CAPITOLO XIV

Per ore e ore la musica delle trombe rintronò sui tetti di Kurra; ma si sentiva solo a tratti nella stanza dove Forzon era stato affrettatamente rispedito quando Re Rovva lo aveva allontanato dalla mente e dalla vista con un cenno distratto. Le feritoie che fungevano da finestre davano sullo stesso cortile della sua prima camera, ma erano situate a un piano più alto. I soldati erano ancora lì sotto, in ordinate file, presumibilmente in stato di pre-allarme nel caso si tentasse di far evadere Forzon. Il re li aveva dimenticati ma aveva lasciato la trappola innescata e pronta a scattare.

I trombettieri di Tor non avevano perduto nulla della loro resistenza. Suonarono sino a pomeriggio inoltrato e solo molte ore dopo che avevano smesso, il trantran del castello tornò normale. Vi fu il solito andirivieni nei corridoi, i carri carichi entrarono nel cortile, i soldati se ne andarono e qualcuno finalmente si ricordò di Forzon e gli portò da mangiare.

Scese l’oscurità. Forzon contemplò fino alla noia la ronda delle fiaccole. Poi la stanchezza derivante dalle notti insonni nel carcere e da una lunga giornata di tensione lo spinsero sul suo letto.

Fu svegliato dal tocco insistente di una mano e da una domanda sussurrata: «Sovrintendente?».

Grugnì, insonnolito.

«Venite! Presto!»

Si strappò dal sonno. Dalla porta aperta, entrava la luce di una torcia a muro nel corridoio, e la figura che si chinava su di lui gettava un’ombra lunga sul muro.

«Chi è?» chiese Forzon.

«Ultman. Ho fatto una fatica del diavolo a trovarvi, siamo in ritardo, andiamo.» Poi sibilò in un comunicatore tascabile: «Ce l’ho, filate.» Poi si avviò.

Forzon si alzò barcollando e lo seguì.

Due guardie erano distese, svenute, sul pavimento del corridoio. Forzon le guardò con compassione mentre scavalcava i loro corpi inerti. Prima dell’alba sarebbero state nel carcere del re, destinate a un incontro con la scatola nera.

Ultman si affrettava a lunghe falcate rapide nel corridoio scuro e Forzon dovette correre per stargli dietro. Al primo incrocio scavalcarono altre tre guardie supine.

«Dobbiamo far presto» disse Ultman, ansante. «Gli ho spruzzato cariche leggere.»

Svoltarono per una rampa in discesa e corsero giù a tutta velocità. Arrivati in fondo, Ultman si fermò bruscamente, fece cenno a Forzon di schiacciarsi contro il muro e si sporse oltre l’angolo a spiare. Indossava una divisa che Forzon non conosceva, munita di un cappuccio che gli nascondeva parte del volto, e il suo volto…

Forzon rimase a bocca aperta. Aveva davanti a sé un vecchio grinzoso, sfigurato da una tumefazione.

«Pare tutto a posto» mormorò Ultman. «Volevo portare un mantello per voi, ma non mi sono azzardato. Oggi le guardie sospettano di tutto. Dobbiamo correre il rischio. Venite.»

Forzon non si mosse. «Il coordinatore» disse.

«Ebbene?»

«Credo sia su questo piano.»

«Ce ne occuperemo dopo. Venite.»

«È prigioniero!»

«Rastadt?»

Forzon fece cenno di sì col capo. «La prima volta mi avevano messo a questo piano, perlomeno credo sia questo. Rastadt era nella stanza accanto.»

«Cambia tutto.» Ultman spinse indietro il cappuccio e si grattò nervosamente il capo. «Debbo tentare, suppongo. Da questa notte in poi nessuno entrerà né uscirà da qui per mesi. Venite.»

Si mossero fianco a fianco. Alla prima svolta Ultman si fermò e si guardò intorno, pensoso. «Sapete come raggiungerlo?»

Forzon scosse la testa. «Tutti i corridoi mi sembrano identici. So soltanto che la stanza guardava sul cortile.»

