella coscienza di Re Rovva.

L’occupante della camera attigua cominciò a gemere e a piagnucolare. Forzon si avvicinò alle feritoie delle finestre e cercò di attrarre la sua attenzione con leggeri fischi e bisbigli. Ma non ottenne alcuna risposta. Tornò nel suo letto. I gemiti e i singhiozzi continuarono, ma Forzon esausto per il lungo viaggio si addormentò di un sonno profondo.

Era mattino inoltrato quando si svegliò. Gli avevano portato da mangiare e non aveva nient’altro da fare che rimanersene accanto alle feritoie a guardare la parata delle guardie nel cortile sottostante. Concluse malinconicamente che le lezioni di pazienza sembravano prolungarsi all’infinito.

I singhiozzi e i piagnistei del vicino ricominciarono. Forzon andò alla porta e chiamò una guardia.

«Che cos’ha il prigioniero della stanza accanto?»

La guardia alzò le spalle e non rispose. Forzon era trattato con una cortesia quasi pignola, ma le guardie non gli rivolgevano la parola.

«Vorrei cambiare camera» disse Forzon. «Il rumore mi dà fastidio.»

La guardia alzò nuovamente le spalle; ma dopo un po’ si udirono dei colpi battuti sulla porta accanto, fu gridato un comando e i singhiozzi cessarono.

Più tardi Forzon fu riaccompagnato nella sala delle udienze. Attraversò di nuovo a testa alta tutta la lunghezza della stanza e questa volta effettuò con fare cerimonioso l’inchino rituale.

Gasq sgranò tanto d’occhi.

«Mi fate l’inchino? Perché?»

«Eccellenza» disse Forzon «avevo sbagliato. L’inchino è un uso del vostro popolo e non è stato cortese da parte mia non rispettarlo. Un ospite civile dovrebbe sempre conformarsi agli usi dei suoi anfitrioni. Riconosco il mio errore e mi correggo.»

Gasq fece un cenno distratto alle guardie che legarono Forzon alla sedia e si ritirarono. «Perché la Squadra B non lascia il Kurr?» chiese Gasq senza preamboli.

«Perché dovrebbe lasciarlo?» disse Forzon rivolgendosi direttamente al re che sedeva immobile nella lunetta di osservazione.

«I suoi regolamenti stessi le impongono di andarsene» insistette Gasq. «Il vostro comando vi ha ordinato di andarvene. Perché non ve ne andate?»

Forzon continuava a tenere gli occhi fissi sul re. «Vostra Maestà è meglio informata di me. Io non so quasi nulla dei regolamenti della Squadra B e assolutamente nulla degli ordini ricevuti.»

«Quando venne quella donna a trovarvi nella moncopoli, vi disse qualcosa degli ordini?» chiese Gasq.

«Neppure una parola.»

«Siete il sovrintendente coordinatore. Avete il potere di ordinare alla Squadra B di lasciare il Kurr.»

«Ho infatti questo potere» confermò Forzon.

«E perché non lo fate?»

«Io non so dov’è la Squadra B, e la mia attuale posizione è quella di un uomo che riceve ordini, anziché dettarli.»

Sorrise e guardò arditamente il re negli occhi. Dall’aspetto, Re Rovva pareva molto perplesso. Aveva finalmente in mano il fuggitivo tanto cercato, e ora non sapeva che cosa farsene. Per la seconda volta valutava tutte le prove e rimaneva indeciso.

Gasq continuò a fargli le stesse domande del giorno prima. Forzon gli diede le stesse risposte e finalmente Gasq lo congedò.

L’incessante piagnucolio del suo vicino lo tenne sveglio tutta la notte, ma Forzon esitò a lamentarsene un’altra volta. Quel dolore gli ricordava troppo le sofferenze che Tor aveva patito. Alla fine sprofondò in un sonno turbato e a un certo momento della notte le guardie lo fecero saltare giù dal letto.

Re Rovva si era finalmente deciso.

Le guardie lo spinsero violentemente fuori dalla sua stanza. Si avviò senza protestare, barcollante e ancora insonnolito e mentre entravano nel corridoio un grido acutissimo infranse il silenzio.

«Forzon!»

Le guardie lo spinsero avanti in fretta, ma non prima che fosse riuscito a lanciare un’occhiata alle feritoie della stanza attigua. Un viso lo guardava, bianco come un fantasma nella luce vacillante delle torce.

Il suo singhiozzante vicino era il Coordinatore Rastadt.

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