«Quale cortile?»

«Non sapevo ve ne fossero diversi.»

«Ce ne sono quattro. F_ meglio che me la sbrighi da solo.» Con prudenza aprì la porta e guardò dentro: «Magazzino. Aspettate qui. Se non torno… Prendete.» Passò a Forzon una ruota di corda. «Dovrete arrangiarvi da solo. Cercate di trovare una finestra sull’esterno. Se arrivate fino a terra, ci sarà qualcuno ad aiutarvi.»

Chiuse la porta e Forzon rimase al buio. Il tempo trascorreva. Cominciò a giocare nervosamente con la corda.

Improvvisamente la porta si spalancò. «Presto» sibilò Ultman. Rastadt veniva verso di loro, barcollando, nel corridoio, la figura magrissima avvolta in una mantella nera.

Forzon andò incontro a Rastadt, gli mise un braccio intorno alla spalla e tentò di fargli premura. Ultman andava avanti, esplorando la strada, tornando di tanto in tanto indietro, implorando Rastadt di affrettarsi e tacere. Per Rastadt il passo più rapido era una specie di zoppicamento malsicuro, e nessuna preghiera poteva far cessare il suo lamento che attirava le sentinelle come mosche sullo zucchero. Proseguirono esitanti. Ultman sparava qualcosa da una pistola che emetteva uno strano ronzio, seminando sul suo passaggio guardie svenute in tutti gli angoli del corridoio. Ma anche quel procedere incerto subì un rallentamento quando le gambe indebolite di Rastadt rifiutarono di sostenerlo. Forzon lo portò quasi di peso, e continuò a spronarlo per avanzare, ma venne il momento in cui il coordinatore rifiutò di fare un altro passo. Barcollava, impotente, col volto solcato dalle lacrime, e singhiozzava: «Andatevene. Lasciatemi in pace».

«Ci siamo quasi» sibilò Ultman. Si voltò, diede a Rastadt uno schiaffo sonoro e gli gridò: «Muoviti!»

Il coordinatore vacillò in avanti. Voltarono un altro angolo di corridoio. Ultman mandò a terra un’altra guardia e imprecò quando essa sussultò e cercò di sollevarsi dal pavimento. «Ho finito la carica», annunciò Ultman, e colpì la sentinella dietro l’orecchio col calcio dell’arma. Spalancò una porta. «E ora, se fuori non è successo un pasticcio…»

Forzon persuase Rastadt a entrare nella stanza e chiuse la porta dietro di loro. Ultman si era precipitato verso una stretta finestra. Fece dei segnali con la torcia elettrica. Una luce gli rispose dall’oscurità sottostante. «La corda!» sibilò Ultman. «Dobbiamo calarci giù.» La fece scorrere fuori, la assicurò alla finestra e si voltò verso Rastadt.

«Voi per primo, coordinatore. Credete di farcela?»

Rastadt emise un gemito di sofferenza. «Non posso.»

Ultman gli puntò la lampadina in faccia e Rastadt aprì la mantella e alzò le braccia.

Non aveva mani.


Senza una parola Forzon, tirò su la corda e legò Rastadt sotto le ascelle. Lui e Ultman calarono il coordinatore. Considerata la sua precedente robustezza, l’uomo gli sembrò miseramente leggero. Ma la corda era sottile e scorrendo gli bruciava e gli tagliava le mani.

Finalmente la corda si allentò. Ultman fece cenno a Forzon con un colpetto sulle spalle ed egli uscì dalla finestra. La corda gli segava le mani mentre scendeva, e cercava di frenare la sua discesa usando i piedi. Colpì il terreno con un tale sobbalzo da intorpidirsi le gambe e cadde alla rovescia. Ultman gli veniva dietro e rotolò su di lui.

Delle mani pronte afferrarono entrambi e li rimisero in piedi. Ultman richiamò la corda, la liberò e se l’arrotolò sotto il braccio correndo. Lassù, molto in alto, le finestre del castello erano tutte illuminate. La caccia era in corso.

Rastadt era stato già portato via. Una mano ferma guidò Forzon nell’oscurità, gli fece evitare i corpi inerti delle guardie svenute. Attraversarono la vasta piazza e raggiunsero quelli che portavano Rastadt di peso nel momento in cui arrivavano alle case fiancheggianti il lato opposto della piazza.

Una porta si aprì e si richiuse silenziosamente dietro di loro. Qualcuno spinse Forzon in una camera illuminata e gli diede una manata sulla schiena. La voce era quella di Joe Sornel. Il viso privo di bellezza dell’ex mescitore era irriconoscibile; ma qualsiasi viso che corrispondesse a quella voce sarebbe parso ammirevole a Forzon.

«Ce l’abbiamo fatta» esultava Joe.

«Quell’arma usata da Ultman è un aggeggio utile» osservò Forzon.

Joe assentì. «Pistola paralizzatrice. Non fa piacere usarla, ma in caso di emergenza…»

«Non potete neppure immaginare che razza d’emergenza era questa!»

«Scommettiamo?» disse Joe con truce allegria. «Ma che diavolo è successo? Noi vi credevamo laggiù a godervi una bella e sicura vacanza, poi improvvisamente Hance ci piomba addosso dicendo che il re vi ha acciuffato.»

Forzon si lasciò cadere su una poltrona e accettò un boccale di cril che qualcuno gli aveva spinto nella mano. Quando ebbe ripreso fiato, e anche terminato il boccale, descrisse lo scompiglio suscitato dalla scomparsa di Ann.

Joe alzò le braccia con gesto stanco. «Le donne! Era previsto dovesse rimanere con voi, aiutarvi a elaborare il vostro piano. Invece ritorna qui al galoppo e dice che non avete alcun piano, che non ci pensate neanche e che desiderate soltanto passeggiare nei prati e odorare i fiorellini. Porca miseria! Ma non importa. Abbiamo preso Rastadt.»

«Dov’è?» chiese Forzon guardandosi intorno.

«L’hanno fatto uscire dal tunnel. È in pessime condizioni, e poiché dev’essere portato a braccia, abbiamo pensato di sfollarlo un po’ più lontano, prima che i ruff vengano in visita. Il resto del gruppo può darsela a gambe, in caso di bisogno.»

«E Leblanc? È qui?»

«È andato con Rastadt. Ehi! bisogna far qualcosa per le sue mani. Ha perso sangue a quella maniera per tutta la strada? Lon, il sovrintendente ha lasciato dietro di sé una pista di sangue.»

Lon uscì correndo per andare a vedere. Joe spalmò un linimento rinfrescante sulle mani di Forzon, le fasciò, poi si sedette sorridendo e chiese:

«E che cosa c’è sotto la faccenda delle trombe?»

«Ann non vi ha detto niente?»

«Neanche una parola. Non sapevamo nulla fino a questo pomeriggio, quando una schiera di monchi ha fatto irruzione nella piazza del mercato. Hanno messo in fuga tutti quando sono arrivati. Tutti sono scappati; ma poi sono tornati di corsa quando hanno cominciato a suonare. Sono piovute monetine per venti minuti di fila dopo il primo pezzo. Qual è il vostro asso nella manica?»

Forzon si guardò le fasciature, pensoso: «Le mie braccia» disse. «Due. Complete delle loro appendici, cosa di cui mi sento molto grato.»

«Preferite metterla così, eh? Noi eravamo troppo occupati a preparare la vostra evasione per pensare ai trombettieri; ma, come ho detto a Paul nel momento in cui essi cominciarono a suonare, se occorrevano le trombe, per dare una democrazia al Kurr, non mi meraviglio che l’ERI non abbia fatto progressi in questo paese. Ci sarebbero voluti quattromila anni, prima che qualcuno dell’ERI pensasse alle trombe. Trovato nulla, Lon?»

«No» rispose l’altro agente ERI. «Non deve aver perso molto sangue. Ma ho visto delle torce in arrivo. Si spargono in ogni direzione, visiteranno ogni casa.»

Joe grugnì con disprezzo. «Non hanno aspettato il mattino. Prendete il boccale, signor Sovrintendente. Lon non vuole rimangano tracce di visite qui dentro. Lo potrete abbandonare nella galleria. Buona fortuna, Lon. Ci rivediamo domattina… forse.»

Spinse Forzon verso il tunnel.

Seguirono un percorso complicato che gli ricordava l’itinerario di quella sera in cui il pianeta pareva bruciato. Forzon uscendo dalla quinta galleria consecutiva disse con meraviglia:

«Hanno trasportato di peso il coordinatore attraverso tutti questi tunnel?»

«Erano in molti» disse Joe. «Vi sono anche delle scorciatoie, ma non si saranno arrischiati a usarle, col coordinatore. I ruff stanotte faranno fuoco e fiamme. Anche voi dovrete evitare di uscire per strada finché le vostre mani non siano guarite.»

«E che mi crescano i capelli…» suggerì Forzon.

Joe rise. «Per quello basterà una parrucca, e avrete ampia scelta fra un centinaio di pettinature.»

Leblanc li stava aspettando al luogo d’incontro, un altro sottoscantinato con entrata nascosta. Il comandante della Squadra B non era più il vecchio gentiluomo di campagna. I suoi capelli erano più folti e più scuri, indossava l’abito del contadino comune e il suo viso aveva acquistato miracolosamente l’opportuna rudezza. Distrattamente, strinse la mano fasciata di Forzon, pronunciò, sorpreso, una scusa, e la esaminò preoccupato. Disse: «Mi fa piacere rivedervi, signor Sovrintendente. Abbiamo fatto un grave errore di calcolo. Per fortuna non è andata peggio.»

«Come sta il coordinatore?» chiese Forzon.

«Male. Molto male, fisicamente e moralmente.» Sospirò. «Queste cose purtroppo accadono. So che in questo caso non è colpa mia, ma non posso fare a meno di pensare alla facilità con cui tutto ciò si sarebbe potuto evitare. Ha chiesto di voi, vuole vedervi. Non sarà un incontro piacevole. Ve la sentite?»

Forzon annuì.

Leblanc aprì una porta e la tenne spalancata mentre Forzon si dirigeva verso il pagliericcio dove riposava il coordinatore. Per molti minuti Rastadt non si accorse della sua presenza. Alla fine si voltò e incontrò lo sguardo di Forzon. «Grazie» disse, e scoppiò a piangere.

Leblanc trasse indietro Forzon silenziosamente. Si sedettero nella stanza attigua. Leblanc gli versò una ciotola di vino e annunciò laconicamente. «Abbiamo commesso un errore terribile.»

«In che senso?» chiese Forzon.

«Rastadt è stato prigioniero fino da quella notte in cui voi due siete scesi in Kurr.»

«Volete dire che… l’imboscata sulla costa…»

Leblanc fece segno di sì. «Fu catturato e portato a Kurra di nascosto, e da quel momento è sempre stato prigioniero. L’hanno torturato. In modo orribile.»

«Ma voi avete ricevuto dei messaggi da lui dopo…» Forzon si alzò di botto rovesciando la ciotola di vino: «Wheeler

«Sì. Wheeler, maledetto quel verme schifoso. È stato lui a farvi imparare una lingua sbagliata, a far indossare a entrambi il costume larnoriano, a scegliere il punto di discesa dove era meno probabile che gli agenti della Squadra B vi trovassero. È stato lui a informare gli uomini del re del vostro arrivo. Credendovi entrambi prigionieri, ha preso il comando della base, firmando i messaggi col nome di Rastadt. Quando seppe che eravate salvo, tentò di distruggere tutta la Squadra B per coprire il suo tradimento.»

«Capisco.»

«Rastadt era solamente un uomo già senile, che si era lasciato sfuggire di mano il comando. Wheeler era il suo vice da anni. Era un buon vice: fin troppo! È stato lui a creare la reputazione di Rastadt, e Rastadt si fidava di lui ciecamente. Suppongo… Be’, non so. Penso gli scottasse molto fare il lavoro di un altro che poi se ne attribuiva il merito. Ma ciò non basta a spiegare questo.» Scosse il capo. «È stato Wheeler a intromettersi nelle faccende della Squadra B, a nome di Rastadt, e il coordinatore non ne ha saputo un bel niente. Ignorava quasi tutto del Kurr e sapeva pochissimo del Larnor, e Wheeler lo manovrava come voleva. Ha manovrato anche voi, naturalmente.»

«Wheeler deve aver corrotto un bel numero di impiegati della base.»

«Temo proprio di sì.»

«Ma perché? La cosa non si spiega, né con Wheeler né con Rastadt.»

Leblanc disse lentamente: «Non lo so. Io… non so.»

«Hanno tentato di costringere Rastadt a parlare» disse Forzon. «E lui non poteva dire niente, anche volendo, perché non sapeva niente. È per questo che l’hanno torturato.»

Leblanc annuì, e il suo volto era grave e pallido.

«Questo spiega lo strano comportamento del re nei miei riguardi» continuò Forzon. «La tortura non aveva piegato Rastadt. Questo probabilmente non era mai successo in tutta la storia del Kurr. Quando ho detto al re che non sapevo nulla è rimasto stupito. Aveva sottoposto un ufficiale ERI alla scatola nera e ne aveva ricavato solamente un prigioniero mutilato. Non valeva la pena di mutilare anche me per lo stesso risultato. Ha eercato di utilizzarmi meglio.»

«E in tal modo siete stato tratto in salvo» disse Leblanc con un risolino. «Se non avesse sguinzagliato i suoi ruff e non vi avesse mandato ostentatamente in giro per le strade della città, chissà quanto tempo vi avrebbe tenuto prigioniero senza che noi lo sapessimo.»

«E se il coordinatore non avesse perso le mani, io avrei sicuramente perso le mie.»

Leblanc alzò le spalle. «Ciò che gli è accaduto è colpa sua, tuttavia mi fa compassione. Le sue sofferenze sono atroci per una colpa così modesta come quella di voler rimanere in servizio quando non si è più in grado di assolvere i propri compiti. Ma ora è fatta, ed entrambi siete salvi.» Allargò le spalle alla maniera di chi ha un lavoro da espletare e vuole andarvi avanti. «Parlatemi delle trombe.»

«Che cosa contate di fare, a proposito di Wheeler?»

«Nulla. Seguire le stesse direttive che ci avete dato quando credevamo si trattasse di Rastadt. Lo ignoreremo.»

«Avete ricevuto comunicazioni dalla base?»

«No, sin da quel messaggio che ci ordinava di sgombrare il campo. Abbiamo semplicemente spento tutto.» Alzò le spalle. «Al diavolo Wheeler. Non può toccarci. Ditemi delle trombe.»

Forzon sorrise e scosse il capo.

«Io non sono un SC» disse Leblanc «ma mi è sembrato che suonassero maledettamente bene.»

«I Kurriani hanno la musica nel sangue.»

«Adorano la musica delle trombe. Quando sono arrivati i trombettieri tutti hanno fatto fagotto. Negozi chiusi, contadini che riponevano in fretta e furia le merci nei carri, cittadini che correvano al riparo, e loro, i trombettieri, se ne stavano lì, come se non c’entrassero. Cominciarono a suonare, e quando terminarono il primo pezzo, la piazza del mercato era già nera di gente che urlava e gettava monetine. Un paio di settimane così, e i vostri trombettieri saranno ricchi e indipendenti. Confesso però di non capire ancora quale sia il vostro obiettivo.»

«Potremmo considerarlo come un esperimento scientifico» disse Forzon. «La vecchia massima della forza irresistibile e dell’oggetto immobile.»

«Ancora non capisco.»

«Non potete» disse Forzon. «Non capisco neanch’io. Temo di aver puntato la mia forza irresistibile nella direzione sbagliata e non posso farci nulla perché non so quale sia.»

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